Il senso della fede
-Una lettura del cristianesimo
(Giornale di teologia)EAN 9788839908469
Indice
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
1. Che cosa significa credere . . . . . . . . . . . . . . 19
1. Con tutta l'anima 19
2. Debolezza del credere 30
3. Fede e antifede 36
4. Ricerca del senso e scoperta della promessa 46
2. La scoperta del tempo nuovo . . . . . . . . . . . 55
1. Il segreto del tempo 55
2. La durata del valore 67
3. Anticipazione e compresenza 74
3. Il confronto con la morte . . . . . . . . . . . . . . . 93
1. Attraversare il deserto 93
2. Ambivalenza del confine 99
3. Riconoscersi creature 108
4. Il risveglio 117
251
4. La profezia del cristianesimo non religioso 127
1. Il desiderio di fedeltà 127
2. Comprendere l'alternativa 134
3. Il ritorno alla Parola 143
5. Per una fede critica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147
1. Un cristianesimo diviso 147
2. Il criterio Gesù 156
3. Il sortilegio della sostituzione 170
4. La liberazione 180
6. a via della risurrezione
L
e le ragioni della speranza . . . . . . . . . . . . . . 187
1. Ragione e risurrezione 187
2. Il senso dell'annuncio pasquale 203
3. Dalle catene alla libertà 229
4. La fine della morte 244
252 | Indice
Diviso in 6 cc., il saggio mira a delineare una possibile filosofia della fede che con un linguaggio non specialistico, ma non per questo meno rigoroso, sappia mettere a fuoco il senso del credere, le sue ricadute sull’esistenza, su quel mattatoio, a volte apparentemente privo di qualsiasi decifrabilità, che è la storia. Il vol., dunque, muove da considerazioni antropologiche rimarcando le evidenze della fede – ormai sempre più spesso sepolte sotto ovvietà extracristiane – il cui centro è il tema della risurrezione.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 2
(http://www.ilregno.it)
Il saggio di Roberto Mancini, professore ordinario di filosofia teoretica all’Università di Macerata, vuole rispondere alla domanda: qual è l’essenza del cristianesimo? A differenza di altri saggi, l’A. vuole rispondere alla questione dal punto di vista filosofico. Si tratta, comunque, di un’opera in cui è sotteso un profondo dialogo tra filosofia e teologia. L’A., infatti, interroga le categorie centrali della riflessione teologica: l’immagine di Dio, il Dio di Gesù, la filialità, l’amore, la compassione e la comunione.
Mancini vuole dunque avviare una katabasis eis allo genos del cristianesimo; “pensare” il senso del l’evento di fede non secondo categorie di qualunque pensiero “religioso” ma seguendo il criterio-Gesù. Nei sei capitoli, in cui è suddiviso il libro, l’A. accompagna il lettore ad un esame di coscienza continua: verificare se il Dio in cui crede, è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe - un Dio della vita - oppure è un Dio della morte e mortificante, che genera ansia e impone un senso che non conduce alla gioia di vivere, ma alla paura di sfuggire al giudizio. La risurrezione, a cui è dedicato l’ultimo capitolo, è il senso della fede e diventa il criterio della vera fede. Nel primo capitolo l’A. definisce il termine “credere”: la capacità della soggettività più profonda dell’uomo di fidarsi/affidarsi a Dio. Il credere esprime una relazione radicale, di vicinanza ma anche di distanza, con l’A/altro. È una relazione, quella di fede, esposta all’anti-fede, cioè al non-affidarsi e quindi all’angoscia, alla paura che restringe (cf “angusto”) l’apertura del cuore umano, cuore che è ad immagine del grande cuore compassionevole di Dio che tutto e tutti abbraccia. Quando la morte e l’angoscia si impossessano dell’uomo, fino a bloccarne il cuore al passato della colpa, solo la promessa di Dio ne dischiude il futuro: l’ulteriorità di Colui che è altro e che viene all’uomo.
La promessa di Dio (secondo capitolo) istituisce un modo diverso di percepire il “tempo”, non tanto come successione di istanti giustapposti (tempo come chronos), quanto come intensità dell’eterno che abita e viene nel flusso del tempo (tempo come kairòs): «il tempo, prima sentito come mero trascorrere, si mostra capace di ospitare ciò che è eterno» (80). Il terzo capitolo è dedicato alla morte non letta semplicemente come fatto biologico, ma più profondamente come venire-meno-delle-relazioni. Il vero morire consiste nel perdere la percezione dell’essere “dono” in quanto creatura. L’uscita dalla morte, così come si rivela in pienezza nella risurrezione di Gesù, è un risvegliarsi dal “sonno” in cui l’angoscia e la chiusura spingono l’uomo, distruggendolo. Nel quarto capitolo, servendosi delle riflessioni di Dietrich Bonhoeffer, l’A. smaschera il cosiddetto cristianesimo “religioso”, sosia e complice della stessa morte. Il vero cristianesimo, invece, è partecipazione della fede di Gesù come affidamento al Padre: «”non religioso” significa filiale» (137). Questa comprensione filiale del cristianesimo ha tre aspetti: biblico, non sacrale e non sacrificale, cioè compassionevole. Se il credere è radicalmente “credere- In”, piuttosto che “credere-che”, l’ortoprassi che scaturisce dall’incarnazione dell’amore, è principio e fondamento dell’ortodossia, e non viceversa.
La teologia, dunque, è pensiero sull’amore vissuto e non condizione o criterio per amare. Nel quinto capitolo Mancini espone dettagliatamente qual è il criterio in base a cui la fede trova la sua ragion critica. Gesù è il criterio; la prassi di Gesù rivela la logica di Dio per la vita senza compromessi con la morte. L’immagine del sacrificio della croce, dell’espiazione vicaria che placa un Dio irato, dei novissimi (inferno e paradiso) come retribuzione per i nostri meriti o condanna per i nostri peccati, sono posti a verifica alla luce del deus crucifixus che è Cristo Gesù. Acute e penetranti sono le riflessioni che l’A. fa sulle dinamiche di sostituzione perpetrate dalla forma “religiosa” del cristianesimo che presenta Dio come «un amministratore o dispensatore nel proprio insondabile arbitrio e nella sovrana facoltà di metterci alla prova, nel diritto di toglierci quello che ci ha dato, nella sua veste di giudice che punisce con la morte eterna oppure con una tortura infernale al cui confronto la morte sarebbe liberazione. Per sperare la salvezza l’essere umano deve sottostare a una serie di condizioni e deve acquisire meriti tali che possa piacere a Dio di concedere la sua grazia per una vita oltre la morte.
Nella fede evangelica, invece, dalla creazione all’incarnazione, dalla morte subita da Gesù alla risurrezione, la volontà e l’amore del Padre non fanno mai scelte di morte e l’accesso alla vita eterna non è guadagnato attraverso dei meriti» (173). «Nell’ateismo metafisico l’incredulità verso il divino si volge in credito sistematico offerto alla morte stessa come destinazione dell’uomo. Nella religione il destino dei dannati è immaginato come una morte eterna. Nella teologia sacrificale la croce di Gesù è intesa come una morte che diventa in sé redentiva. Immaginando in Dio la potenza suprema, gli uomini credono nella sua sovranità. Dunque non amano il volto di Dio, né credono in una piena comunione con lui; amano la Potenza e credono in essa. A causa di questa distorsione la pietà religiosa rimane .al di qua della risurrezione.» (194). Questa sostituzione del “vero” con il .falso. cristianesimo avviene per il cedimento che la fede cristiana fa alla volontà di potenza che si manifesta attraverso vari modi: concetto, autorità, istituzione, diritto, magica e mistificante comprensione del sacramento, abusando altresì dell’esperienza della sofferenza e della morte delle persone per guadagnarle ad un “dio” padrone e amministratore.
L’A. affronta infine la questione della risurrezione non dal punto di vista della teologia fondamentale, ma del suo senso filosofico. Con la risurrezione Dio si schiera apertamente e distrugge le logiche della morte e della potenza, rivelandosi come il Vivente e Compassionevole. La speranza dell’uomo è resa possibile per il senso della fede, il cui destino è l’Amore. La lettura del saggio di Mancini porta inevitabilmente a porsi la domanda: ma allora cosa ci hanno mai predicato le chiese e cosa ci ha mai insegnato la teologia? Chi si pone questa domanda ha capito bene il senso non solo della fede ma anche di questa opera. Nell’introduzione Mancini precisa in che cosa consiste la lettura “filosofica” da lui perseguita. «Il pensiero filosofico può far emergere il senso della fede liberandolo, per quanto possibile, dall’involucro religioso che rischia di soffocarlo e di occultarlo. Ma a sua volta la parola evangelica può attrarre il pensiero filosofico verso un orizzonte inatteso e liberante, facendo luce così, tra l’altro, sulla stessa dignità del pensiero umano» (15). La teologia è provocata da un simile testo. La filosofia, interrogandosi sul senso della fede cristiana, si arricchisce di nuovi e appassionati orizzonti.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2012
(www.rassegnaditeologia.it)
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