L'eco dello Spirito
-Teologia della coscienza morale
(Biblioteca di teologia contemporanea)EAN 9788839904584
Indice
1. Maria di Magdala (Giovanni 20,11-18)5
2. Le mirofore (Marco 16,1-8) 14
3. I dodici apostoli (Atti 1,15.21s.) 22
4. Maria, la madre di Gesù (Atti 1,12-14) 29
5. Pietro, pescatore di uomini (Atti 2,36-41) 38
6. Pietro, uomo umile (Atti 11,1-4.18) 46
7. Anania e Saffira (Atti 5,1-11) 54
8. Stefano (Atti 6,8-15; 7,54-60) 62
9. Filippo e Simone il mago (Atti 8,9-24) 70
10. arnaba (Atti 4,36s.; 11,22-24a.25s.;
B
13,2s.; 15,36-40) 78
11. Paolo: la chiamata (Atti 9,1-19a) 86
12. Paolo, il grande evangelizzatore (Atti 9,19-30) 94
13. Giovanni, l'apostolo (Atti 4,13-20) 102
14. Giacomo (Atti 15,10-21) 110
15. Tabità (Atti 9,36-42) 119
16. ra filosofi, commercianti e politici: Damaris
T
(Atti 17,32-34; 19,24-28; 24,24-26) 126
Una ricerca che si snoda in tre parti: nella prima si guarda al processo di decostruzione che la coscienza morale ha subito ad opera della filosofia e della scienza moderne; nella seconda parte si rivisita la tradizione teologica e morale (da Paolo ad Agostino, da Tommaso a Lutero…); nella terza parte si propone un’interpretazione critica del concetto. Che, in estrema sintesi, suona così: la coscienza è l’eco dello Spirito divino riflessa dalla libertà umana, l’eco della relazione reciproca fra Dio ed essere umano.
Tratto dalla rivista Concilium n. 2/2012
(http://www.queriniana.it/rivista/concilium/991)
A un insegnante di teologia morale capita spesso, anzi sempre piú spesso, di sentirsi rivolgere in termini quasi ultimativi la domanda: ma allora la coscienza è voce di Dio o voce dell’uomo? Domanda vecchissima alla quale è stata data ora l’una, ora l’altra delle risposte.
Aristide Fumagalli, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, riprende nel saggio che presentiamo un dibattito plurisecolare e lo reimposta con intelligenza e accurata sistematicità, non senza aver prima analizzato da un punto di vista storico il pensiero e l’interpretazione di quasi tutti i grandi pensatori dell’Occidente che si sono cimentati con questa domanda, giungendo per altro a conclusioni le piú disparate. Il dibattito è ancora attuale e pertinente. Oltretutto serve a mettere ordine sulle vicende storiche e concettuali di una categoria, la coscienza morale, sulla quale gravano tuttora numerosi equivoci che l’autore riprende e chiarisce con encomiabile precisione ed erudizione storica, filosofica, teologica.
Per verificarlo è sufficiente scorrere gli indici dell’opera, leggere le analisi e le ricostruzioni del pensiero di questo o quell’autore dal nome famoso, o piú semplicemente controllare citazioni, note e rimandi bibliografici che arricchiscono le tre parti del volume. Dedicate rispettivamente alla Questione, alla Tradizione e all’Interpretazione di quel fenomeno semplice e complesso al tempo stesso, in parte anche misterioso, che siamo soliti indicare con il termine coscienza. Nella prima parte, intitolata Questione (pp. 9-130), l’autore analizza le cause e gli effetti di quella che egli definisce «implosione» antropologica della coscienza morale conseguente al passaggio dalla religiosità medievale, con il suo ovvio rimando a Dio, all’umanesimo rinascimentale e moderno, caratterizzato da un non meno ovvio rimando all’uomo.
A questa «implosione» antropologica, dovuta principalmente al pensiero di Kant, Hume e Rousseau, segue una specie di «esplosione» scientifica, determinata dal frammentarsi della dottrina sulla coscienza nelle diverse interpretazioni che ne hanno dato Marx, Freud e Darwin, svuotandola di ogni contenuto morale e anzi predisponendola, quasi destinandola, a una «dissoluzione» finale cui apporrà una pietra tombale il pensiero lucido e inquietante di Nietzsche. Nella seconda parte, dedicata alla Tradizione (pp. 131-320), l’autore riprende la Questione, ripercorrendola all’interno dell’orizzonte e del pensiero cristiano, caratterizzato da quel tipico movimento a pendolo che si verifica regolarmente nelle grandi svolte epocali della storia. A un estremo troviamo la concezione della coscienza morale di Agostino, e successivamente di Lutero, caratterizzata da un alto profilo teologico che induce a interpretarla come voce di Dio che parla al cuore dell’uomo.
All’estremo opposto prende corpo la concezione di Tommaso, e successivamente di Alfonso de’ Liguori, che conferisce alla coscienza morale un profilo antropologico e la interpreta come voce dell’uomo che risponde a Dio. Non piú a partire dalla Scrittura, bensí da quel sapere morale profondo che gli scolastici definivano «sinderesi» e il «dettame della ragione» applicava alle singole azioni e situazioni della vita. Ma i massimi sistemi non esauriscono mai l’interpretazione della realtà e quello del rapporto tra concezione teologica e antropologica della coscienza morale non fa eccezione.
È dunque perfettamente comprensibile che anche in tempi relativamente piú vicini non siano mancati pensatori che se lo sono riproposto, chi accentuando un aspetto e chi un altro. Bene ha fatto pertanto Fumagalli ad accostare altre concezioni, piú recenti, della coscienza morale: da quella di I.H.J. Newman, che avverte nella coscienza il palpito del senso morale o del senso del dovere, a quella del magistero del concilio Vaticano II, dell’enciclica Veritatis splendor, del Catechismo della chiesa cattolica, che la interpretano come funzione della legge e della relazione con Dio; o da quella di K. Demmer, che avvalendosi di un metodo trascendentale-ermeneutico la interpreta come libertà e luogo dell’esperienza di Dio e dell’esigenza morale, a quella di G. Angelini, che da un punto di vista fenomenologico va nella direzione di raccomandare la sua risoluzione ultima nella figura della fede in genere e della fede cristiana in specie. Nella terza e ultima parte del saggio, dedicata alla Interpretazione (pp. 321-418), Fumagalli illustra la sua concezione della coscienza morale che lo porta a ridefinirla non secondo la logica della contrapposizione, che è poi la logica della bilancia, per cui quando si alza un piatto, l’altro si abbassa; e nemmeno secondo la logica della giustapposizione, delle parallele che non si incontrano mai; bensí secondo la logica della relazione, dei vasi comunicanti: piú si alza il livello di uno, piú si alza anche il livello dell’altro. È la logica dell’Incarnazione a partire dalla quale Fumagalli ridefinisce la coscienza morale come «eco dello Spirito» riflessa dalla libertà.
Ridefinizione che gli permetterà di avvalersi di una rinnovata intelligenza delle sue caratteristiche e qualità e gli offrirà anzi le migliori indicazioni per una sua formazione piú teologica e antropologica insieme. Arriviamo cosí al punto concettualmente piú alto, ma anche piú problematico e aperto a nuovi sviluppi, del suo saggio. A quell’interpretazione della coscienza morale che se da una parte recupera la dimensione pneumatologica della sua struttura piú profonda, dall’altra non scioglie l’enigma di quello Spirito che secondo la Scrittura è il dono pasquale di Cristo, ma è anche il principio dell’Incarnazione. E qui si apre la possibilità di ulteriori sviluppi. Che possono essere di due tipi, teologico e morale. Da un punto di vista teologico un primo sviluppo, di natura squisitamente speculativa, potrebbe e dovrebbe portare a ripensare la figura e il significato di quello Spirito di cui la coscienza morale è una eco riflessa dalla libertà. Non si tratta – questo è ovvio – di ripensarlo hegelianamente come Spirito della storia, del mondo, quanto piuttosto di riprendere e ripensare figura e significato di quell’«altro Consolatore», quello «Spirito di verità», di cui la Scrittura dice che il mondo non lo può ricevere «perché non lo vede e non lo conosce» (Gv 14, 16-17). Ma se non lo vede e non lo conosce come può ri-conoscerlo?
Seguendo san Tommaso Dante aveva già intuito il problema: «Per questo la Scrittura condescende / a vostra facultade, e piedi e mano / attribuisce a Dio ed altro intende» (Paradiso, 4,43-45). Cos’è quest’«altro» che la Scrittura intende? Non è certo solo il dono, è anche il datore del dono, quello Spirito che scende nel seno di Maria (Lc 1,35) e aleggia sulle acque della creazione (Gen 1,2): «Veni creator Spiritus». Adottando un linguaggio meno poetico e piú astratto Fumagalli parla giustamente di verità che si compie nella carità e spiega che «la coscienza morale ha nella carità stessa il criterio di verifica della sua migliore forma e, quindi, il riscontro della sua adeguata formazione» (p. 408). Un’intuizione profonda, che presuppone una ricomprensione non meno profonda di quello «Spirito di verità» che è sí dono pasquale di Cristo, ma è anche datore di quel dono. D’altro canto se la coscienza morale – ecco la possibilità di un secondo sviluppo, questa volta di ordine pratico, – ha nella carità il suo criterio ultimo e indeducibile di verifica la domanda è: vi sono altri criteri penultimi e in qualche modo deducibili di formazione della coscienza morale? Sí, risponde Fumagalli nella parte finale della sua trattazione: sono gli effetti della carità, i cosiddetti «frutti dello Spirito», di cui egli coglie il valore, ma anche i limiti, da individuare nella presunzione di chi li valuta solo a partire dalla immediatezza e istantaneità delle singole azioni e non dal contesto di un «essere storico che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose libere scelte» (p. 415).
Rimane il fatto, precisa Fumagalli, che «della qualità della propria coscienza l’uomo può sapere meglio non prima, ma dopo aver agito». Il che è perfettamente comprensibile. Ma implica che si possa valutare meglio tale qualità solo dopo aver agito? A me non pare. Tanto piú che l’argomentazione addotta: «se il criterio degli effetti prodotti dalla carità può risultare insufficiente per giudicare la singola azione, tanto piú anticipatamente all’averla compiuta» (p. 416), non convince: quell’«a posteriori» dell’azione non rimanda anche a un «a priori» che nel saggio viene presupposto, ma non debitamente argomentato? La verità è che in ambito teologico- morale non si percepisce ancora adeguatamente la carenza, e di conseguenza l’utilità, di una «scientia moralis», di una teoria etico-normativa, che offra alla coscienza, al soggetto, criteri sufficientemente elaborati per affrontare e possibilmente risolvere conflitti e dilemmi morali che la «scientia amoris» (p. 367), pur nella sua peculiarità (un ossimoro?), non sembra in grado di sciogliere, quanto meno in riferimento al comportamento.
D’altra parte se vi è integrazione nell’ambito della fede cristiana tra dimensione teologica e antropologica della coscienza morale, perché non pensare e lavorare anche per una maggiore integrazione tra coscienza ed etica normativa? E nell’ambito della formazione della coscienza, tra carità in quanto norma o criterio dell’atteggiamento moralmente buono, ed effetti della carità, i cosiddetti «frutti dello Spirito», quali modalità di compimento della carità che corrispondano a comportamenti moralmente retti, non erronei. Da valutare certo «a posteriori», come effetti della carità, ma da individuare anche «a priori», dotandosi di una teoria morale che permetta di valutare in modo per quanto possibile «scientifico», rigoroso, effetti o conseguenze positive e negative, per sé e per gli altri, a breve e lungo termine, di azioni o comportamenti da porre o assumere sulla base degli elementi moralmente rilevanti di determinati contesti operativi.
Contesti attraversati sempre piú da contraddizioni, conflitti e dilemmi morali di non facile soluzione anche per uomini di buona volontà o di grande fede, chiamati a discernere in situazione quando la coscienza morale sia veramente «eco dello Spirito» e quando invece reazione o riflesso condizionato di bisogni o interessi particolari, non esclusi bisogni o interessi di ordine religioso.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2012
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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