Per una filosofia della morale
(Il pensiero occidentale)EAN 9788845265938
È di certo una lodevole scelta editoriale quella - messa in atto dall’editrice Bompiani nella prestigiosa collana “Il pensiero occidentale” - di pubblicare la raccolta, in un unico volume, delle quattro opere teoretiche principali del celebre filosofo napoletano Pietro Piovani (1922-1980). Il tentativo di individuare una continuità nella successione delle opere - ciascuna delle quali è introdotta, con competenza, da alcuni importanti interpreti e allievi dell’A. -, nasce dall’intuizione di F. Tessitore, animata dalla volontà di individuare una filosofia, che sia non una tra-le-tante, ma una con-le-altre, consapevole di dover abbandonare le sue pretese assolutistiche, il suo infondato assurgere a unica detentrice del vero, perché il verum assoluto non è più dato: ora si fa come risposta individuale all’aspirazione universale di verità.
La raccolta si apre con Normatività e società (85-288), un testo del 1949 - introdotto da G. Cacciatore - in cui si incontra un ventisettenne Piovani, già molto maturo nel riconoscere come centrali questioni che saranno care alla sua speculazione successiva e che, in quanto filosofo del diritto, non poteva muovere i primi passi del suo cammino teoretico se non ponendosi il problema della norma. Auspicando il superamento congiunto del particolarismo volontaristico ed anomico e dell’universalismo intellettualistico, portavoce di sistemi assoluti e principi trascendenti fagocitanti l’individualità agente, l’A. si fa interprete di un’immagine per via negativa della norma: essa è «ciò che non è, l’uomo rende misura di ciò che è» (199). Privata di ogni contenuto specifico e resa misura razionale di ogni umana attività, la norma viene presentata in una prospettiva tendenzialmente ontologistica - propria solo di questa fase speculativa giovanile - come a-volontaria e metaempirica. Tuttavia l’A. è ben lontano dal recidere i legami con la vita e collocare la norma alla stregua di un astratto principio intellettualistico nei sicuri terreni della logica: essa piuttosto rappresenta l’autentico legame tra pensiero e azione, la «presenza metafisica immanente nella natura umana», la dimensione metaempirica che l’individuo trova in se stesso e che si manifesta nel bisogno di trascendere la propria particolarità transeunte, per «collettivizzare la propria singolarità nella partecipazione all’universale» (105).
Sono sin d’ora ben chiare, da un lato, le critiche al solipsismo che vede l’individuo arroccato in una irrazionale difesa della sua solitaria singolarità e, dall’altro all’attivismo, idolatria dell’azione per l’azione, il quale finisce per rendere impossibile l’azione stessa. Per l’A. l’individuo non può mai starsene da solo, non può mai considerare singolo ogni suo atto mentale o pratico proprio in virtù del fatto che si scopre abitato da un principio di normatività, implicante l’obbligo di trascendere l’unilateralità per una apertura prospettica all’universalità della ratio, garanzia dell’effettività sociale, ma soprattutto della comunicazione sociale. Il discorso si trasla così nell’ambito della riflessione sulla società, dal momento che quest’ultima non avrebbe .ragione. di essere se non attraverso il ricorso a un complesso di regole, a una “norm-azione”. condivisa, intesa come attività dinamica, di ciascuno e tutti, avente come scopo la costruzione continua di un incontro possibile tra individualità animate da un bisogno comune di misura che possa garantire una misura di comunità. Tuttavia l’idea del riferimento a una ragione non deve essere intesa come ripristinato universalismo negatore della tensione; difatti, l’aspirazione universalistica trova la sua estrinsecazione nel diritto che non si identifica con la ragione cui l’uomo deve conformare la sua attività, ma esso stesso diventa la primaria attività umana in cui si esplica l’invenire rationem di vichiana memoria. «La ragione è l’idea del diritto, il diritto è il fenomeno della ragione» (170).
Il diritto è intrinsecamente storico, dunque mai conchiuso in rinnovate assolutizzazioni, esso guarda l’empirico, che deve essere di volta in volta riferito a una norma di cui l’uomo è chiamato a dare “ragione”. Pertanto, l’obbedienza alla norma, prescritta dal principio di normatività, assume la forma di un obbedienza non passiva, ma attiva che, essendo legata all’azione dell’uomo, lo rimette alla sua libertà, ma soprattutto alla sua umanità. Segue poi l’edizione del 1968 di un testo già pubblicato nel 1958, Linee di una filosofia del diritto (316-630), con l’introduzione di G. Acocella. In questo lavoro, un Piovani più maturo si mette sulle “tracce” del soggetto e, addentrandosi nello studio della storia della filosofia del diritto, individua due tendenze filosofiche che si sono dibattute il primato nella storia del pensiero: quella dell’universalismo, che, accecato dalla “grandezza”, rischia di sacrificare l’individualità col ricondurla in una forma astratta e forfettaria, e quella del particolarismo che considerando ogni singola realtà come autonoma e scissa dalle altre, non riesce a cogliere la tensione all’universale, propria di ogni individuale. Così, individuando il limite maggiore di queste tendenze, l’A., per non imbattersi nella medesima mancanza, parte dal soggetto, compiendo un percorso a ritroso e, nel progresso del regresso alla ricerca della prima volizione (del primo atto di consapevolezza), prende atto di un dramma: non ci si può spogliare della propria soggettività. Il che conduce a riconoscere un dato oggettivo all’origine della soggettività di ciascuno, il momento antepredicativo, precedente alla volontà e alla ragione, non è deciso dall’io: «io che voglio non mi sono voluto» (505).
Come la soggettività, anche la conoscenza non si può separare dal soggetto conoscente, la ragione può criticare se stessa o dimostrare se stessa solo con se stessa, pertanto c’è bisogno di riporvi una fiducia cieca, irrazionale: l’origine della razionalità si scopre irrazionale, il pensiero diviene un assioma, una «petizione di principio» (508). E tuttavia il soggetto, nonostante sia distrutto dalla presa di coscienza di non determinare il proprio essere soggettivo o il proprio essere razionale, ma di essere determinato da entrambi, può affermare ancora la sua libertà. Può rinunciare a essere, seguendo la strada drammatica, ma legittima, del suicidio, o scegliere di vivere la propria finitezza, di accettarsi come soggettività e oggettività a un tempo, come volente e voluto, il che porta con sé il riconoscimento del fatto che la libertà è un attivo “farsi libero”. Ora, se l’io è più del suo volere e pensare immediato, dal momento che «l’universale non è fuori dell’individualità, non si impone, dall’esterno, all’individualità o ne vive separato» (513), ma vive in essa, e se «negli stati necessari della mia condizione di conoscente trovo già gli obblighi morali propri della mia condizione di agente» (515), allora, se tutto ciò è consentito, si può dire che nella scelta di esistere, che è anche e innanzitutto scelta di co-esistere, risiede la possibilità della fondazione della morale. La condotta morale non è altro che fedeltà alla scelta di vivere e, viceversa quella immorale, della lesione altrui, intesa come ostinato singolarismo, è un comportamento illogico e contraddittorio ancor prima di essere immorale. Se allora il diritto, in linea con quanto sostenuto nel '49, non è un dato, non implica una ripartizione preventiva degli spazi di espansione di ciascuno, è dunque incompiuto e si dà e si fa nella storia; questo diritto finisce con l’identificarsi con la coscienza morale.
Passaggio fondamentale, quello dal “diritto” alla “coscienza morale”, visto che, proseguendo tra le pagine della raccolta, si incontra - anticipato dall’introduzione di G. Cantillo - il testo Principi di una filosofia della morale (659-872) edito nel 1972, nel quale Piovani, affrancandosi dall’ontologismo giovanile, volge lo sguardo al piano ontico, per una analisi fenomenologica dell’esperienza morale che, sulla scia del suo maestro G. Capograssi (ma anche di Vico e Blondel), si fa nell’azione responsabile dei singoli. Tale prospettiva conduce Piovani ad aderire a una forma di pluralismo etico che non implica una ricaduta nel relativismo particolaristico, ma è accettazione della relatività e, dunque, rispetto “alteritario” in virtù della tensione universalistica che caratterizza l’essere dell’uomo. Negli anni della .crisi del soggetto., l’A. si volge alla fenomenologia, all’esistenzialismo, agli studi sull’inconscio, per decostruire e confutare l’ipertrofia del Soggetto Assoluto, il che lo porterà a fondare uno storicismo esistenziale che muove dalla presa d’atto dell’esperienza tutta mondana dell’esser-ci. «Mi esperisco dunque esisto»: con queste parole Piovani rompe con la tradizione cartesiana, calando il cogito dal terreno sicuro della razionalità al mondo diveniente della storia. Ora non è più il pensiero a essere garante dell’esistenza, piuttosto è l’esistenza a essere garante del pensiero. L’uomo si ritrova gettato qui e ora in un’esistenza inevitabile, ma non voluta, oggettivo, cosalizzato, e tuttavia, nel ri-conoscimento della datità originaria, l’individuo risulta essere in grado di mediare il dato primigenio attraverso il contributo soggettivo del pensiero: riconoscendo l’oggettivo che è parte di sé, egli lo inserisce nella sfera della sua soggettività. Inoltre, per Piovani, «come l’individuo umano, la società è un volente non volutosi», e perciò la coesistenza non risulta dall’accordo tra le volontà: «essa è un fatto che modifico prendendone atto» (738).
Opponendosi sia al contrattualismo sociale che all’obbligazionismo morale, l’A. riconosce che lo stare con gli altri non è un dovere precettivo, ma personalitario, si configura cioè, sulla base del fatto che tutti siamo forniti di personalità. Contro la staticità sostanzialistica del concetto di persona, Piovani invita a cercare la persona nel deficere, in virtù del quale essa si mette in movimento per formarsi, per dare luogo alla propria instaurazione “personalitaria”, tratto essenziale della dinamica storicità dell’esserci. Il personalismo cede il passo al personalitarismo. Ma se la persona è impulso di espansione, e l’esistenza è sempre coesistenziale, dunque intrinsecamente etica, allora l’espansione si configurerà come alteritaria, implicante il necessario riconoscimento e rispetto degli altri. Anticipando le ultime riflessioni, si legge: «veramente essenziale all’uomo è l’assenziale» (837), il volente non accetta di non essersi voluto, tuttavia può scegliere di volersi volendo, riscattando l’oggettività che caratterizza la sua soggettività attraverso l’azione. L’individuo investe tutto il suo impegno esistenziale nel tentativo di trovare risposta concreta alla sua esigenza di valori, la quale si oggettivizza nell’eticità intesa come formazione di valori, valor-azione.
L’accusa di relativismo opponibile a tale etica cade nel momento in cui Piovani si serve del formalismo kantiano che riconosce il valore etico di quelle azioni individuali, animate dalla tensione universalizzante, per giungere a un “formazionismo”, includente pertanto il valore dell’umana attività di oggettivazione intersoggettiva dispiegantesi nel mondo storico. L’ultimo lavoro, Oggettivazione etica e assenzialismo (951-1054) completato nel 1979, ma pubblicato postumo nel 1981. introdotto da G. Lissa e da un’ulteriore intervento di Tessitore - porta a termine il disegno dei Principi. Piovani parte dal prendere atto della crisi dei valori della cultura novecentesca, rispetto alla quale la filosofia deve spogliarsi dalle sue vestigia metafisiche, abbandonare il terreno imperituro dell’essere, per andare ad abitare il precario mondo storico degli uomini. L’ontologia, qui, si fa “umanologia”, studio dell’uomo nel suo farsi, dunque etica che è a un tempo conoscenza storica e coscienza morale. Tale filosofia dell’azione si configura innanzitutto come assenso a una assenza di essenza: il riconoscimento costitutivamente de-essenziale, spinge l’uomo che accetta di esistere, ad agire per colmare tale deficienza. Inoltre la rinuncia alla purezza soggettiva porta l’uomo a prendere atto dell’altro che è dentro di lui e gli altri che sono con lui: solo così dunque l’individuo può riscattarsi, nell’apertura agli altri che si dispiega nel mondo storico. Qui i volenti, mediante una «cooperazione coesistenziale» (979), oggettivizzano le esigenze della loro soggettività, sorte dall’assenza costitutiva, dando luogo a delle trasfigurazioni etiche: l’incontro con le azioni altrui pone in essere una rete di relazioni sociali che consentono una qualche stabilità aperta, mai definitiva. Venendo ad abitare l’insicuro mondo della storia, l’esistente si scopre tragicamente finito. Ecco che l’uomo deve divenire capace di rompere la ripetitività del tempo per sottrarre la sua esistenza dal precipitare nell’inesistenza.
Il tema del negativo in Piovani non tende a celebrare l’assolutezza di un nihil uguale e contrario a ogni tipo di ontologismo. Infatti nella percezione della precarietà dell’esistere, il difetto attiva l’effetto, la deficienza l’efficienza, l’individuo incalzato dall’inesistenza, insiste nello sforzo agonistico di esistere. La morte diviene così il motore della vita, che deve essere accettata come dato, imprescindibile, immodificabile e non mediabile. La morale di Piovani si configura come filosofia della vita che include anche la morte, una morte che rappresentando il momento supremo dell’espansione personalitaria, consola, apre alla speranza, dal momento che «consente, infine, di toccare la compiutezza in cui tutte le assenze si verificano vanificandosi» (1054). Il volume infine presenta in Appendice un riferimento a Capograssi, che raccoglie alcuni interventi dell’A. in merito al suo maestro (1057-1191), di cui, come ci indica Piovani stesso, «non tento nemmeno di rievocare quella parte di Lui che è parte integrante di me» (1059).
Orbene, proprio per questo motivo queste ultime pagine sono funzionali alla comprensione dell’universo speculativo che fornì una bussola morale all’A.: si veda infatti l’affinità ermeneutica allorché Piovani riporta una concezione di Capograssi di cui egli fu un brillante interprete: «il pensiero del soggetto che così si umanizza non può essere realizzato che nella sua intrinseca collettività: o è collettivo o non è» (1190).
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 4/2012
(www.rassegnaditeologia.it)
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