La Chiesa e le sfide della modernità
(Sagittari Laterza)EAN 9788842084020
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Docente di storia del cristianesimo all’università di Torino, G. Filoramo propone in questo suggestivo libro una sintesi ben documentata del pensiero cattolico, così come lo si evince dal corpus della “Dottrina sociale”, nella sua pretesa di affrontare le più cruciali sfide della modernità. Queste sono: il discorso sulla famiglia, sulla sessualità, sul pluralismo religioso (relativismo), sulla democrazia e la laicità, sull’etica economica e l’approccio al capitalismo, sulla rivoluzione scientifica ed infine sulla legittimazione della guerra. Sette punti nodali che costituiscono altrettanti capitoli di questo libro e che sfilano l’uno dopo l’altro con precisa sequenzialità logica. L’intento dell’A. è innanzi tutto documentario: si tratta di spiegare, far conoscere (al mondo laico) gli asserti e gli argomenti del magistero ecclesiastico su questi temi scottanti, indicandone pure la genealogia storica. Si vuole così intanto rimediare ad un increscioso dato oggettivo: è palese infatti che molto spesso quando si parla, dall’esterno, della Chiesa «si crede di sapere già tutto di essa, mentre se ne ignora completamente la dottrina»” (G. Mucci, cit. p. xvi). D’altro canto, come ovvio, l’A. ha un suo specifico parere che è facile individuare come cattolicesimo progressista, attaccato alla svolta conciliare, espressa in particolare nella costituzione Gaudium et spes. In questo senso non poche affermazioni storiche e “positive” riscontrabili nel testo assumono la personale coloritura critica di colui che si interroga e dubita circa la pertinenza di talune scelte dell’odierna autorità ecclesiastica. Si tratta di uno sforzo di stabilire un dossier, ovvero di presentare i termini in gioco per capire il confronto tra Chiesa e (post)modernità, nella consapevolezza che al fine di evitare uno scontro o dialogo tra sordi è doveroso conoscersi e comprendersi. Benché l’intento sia più che lodevole, diciamo che l’impressione d’insieme lasciataci dal libro è che spesso Filoramo lasci trapelare un giudizio che ci pare in verità troppo ingeneroso verso la Chiesa. Senza ripercorrere ogni capitolo, facciamo di seguito solo alcuni esempi. A p. 22 si legge: «la Chiesa cattolica ha impiegato cinque secoli per riconciliarsi con la modernità e l’ha fatto, nella seconda metà del Novecento, quando il mondo stava già entrando nella postmodernità.[…] Di qui una inevitabile sfasatura nelle sue risposte alle domande più urgenti che provengono dagli attuali tumultuosi mutamenti, con il rischio di arroccamenti e ricadute in devianti e improduttivi dogmatismi» (22). Siffatta osservazione è acuta ma forse eccessiva. Essa svela la sintesi della «posizione dell’autore» (p. xvii). E di fatto il dossier illustrativo del pensiero etico-sociale della Chiesa si trasforma quasi sistematicamente in una requisitoria contro un’incapacità da parte della gerarchia di cogliere i ‘segni dei tempi’ e di afferrare la giusta modalità di approccio al mondo postmoderno. Di quest’ultimo si denuncia a più riprese la crisi interna (p.e. in ambito di democrazia, p. 89, 94, 99), ma si ha come l’impressione che, volenti o nolenti alla sua globale Denkform, che poi è l’individualismo relativistico, bisogna in ogni caso rassegnarsi e adattarsi (ib.). Così, in ambito familiare e sessuale, l’insegnamento cattolico viene presentato come tuttora «essenzialmente negativo […] proponendo quella che rimane una dottrina tradizionale delle due vie: l’uso della sessualità a fini riproduttivi per i laici attraverso il matrimonio; altrimenti, la via della castità attraverso la sua rinuncia per il clero e i religiosi» (29s). Ci si compiace invece nel presentare la posizione delle comunità protestanti ben più tolleranti rispetto al magistero cattolico (cf. 32, 34), il quale rimane, così dicesi, di fatto ancora arroccato ad una visione «androcentrica e patriarcale» (40). Queste sentenze senza appello non ci sembrano fare giustizia all’insegnamento pontificio, specie di Giovanni Paolo II sulla sessualità (cf. le Catechesi sul linguaggio del corpo) e sulla dignità della donna (cf. Mulieris dignitatem, Lettera alle donne). A questo sforzo di ripensamento insieme biblico e personalistico, ? si pensi al tema della donna come profezia dell’humanum in MD 29 –, il testo non rende pienamente ragione (cf. 42). Anche un caposaldo della teologia morale e sociale del cattolicesimo ? e, non dimentichiamolo, rivelatosi preziosissimo per il diritto civile ed internazionale ? come la nozione di legge e diritto naturale (tema sul quale la CDF sta preparando un documento ufficiale) è considerato del tutto inadeguato e quindi meritevole solo di finire nel dimenticatoio (cf. 35, 65ss). Così pure, in merito al dibattito circa il pluralismo religioso e il relativismo morale, l’autore interpreta la Dominus Iesus (2000) come un «arretramento» rispetto all’insegnamento conciliare (59). Sinceramente non riusciamo a capire in che cosa. Come se il Concilio non avesse esplicitamente affermato nel cristianesimo la pienezza di verità e nella Chiesa cattolica la pienezza dei mezzi di salvezza (cf. LG 8b; 14a-b; UR 3d; NA 2b; DH 1b). Si tratta di giudizi precipitosi, anche se diffusissimi, e che, di fondo muovono da una mancata riflessione approfondita su tematiche come quelle di verità e salvezza. In merito al tema della verità, essa è esaminata (cf. 61ss), ma riduce la posizione cattolica ad una prospettiva meramente oggettivistica: come una norma che si imponga in modo autoritativo ed eteronomo e non piuttosto un disegno di amore di un Dio vivo e buono che ha creato l’uomo capace di riconoscerlo e di entrare in questo piano di amore. Disegno discernibile nella legge naturale e pienamente svelato nella rivelazione cristiana. Sarebbe questa l’ottica in cui leggere il magistero morale (specie della Veritatis splendor) sul nesso tra legge e coscienza. Lo studioso torinese vi rintraccia invece una «potenziale prospettiva teocratica» (69). Crediamo piuttosto che quando la Chiesa si fa interprete del bene morale umano come tale non tenda alla «restaurazione di un nuovo ordine sociale cristiano universale» (70), ma lo faccia sapendo che tutto quello che di positivo i cristiani possono vivere in pienezza mediante la grazia (dignità, fraternità, solidarietà, fedeltà, fecondità…), non è che la focalizzazione di quanto è genuinamente umano. Gratia perficit naturam… Il vero problema e paradosso teologico è che solo con la grazia (christianum) si scopre e si realizza veramente la legge naturale (l’humanum). Dovrebbe quindi far parte dell’insegnamento e dell’ethos cristiano, per motivi amartiologici, il tollerare un deficit di verità e di umanità nell’ambito pubblico (laicità). Ma questo dice necessità di distinguere morale e diritto e non ammissione pacifica di una loro totale indipendenza. È comunque legittimo aspettarsi un ulteriore svisceramento da parte del magistero del rapporto tra humanum e christianum. L’altro dubbio di fondo che percorre le pagine di Filoramo è quello di un tentativo di restaurazione preconciliare e temporalistica, specie da parte della Chiesa italiana. Dopo una disamina del rapporto tra Chiesa e democrazia (cf. 82-86), con la centrale citazione di Centesimus annus (= CA) 46 e il rinvenimento del fondamento dei diritti umani nel rispetto della dignità della persona (89), l’autore giudica in modo molto negativo la proposta di papa Ratzinger di dare spazio a Dio anche nel dominio pubblico (cf. 91ss). Questa ‘sana laicità’ invocata dal pontefice, irriducibile ad un laicismo alla francese, preoccupa Filoramo che vi vede una minaccia alla debita neutralità della città secolare in quanto comporterebbe la «rivendicazione di identità tra diritti umani come interpretati dalla Chiesa e come presupposti dallo Stato di diritto» (94). Anche in questo caso non pensiamo che si colga veramente nel segno (a parte l’origine in suolo cristianizzato del moderno Stato di diritto). La posizione del magistero è quella di tutelare il vero rispetto dei diritti umani, fondati non nel cristianesimo, ma nella creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio. È l’amnesia di questo fondamento che inquieta la Chiesa. Non v’è invece da paventare un «tentativo di ripristinare un regime di cristianità che viola alla radice quel rispetto dei principi di fondo della democrazia che pure si dice di volere rispettare» (100). Le riflessioni quindi su democrazia e laicità andrebbero rivedute alla luce di altri studi (ricordiamo qui solo alcuni titoli: G. Amato - V. Paglia, Dialoghi post-secolari, Marsilio, Venezia 2006; E. Roccella [ed.], Alla ricerca di una sana laicità, Cantagalli, Siena 2007; A. Scola, Una nuova laicità, Marsilio, Venezia 2007; F. D’Agostino ? G. Dalla Torre – C. Cardia – S. Belardinelli, Laicità cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008). Anche nel cap. V (I banchieri di Dio: l’etica cattolica e lo spirito del capitalismo) non manca un pesante affondo contro un «magistero che tende alla fine a rispondere ai dilemmi della modernità negandoli alla radice nella misura in cui finisce per difendere, pur con gli adattamenti del caso, una struttura dottrinale che continua a navigare nel ‘brodo primordiale’ di una riconquista cristiana della società» (127). Come se gli orientamenti magisteriali, specie della CA, valorizzanti una equa e solidale economia di mercato, fossero un rinnegamento del modello evangelico del Christus pauper… (dal punto di vista bibliografico, andrebbero almeno citati, per possibili approfondimenti i lavori di G. Manzone). Persino gli sviluppi magisteriali in ambito scientifico con le aperture di Giovanni Paolo II sulla questione di Galileo e dell’evoluzione sono letti con sospetto. Si tratterebbe ancora una volta di una mossa tesa al «più generale progetto di ‘restaurazione’ promosso dal programma di dottrina sociale» (149). Tale strategia poggerebbe sul richiamo alle leggi di natura di tommasiana memoria; al primato dell’etica sulla scienza e della sacralità non manipolabile della vita umana. Ci si chiede veramente se queste affermazioni siano pertinenti allorché per altri versi si vuole una Chiesa che sia «una realtà di coscienza critica e di stimolo al rinnovamento» (71). Per quel che concerne la guerra (cap. VII), dopo un percorso storico, in cui spicca la posizione ciceroniana di Agostino (cf. Civ. Dei XIX, 12- 17) e poi di tutto il medioevo sulla guerra giusta, si richiama la svolta pacifista del sec. XX. Questo però non dice un vero ripudio della guerra. A dire di Filoramo infatti la dottrina della legittima difesa, tuttora sostenuta (cf. CCC 2309), così come quella dell’ingerenza umanitaria (cf. Ud. Gen. 12. 01.1994) inficiano il profetismo di un «no in ogni caso alla guerra» (76). Se si loda la presa di posizione, profetica appunto della Chiesa USA in merito alla guerra irakena del 2003, si deplora che vi sia una tentazione teocratica nel sollecitare una pax christiana mitizzata in quanto costantemente ricondotta al recupero di «un anacronistico potere dell’autorità ecclesiastica nella regolamentazione della vita internazionale » (177). Insomma sia che predichi la difesa che la pace, la Chiesa ha sempre i suoi torti... La conclusione auspica con Habermas un reciproco riconoscimento e rispetto di competenze tra sfera laica e religiosa (cf. 179ss). In definitiva si ha a che fare con un libro utile dal punto di vista dell’informazione anche se non privo di diverse prese di posizione discutibili. I lettori ‘laici’ farebbero bene a conoscerne il contenuto, studiandolo talvolta più in profondità con ulteriore bibliografia; i lettori cattolici avvertiranno senz’altro in questo volume, insieme ad un sano (profetico?) spirito critico, un certo deficit di fiducia e di filiale simpatia verso l’istituzione ecclesiale.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 2/2008
(http://www.pul.it)
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