Pacem in terris. Storia dell'ultima enciclica di Papa Giovanni
(Quadrante Laterza)EAN 9788842093268
L'11 aprile 1963 papa Giovanni XXIII firma la sua ultima enciclica, Pacem in terris. È un atto che il papa sa essere ormai terminale per la sua lunga vita e il suo breve pontificato, collocato lì, cinquantatré giorni prima della sua morte e a cinquantatre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio per essere «papa di transizione» in un senso certamente assai diverso da quello che si erano ripromessi i cardinali che nel 1958 avevano scelto questo anziano bergamasco per succedere a Pio XII. Egli la indirizza non solo ai singoli vescovi, come era in uso per documenti di tal fatta, non solo al clero e al popolo citati in epigrafe, ma anche agli uomini «di buona volontà», introducendo una variante mai usata in precedenza: e soprattutto vorrebbe consegnarla al Vaticano II, al «suo» Concilio che in quel momento ha archiviato il suo primo periodo e si accinge, dopo una ripreparazione dei materiali che occupa i primi mesi dell’anno, a una seconda sessione fissata per maggio e poi rinviata a settembre a causa delle condizioni di salute del pontefice.
Anche per questo insieme di motivi – per il suo legame con un pontificato attorno al quale la fama di santità ha creato un alone di affetto, con un concilio che su un punto nevralgico dell’enciclica arriverà a uno scontro sommesso solo nei toni, con un sistema di relazioni internazionali nel quale le «volontà» buone e quelle meno buone sono alle prese con dilemmi epocali – anche per questo insieme di motivi, dicevo, Pacem in terris susciterà passioni e dispute come accade solo per i più grandi atti di quello che la Chiesa latina chiama magistero ordinario. Affascinerà un compositore come Darius Milhaud (per qualche tempo segretario di Claudel e sopravvissuto alla Shoah grazie a un volontario esilio negli Stati Uniti), che sul testo dell’enciclica compone una sinfonia corale. Apparirà a un intellettuale della finezza di Giuseppe Dossetti (prima costituente e in quel momento già prete e teologo di fiducia del card. Lercaro al Vaticano II) come lo snodo e la grande opportunità mancata dal Concilio per colpa di Paolo VI. Sarà il vero bordone della posizione diplomatica dell’ultimo Wojtyla, durante la preparazione della campagna irachena del presidente George W. Bush all’inizio del XXI secolo.
E nella storiografia in fondo abbastanza recente sarà presentata come il semplice approdo di uno ius publicum ecclesiasticum che aveva già avviato la delegittimazione religiosa della guerra (e che sarebbe approdato secondo Daniele Menozzi con un Angelus di Benedetto XVI del febbraio 2007 a quel riconoscimento della non violenza che restava ancora precluso a un’enciclica incapace di rinunciare alla verità della rivelazione), la coda che non merita nemmeno menzione di una «nuova cultura» nata da Mazzolari e Balducci una mezza dozzina d’anni prima, o al contrario come una svolta, uno scarto epocale i cui frutti sono ancora da cogliere nel mondo globalizzato. Di fatto essa propone (caso singolare nel magistero pontificio d’età moderna) di leggere i «segni dei tempi» non come cifre di una filosofia della storia pessimista e catastrofista sulle precondizioni morali della pace perpetua, ma come modi nei quali la storia stessa dice il Vangelo alla Chiesa; apparirà per molti decenni come una risposta alla sete di speranza degli uomini e delle donne alla quale tornerà ad alimentarsi a più riprese la politica vaticana, l’autorità della Chiesa, la consapevolezza dei credenti.
Oggi, alla luce di una documentazione di prima mano sulla sua storia redazionale, la Pacem in terris non diventa né di più facile lettura né di più modesto significato: collocata a mezza via fra il magistero delle parole emblematizzato da Pio XII e il magistero dei gesti di cui Giovanni Paolo II è stato il protagonista, l’enciclica sulla pace firmata davanti alla TV quell’11 aprile 1963 aveva come scopo esattamente ciò che di fatto ha ottenuto: smuovere un tema che si giudicava centrale per il Vangelo, prendere la parola in un contesto che non era quello delle riviste e dei convegni, ma quello della politica internazionale, nel quale la parola «pace» poteva a buon diritto essere data per compromessa dalla sua strumentalizzazione sovietica, sanare, accogliendola, una partecipazione cristiana e cattolica ai movimenti per la pace fatta con generosa ingenuità da tre generazioni, aprire vie nuove senza mai ricorrere ai moralismi, interpretare una realtà storico- politica oggi stupidamente etichettata nel segno dell’ottimismo di Let it be, guardare al futuro avendo alle spalle il muro di Berlino o la crisi di Cuba e davanti le tensioni che uccideranno Kennedy o destituiranno Chrušcev.
Scopo di questo saggio, dunque, è offrire una ricostruzione quanto più possibile ampia di ciò che contorna l’enciclica Pacem in terris: il retroterra, la storia redazionale, le varianti che in esso si producono in un mondo dal quale il suo autore prenderà commiato dopo poche settimane dalla firma: questo non solo per onorare il rigore conoscitivo che il mestiere impone e l’oggetto merita, ma proprio perché l’enciclica ha avuto e ha un significato che dipende più che in altre circostanze dall’intenzione originaria; a mio avviso, così come fu per Rerum novarum e per Lumen gentium, l’iter redazionale di quel documento spiega a quali obiezioni sono sopravvissute parti oggi essenziali del testo e a quali ha finito per cedere qualche brano, inclusi quelli che di lì a poco la vita vissuta del popolo cristiano s’incaricherà di ripristinare nella pratica (ad esempio l’obiezione di coscienza).
Il testo riprende l’introduzione al volume ad esclusione dell’apparato delle note. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2010 n. 18
(http://www.ilregno.it)