Il saggio elaborato dal professor Giorgio Jossa, già docente di Storia della chiesa antica presso l’Università Federico II di Napoli, studioso apprezzato e stimato per la sua competenza e il suo acume, intende rispondere a una domanda di fondo, tutt’altro che originale, ma non per questo meno rilevante: “I testi che costituiscono il fondamento della fede cristiana, e cioè i testi che formano il Nuovo Testamento, quindi, principalmente i quattro Vangeli e lettere di Paolo, sono rimasti sostanzialmente fedeli all’insegnamento di Gesù o ne costituiscono un’evidente deformazione, diciamo pure un sostanziale tradimento?”. Il testo è strutturato in quattro capitoli, preceduti da un’introduzione tesa a illustrare il problema (pp. 9-22): L’interpretazione canonica: Marco, Luca, Matteo e Giovanni (pp. 23-49); Canonici o apocrifi? (pp. 51-77); Gesù ebreo (pp. 79-105); Il “vangelo” di Paolo (pp. 107-132). La conclusione offre uno sguardo sintetico sui temi affrontati (pp. 132-138). La domanda che dà il titolo al volume non è inedita nella storia della ricerca; l’autore offre una puntuale delucidazione sui contributi offerti dagli studiosi nel corso dei secoli.
Appare, tuttavia, ben evidente che Jossa non trascuri affatto i testi, soprattutto di carattere divulgativo (e talora polemico), prodotti dalla saggistica recente, come il Codice Da Vinci di D. Brown; Inchiesta su Gesù di C. Augias e M. Pesce; Gesù di Nazaret di Benedetto XVI. Il taglio metodologico adottato è dichiaratamente storico: lo studioso napoletano intende recuperare la figura storica di Gesù dichiarando che: «c’è uno sviluppo storico da Gesù ai Vangeli che, se per il teologo non costituisce un problema, perché l’interpretazione dei Vangeli canonici è anch’essa parte della rivelazione divina, è invece un problema per lo storico, perché esige la valutazione critica di quei documenti» (p. 25). I Vangeli pongono, tuttavia, ulteriori problemi allo storico, costretto a districarsi tra la pluralità e la diversità delle testimonianze sulla persona di Gesù, come anche sulla non infrequente divergenza dei dati storici. È necessario puntualizzare che i Vangeli non costituiscono un resoconto biografico sulla vita di Gesù, bensì la testimonianza di fede che i discepoli hanno comunicato dapprima oralmente e, posteriormente, per iscritto. A tal proposito, Jossa è sicuro di poter dichiarare che la tradizione formatasi sulla persona di Gesù abbia preso le sue mosse dalle apparizioni del Risorto ai suoi discepoli e dalla conseguente fede di questi ultimi nella sua risurrezione. L’interpretazione presente in Marco, Luca, Matteo e Giovanni si configura come una rilettura teologica della persona di Gesù, «interamente fondata sul paradosso che il Cristo della fede delle comunità cristiane è proprio il Gesù terreno conosciuto dai suoi discepoli» (p. 49). I Vangeli riconosciuti dalla chiesa come canonici sono, tuttavia, l’unica testimonianza sulla persona storica di Gesù? I Vangeli cosiddetti apocrifi offrono delle testimonianze attendibili? Nel secondo capitolo, si affronta la questione legata ai testi apocrifi.
A differenza della corrente di pensiero attuale che descrive lo sviluppo della tradizione primitiva del cristianesimo come una transizione dalla pluralità ermeneutica sulla figura di Gesù ad un’unità postuma, l’autore propende a favore di un’originaria unità del kerygma, all’interno della quale vanno ricondotti anche i dissensi esistenti all’interno delle comunità cristiane, così come ricordato da Paolo e da Luca negli Atti. Tuttavia, è lecito chiedersi: se non è arbitrario ammettere l’esistenza di altre tradizioni come quelle confluite nella fonte Q e nel Vangelo di Tommaso, su quali basi di fonda l’affermazione di una presupposta unità kerygmatica originaria, come sostiene Jossa? Prima di passare in rassegna a grandi linee i testi apocrifi, distinguendoli in: giudeo-cristiani, gnostici e Vangeli della nascita e dell’infanzia, lo storico partenopeo puntualizza che «i criteri in base ai quali si è formato il canone neotestamentario, ed evangelico in particolare, sono criteri teologici e non storici. Le comunità hanno scelto questi Vangeli, e non quelli che diventeranno apocrifi, perché hanno ritenuto l’immagine di Gesù fornita da essi più rispondente alla propria fede di quella degli apocrifi» (p. 60). Jossa sottoscrive il giudizio caustico di Meier (Un Ebreo marginale, vol. I, 126-128) secondo il quale gli apocrifi risultano di nessuna utilità ai fini della ricerca del Gesù storico e testimoniano uno sviluppo successivo della tradizione sinottica dopo la redazione dei sinottici. Il terzo capitolo è consacrato al tema della ebraicità di Gesù. Secondo lo studioso napoletano, «la riscoperta dell’ebraicità di Gesù, il fatto che egli non può essere adeguatamente compreso se non viene inserito pienamente nel mondo giudaico del suo tempo, e quindi nelle sue specifiche tradizioni, è in effetti il vero elemento caratterizzante» (p. 79) della terza ricerca sul Gesù storico. Sulla base delle notizie storiche fornite da Flavio Giuseppe nelle Antiquitates Iudaicae, si offre una panoramica sintetica ma esaustiva sulla situazione religiosa del giudaismo del I sec. Ciò che rende originale la persona di Gesù nel contesto giudaico a lui contemporaneo, è la sua posizione nei confronti della Legge tendente alla radicalizzazione; infatti, egli non si è pronunciato a favore della libertà dall’osservanza della Legge, né ha dichiarato di volerla abrogare. Tuttavia, «ha dimostrato una libertà nei confronti dell’interpretazione della legge, e ha rivendicato quindi un’autorità nei confronti della legge, che non erano affatto usuali nel giudaismo del tempo» (p. 98). Va inoltre sottolineato che la pretesa messianica di Gesù ha determinato la definitiva rottura con le autorità che lo accusavano di essere blasfemo a motivo della sua ammissione di essere il Messia. L’ultimo passaggio del volume è dedicato al “vangelo” paolino, evidenziando quanto maggiore sia la discontinuità tra Gesù e Paolo rispetto alla continuità.
Riscontriamo in queste pagine (non molte ad onor del vero considerato il peso specifico del corpus paolinum nel canone neotestamentario) delle affermazioni meritevoli di approfondimento. Anzitutto, Jossa scrive che Paolo «si colloca non all’inizio, ma al termine, di uno sviluppo teologico che è stato in realtà incredibilmente rapido» portando «a compimento un processo iniziato con l’identificazione di Gesù con il Figlio dell’uomo in gloria e con la fede nel Cristo risorto come Signore e Messia» (p. 116). È innegabile che Paolo non costituisca il punto iniziale della riflessione cristologica, ma è altrettanto legittimo affermare che i Vangeli, nella loro redazione attuale, sono stati compilati solo successivamente all’epistolario paolino. Senza voler negare la tradizione orale e le prime documentazioni scritte sulla persona di Gesù che precedono l’opera paolina, sembra poco corretto considerare Paolo come il termine di compimento del percorso che ha consentito di riconoscere in Gesù il Figlio di Dio e il Messia. Esprimiamo altresì le nostre perplessità quando lo stesso Autore dichiara che «Cristo era il fine, o forse meglio la fine, della legge (Rm 10,4)» (p. 129). Siamo dell’avviso che il termine telos non alluda alla conclusione dell’economia della legge, cui subentra quella di Cristo in una sorta di avvicendamento temporale. Per Paolo non è la legge a determinare la giustizia di chiunque crede, ma è Cristo; essa non è considerata peccato (Rm 7,7), né abrogata (cf. Rm 9,4-5), ma perviene al suo compimento solo in Cristo. In ultima analisi, prendiamo in considerazione quanto si legge a p. 132: «Ci si è chiesti spesso se, nel caso avesse prevalso l’orientamento di Giacomo e dei giudeo-cristiani, sarebbe nato egualmente il cristianesimo come religione distinta e separata dal giudaismo. E la risposta è che molto difficilmente questo sarebbe avvenuto».
Le ipotesi storiche, come quelle letterarie, hanno bisogno di documenti (scritti e non) verificabili e oggettivi per poter essere suffragate e sostenute in sede di dibattito e di confronto; una simile documentazione a sostegno della proposta formulata dal Nostro è in effetti latente, come egli stesso è costretto ad ammettere circa i Vangeli giudeo-cristiani: «la scarsissima quantità di questi resti e le indicazioni confuse e contraddittorie dei padri non consentono in alcun modo una valutazione sicura del carattere di questi Vangeli» (p. 75). Fatte salve queste annotazioni, cui vanno ad aggiungersi due correzioni dovute ad errori di stampa – l’anno della conclusione della guerra giudaica è il 70, non il 73 (cf. p. 56); la citazione di Fil è 3,4-7, non 2,4-7 (cf. p. 111) –, il testo del professor Jossa ha il merito di proporsi come un saggio che tenta di dare una risposta a una questione tornata strettamente attuale: la fedeltà del cristianesimo a Gesù. Il rigore scientifico e la puntualità terminologica, da un lato, e l’immediata fruibilità letteraria, dall’altro, consentono una lettura feconda e incoraggiante.
Tratto dalla rivista Asprenas n. 1-2/2010
(http://www.pftim.it)
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