La felicità
-Summa Theologiae. Questioni 1a-5a
(Testi a fronte)EAN 9788845264207
Il volume, che fa parte della prestigiosa collana Bompiani Testi a fronte, affronta il grande tema della felicità in Tommaso, grazie al contributo di Umberto Galeazzi, al quale si deve la cura e la traduzione di altri importanti scritti tommasiani (le Questioni disputate sul male, apparse in due distinti volumi, ovvero Il male e la libertà [qq. I, II, III, VI] e I vizi capitali [qq. VIII – XV], pubblicate entrambe dalla Biblioteca Universale Rizzoli) come pure un appassionato lavoro di ricerca sul pensiero dell’Aquinate (si vedano, in particolare, Problemi di fondazione dell’etica. In dialogo con Tommaso d’Aquino e con il pensiero contemporaneo, Pescara 1999 e Tommaso d’Aquino nel pensiero contemporaneo, Aracne, Roma 2008). Alla traduzione della Summa Theologiae. Questioni 1a-5a, il curatore affianca un ampio Saggio introduttivo che, insieme al ricco apparato di Note al testo e alle Parole chiave, aiuta il lettore ad acquisire familiarità con il mondo speculativo dell’Aquinate e ad affrontare un tema di così grande interesse come quello della felicità attraverso un approfondimento teoretico e una rigorosa discussione critica con il pensiero della modernità (intendendo questo termine come inclusivo dell’età contemporanea). Al fine di individuare quelli che sono o possono essere i quadri di riferimento del lettore, ossia l’orizzonte di senso accettato come paradigmatico che lo condiziona inevitabilmente rendendogli problematica la comprensione di nozioni, parole e teorie che compongono l’universo tommasiano, vengono descritte le concezioni etiche che si sono imposte nella modernità facendo notare che esse, indagando prevalentemente quegli aspetti della nostra esperienza morale relative alla sua dimensione normativa, riducono la vita etica all’osservanza dell’obbligazione e, ritenendo di doversi dedicare esclusivamente a delimitare i contorni e i contenuti della norma, si limitano a interrogarsi su ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare. Il senso più profondo della riflessione tommasiana permette invece di capire perché l’etica possa essere intesa come indagine critica della ricerca umana della felicità. Il suo nucleo fondamentale, infatti, non riguarda l’individuazione di mere regole del comportamento dell’uomo, ma la scoperta delle leggi del suo compimento, di ciò che lede la sua natura e la sua dignità, di ciò attraverso cui egli definisce la sua intera realtà personale, di ciò che ha il massimo valore per la sua esistenza e, anzi, la rende possibile, dandogli la coscienza del criterio in base al quale orientare le sue azioni concrete. Dunque proprio le questioni che sono state obnubilate nella impostazione moderna. Il confronto critico che viene stabilito rende però vigile criticamente il lettore nei confronti delle proprie sedimentate precomprensioni offrendogli la possibilità di rileggere l’etica moderna alla luce di un’etica come quella tommasiana che pone al suo centro la questione decisiva dell’esistenza, ossia la felicità. Tommaso vuole comprendere il dinamismo dell’agire guadagnando un piano più profondo della nostra coscienza morale. Mettendo in luce le radici delle azioni umane scopre che ogni uomo ricerca quel bonum, ossia quella realtà extra-soggettiva che appaga la naturale tensione del suo desiderio verso la piena realizzazione di sé. Già Aristotele aveva rilevato che l’uomo agisce sempre in riferimento ad un fine, un fine che non può che avere le sembianze di un bene. Il fine è dunque principio dell’azione (degli atti umani) e il tendere verso un fine percepito come bene è ciò che rende intellegibile l’attività umana: il fine rende sensato l’agire dell’uomo e ne chiarisce la specificità. Gli otto articoli della Questione 1 affrontano in questi termini la grande problematica riguardante il fine ultimo dell’uomo e Tommaso mostra come il soggetto umano non solo sceglie i fini delle singole azioni, ma è capace di valutare comparativamente i diversi beni finiti stabilendo un ordine di priorità fra quelli che inevitabilmente deve scegliere e decidendo quale sia da considerare il proprio bene-fine supremo. Le questioni poste non sono perciò, come il curatore sottolinea, solamente di natura intellettuale, ma riguardano le scelte decisive dell’esistenza: ogni uomo è chiamato a discernere ciò che per lui è più importante, ciò che merita la sua dedizione e il suo amore. Tommaso ritiene che ogni uomo ha un fine che almeno di fatto, con le sue scelte, rappresenta per lui il bene sommo, ma il punto decisivo che egli sottolinea è che quel bene che il soggetto considera come fine ultimo o bene sommo ordina il suo sistema di vita e cioè la sua gerarchia di valori. Se il bene supremo per Aristotele è l’insieme di tutte le perfezioni nel grado massimo della loro attuazione, per Tommaso è quel bene che permette di ordinare gli altri beni gerarchicamente, è misura e criterio di valutazione. In base ad esso valutiamo, stabiliamo un ordine di preferenze. Per Tommaso perciò diventa decisivo chiedersi: per quale fine impegno tutta la mia vita, in quanto lo ritengo il sommo bene? Qual è il valore supremo, quello che conferisce senso alla mia vita, quello senza il quale non vorrei vivere, quello per il quale sono disposto a sacrificare tutto il resto? Che cosa mi sta veramente a cuore? Nella Questione 2 l’analisi tommasiana procede perciò chiedendosi quali siano «le realtà in cui consiste la felicità umana» e, affrontando la delicata questione del rapporto che intercorre fra tensione alla felicità e libertà, prelude alla Questione 3 in cui ci si volge a chiarire «che cosa è la felicità» e alla Questione 4 in cui ci si interroga su quali siano «le realtà che sono richieste per la felicità». Il recupero del senso profondo della speculazione dell’Aquinate permette di fugare ogni dubbio riguardo al carattere liberatorio (e non repressivo) della legge morale che non proibisce ciò che l’uomo desidera, ma indica all’uomo la via della felicità. Partendo dall’esperienza umana quotidiana e non da un’astratta visione delle cose Tommaso descrive l’esperienza della delusione e dell’inganno che si verificano inevitabilmente quando sui beni particolari, finiti che catturano il nostro desiderio e in cui riponiamo la nostra speranza di felicità viene convogliato il nostro desiderio di assoluto e di infinito, oscurando ciò che davvero è in grado di dar risposta al desiderio di felicità dell’uomo, allontanando da quel bene in cui veramente si trova l’essenza del fine ultimo. Questo non significa però che sia sbagliato inseguire i propri desideri e che i desideri dei beni terreni non debbano essere soddisfatti, ma solo che nessun bene particolare può assolvere la funzione di decidere tutto il nostro «sistema di vita». Tommaso spiega perciò come in questo processo, inaggirabile e ineludibile, in cui l’individuo è chiamato a chiarire a se stesso cosa doni senso alla sua vita e conduce alla sua piena realizzazione (felicità), è la decisione sul fine ultimo quella che va ad incidere in modo radicale sulla scoperta e la costruzione della sua identità e dà senso e direzione al suo agire o, meglio, alla sua intera esistenza. Ora, questa connessione profonda delle azioni con le questioni relative all’identità della persona, alla costruzione della personalità e della sua identità morale permette di chiarire il nodo teoretico ed esistenziale che emerge in tutta chiarezza nella Questione 5 dal titolo Il conseguimento della felicità e che il curatore ha premura di evidenziare già di fronte alla traduzione del termine beatitudo che racchiude in sé una ricchezza di senso ampiamente fraintesa. A molti è sembrato che concepire la vera felicità come una realizzazione ultima e trascendente possa implicare una radicale alterità fra felicità perfetta della vita ultraterrena e felicità imperfetta terrena pur considerando la seconda come momento di preparazione e di partecipazione alla prima, ma Tommaso affronta proprio questa questione e partendo dalla concreta esperienza umana mostra come sia un non senso ritenersi posti di fronte al dilemma della scelta. E del resto anche il curatore fa notare che se, per Tommaso, il bene dell’uomo portato alla sua perfezione è il fine ultimo, la felicità (la beatitudo) è il compimento dell’esistenza e non è dunque sostanzialmente diversa da quella che viene chiamata “vita buona”. Tommaso rivela l’intreccio o, meglio, quella connessione che l’uomo contemporaneo non sembra più in grado di cogliere fra la naturale aspirazione all’espansione e al compimento della propria natura e l’aspirazione al bene oggettivo e trascendente. La non contraddittorietà fra i due momenti è mostrata molto efficacemente attraverso la distinzione fra amore di amicizia e amore di concupiscenza che permette di capire in profondità questa complessa e delicata questione riguardante il rapporto inscindibile tra costruzione di sé (realizzazione di sé, della propria natura, della propria identità) e bene oggettivo e trascendente. Ed è qui che l’Aquinate mette in luce l’aspetto peculiare della natura umana: essa si realizza quando il soggetto ama davvero. L’uomo dunque non si realizza rimanendo chiuso nella propria soggettività, ma trascendendo i limiti della propria finitezza, nell’apertura all’altro da sé. Il punto davvero importante è che quando l’uomo si apre ad accogliere ciò che è degno di essere amato per se stesso e non in riferimento alla propria vita, egli sperimenta in se stesso il bene, è in risposta al bene percepito ed amato per se stesso che sente di compiere atti in cui realizza se stesso e mette a fuoco e realizza la propria identità. Il legame che annoda indissolubilmente l’aspetto soggettivo e quello oggettivo della felicità viene in questi casi sperimentato nitidamente: il bene non è solo ciò in base a cui si possa o debba definire la bontà della propria azione, ma è principalmente ciò il cui amore ci motiva all’azione buona; il bene non è ciò che si aggiunge all’essere estrinsecamente perché in realtà il soggetto sente che aderendo a quel bene dà forza a ciò che è dentro di lui. La felicità viene sperimentata non come qualcosa di estrinseco che si aggiunge all’agire, ma come qualcosa di intrinseco che accompagna il buon agire e che, in qualche modo, fa presagire, anticipa la conquista di una condizione definitiva e stabile. La legge morale viene vissuta non come ciò che si impone all’uomo, ma ciò che lo aiuta a dispiegarsi come essere umano e la norma morale viene vista come ciò che lo guida verso il bene e dunque niente affatto inibitrice e repressiva. L’agire morale dunque è in vista del pieno compimento di sé e promuove lo sviluppo umano, la realizzazione delle persona che proprio perché e quando si realizza come persona consegue il bene a cui è destinata. Questo compimento si realizza progressivamente nello spazio temporale dell’uomo, pur nei limiti in cui essa può realizzarsi nella vita presente. Ma poiché il fine ultimo dell’uomo, la sua felicità perfetta, consiste nell’amare Dio, molto efficacemente il curatore nel suo saggio introduttivo mostra come proprio questo sia il punto cruciale. Per ben capire la rilevanza che ha per un’etica filosofica l’indicazione di un fine ultimo non conseguibile con le sole forze dell’uomo, né nella vita terrena, si lascia emergere quale sia il rapporto fra un fine ultimo così inteso e l’agire etico e terreno dell’uomo e, tenendo conto della specifica natura creaturale e razionale dell’uomo, si mostra come l’agire umano sia guidato dalla ragione e dunque dalla sua capacità di discernere il fine ultimo e come, nello stesso tempo, agire eticamente sia agire secondo il Suo disegno d’amore. La vita etica rappresenta pertanto la «prima tappa indispensabile per quella partecipazione al fine ultimo accessibile all’uomo in questa vita».
Tratto dalla rivista Aquinas n. 1-2/2011
(http://www.pul.it)
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