Heidegger e la teologia
(Novecento teologico)EAN 9788837225094
Lo stretto rapporto tra pensiero teologico e filosofia heideggeriana è dimostrato da decenni di dialogo fecondo. La teologia del XX secolo, infatti, ha intrattenuto uno scambio significativo con le opere del filosofo del Dasein. L’inizio del XXI secolo, inoltre, non sembra voler mettere l’opera del noto pensatore nel dimenticatoio. Non è solo l’origine della sua formazione a presentare produttive suggestioni di studio, ma la consistenza delle sue riflessioni, prima così asettiche da sembrare fredde, poi, dopo la Kehre, così aperte ai toni dell’evento da sfiorare, per alcuni tratti, i percorsi ben più alti della mistica.
Il motivo di questa interazione sta certamente nelle grandi aperture che Heidegger lascia intravedere, ma anche nella forza della dimensione esistenziale, che la teologia contemporanea considera fondamento della ricerca teologica e dell’esperienza di Dio nella postmodernità. Alberto Anelli, docente dell’Università di Trento, ha voluto, nelle quasi centocinquanta pagine di questo agevole testo, ripercorrere i sentieri teologici della produzione heideggeriana, forte di una precisa scelta metodologica di fondo e di un potenziale di novità da donare al dibattito. La scelta metodologica, palesata all’inizio del testo, sfugge alle tre tendenze d’approccio correnti (l’apologia, che “enfatizza” il debito di Heidegger verso la cultura cattolica; il concordismo, che cerca di assumere paradigmi filosofici per tradurli tout court in impostazioni teologiche; l’oltranzismo che nega ogni possibilità di riferimento di Heidegger alla teologia) (cf. p. 8) e anche alla tentazione di ripercorrere il cammino teologico del Novecento per scorgervi, qua e là, tratti heideggeriani.
L’intento è di capire che cosa abbia reso possibile questo confronto. L’autore parte dal presupposto che Heidegger abbia sottratto alla teologia il modello epistemologico per applicarlo al suo percorso filosofico col finire di stringere, la teologia stessa, nel confine della metafisica. La novità del lavoro è data anche dallo studio diretto di scritti giovanili heideggeriani solo apparentemente marginali e recentemente ritrovati (cf. p. 15). Il testo si suddivide in due capitoli (Il percorso di Heidegger e La lezione heideggeriana) e riporta, in appendice, uno scritto del filosofo tedesco (Dalla fenomenologia al pensiero) che integra, con una sintesi importante, i contenuti dell’analisi critica espressa dal saggio.
L’apparato critico risulta buono e composito, ma, soprattutto, aiuterà gli studiosi del settore la nota bibliografica ampia e suddivisa in riferimento ai “teologi” legati ai percorsi heideggeriani. Il primo capitolo attinge, come detto, a recenti scoperte storiografiche. La formazione di Heidegger, infatti, è ricostruibile già dai lavori di un appassionato ventenne impegnato a vestire i panni dell’apologetica cattolica nell’ambito della grande crisi modernista. Il vantaggio di rileggere gli articoli di questo periodo, consiste nella possibilità di tracciare un percorso progressivo che conduce, dalla ferma difesa della tradizione neotomista, all’apertura consapevole ai temi della trasformazione moderna, kantiana, dell’esperienza filosofica. La questione delle condizioni di possibilità impegna il giovane Heidegger che apprende l’insegnamento di alcuni docenti (Schell e Braig) che applicano le novità kantiane alla teologia.
Su questo modello cui Heidegger si rivelava man mano sempre più sensibile, pesava l’impianto epistemologico proposto dal Concilio Vaticano I, ma il neotomismo di aria tedesca aveva mostrato strade di convergenza tra alcuni punti del kantismo e le consistenti acquisizioni dell’impostazione classica. In secondo luogo, lo studio della psicologia religiosa e la critica alla sua pretesa veritativa assoluta, avevano spinto Heidegger a conservare intatta la certezza che una fondazione metafisica del fenomeno religioso fosse comunque necessaria: al centro della questione rimaneva il rapporto tra soggettività e oggettività. Molto lo avrebbero aiutato gli studi della mistica medievale, portati avanti fino al 1919. In una fase successiva del pensiero di Heidegger, si sviluppa la cosiddetta ermeneutica della fatticità (1919-1923).
Il rapporto tra soggetto e realtà è colto, in questo periodo, in un’unità originaria, in una sorta di “esperienza” che si dà e dalla quale il soggetto non si libera, rimanendovi stabilmente legato nel livello dei significati che gli sono dati con l’esperienza stessa. È questo “l’evento”, che si contrappone al “processo” di matrice kantiana e husserliana. Dall’ermeneutica fenomenologica della fatticità nasce un’antropologia fenomenologica radicale (cf. p. 37). Verso la fine degli anni venti, Heidegger struttura l’“ontologia fondamentale” di Essere e tempo. Il Dasein ricomprende l’antico tema dell’essere in una rielaborazione verticale della questione del fondamento (cf. p. 38). Decisivo, in questa fase, è l’apporto dello studio di Husserl cui l’opera heideggeriana è dedicata.
Bisogna, perciò, superare la separazione soggetto-oggetto di matrice cartesiana e scoprire la prospettiva ermeneutica che coglie l’uomo nel suo In-der-Welt-sein. L’unità strutturale è data dalla Sorge e la sua condizione necessitata è la temporalità. La questione del fondamento, quindi, diviene la questione del “senso” (inteso come condizione di possibilità della comprensione). Gli anni subito successivi a Essere e tempo servono a guadagnare una posizione particolarmente importante: una sorta d’inscindibile rapporto tra Essere ed ente. Heidegger si ritrova, così, davanti alla questione del fondamento (problema dell’alterità, per cui l’Essere riguadagna una propria autonomia rispetto al Dasein; questione del rapporto inscindibile Essere-ente; problema della riconsiderazione del rapporto dell’Essere con il Dasein con cui si presenta il tema del soggetto umano).
La categoria del fondamento (Grund) diviene, per Heidegger, quella dell’“abissale inesauribilità” (Abgrund) e, quest’ultima, s’identifica sempre di più con la grande questione dell’Ereignis. Nell’evento, che pian piano si de-escatologizza, Heidegger intravede l’unità originaria delle due questioni fondamentali (soggetto-mondo; essere-Dasein). Negli anni Cinquanta avrà modo di specificare il luogo in cui l’Ereignis avviene e si dà: il linguaggio. Il secondo capitolo di questo lavoro risulta ancor più interessante. Anelli mette in evidenza che dalla grande tensione tra correlazione ermeneutica (rapporto uomo-mondo) e correlazione ontologica (rielaborazione della tradizionale questione dell’essere) nasce il vero nodo concettuale che ha provocato percorsi teologici sensibilmente heideggeriani. Da queste due correlazioni nascono la questione ontologica, la questione antropologica e la questione epistemologica.
La prima di queste affronta il tema del fondamento. La metafisica moderna vede nella triade io-Dio-mondo il fondamento unitario. In questa triade, però, Heidegger scorge una sorta di unione composta di ciò che dall’inizio si dà separato. Al contrario, accogliendo la lezione husserliana, il filosofo tedesco considera che, all’origine di tutto, si ponga una coappartenenza di Essere e uomo che salvaguarda la differenza senza composizione dialettica. Questo darsi di una relazione strutturalmente ineliminabile, è l’evento da cui partire, ma rimane, in Heidegger e negli heideggeriani, una questione annunciata e non indagata: come accada il darsi di questa relazione. C’è, infatti, un’assenza nel discorso.
Secondo Anelli, sulla scorta dello studio di von Balthasar, infatti, la teologia è stata “escatologizzata” dall’eliminazione della questione “Dio” dal trattato di metafisica razionale. Il pensiero heideggeriano spinge la teologia a scegliere una strada che possa dare valore alla coappartenenza originaria aiutandola a non cadere nelle maglie di un’impostazione dialettica di tipo barthiano né nell’orizzonte antropologico dell’impostazione rahneriana. I tentativi fatti dai teologi, spesso, non riescono a non cadere nell’uno o nell’altro. Con le categorie di “scrittura” e “promessa”, reciprocamente, Bultmann e Moltmann tendono a rimanere nello schema dell’alterità dialettica barthiana, dalla quale non sfugge neanche Jüngel. Rahner e i rahneriani, d’altronde, tendono ad aprire, una nuova porta alla teologia cattolica imbrigliata nello schema natura-sovranatura dall’impostazione dell’apologetica post-cartesiana. Rahner ha riaccolto la struttura kantiana dando al soggetto l’apertura del tomismo trascendentale di Maréchal (cf. p. 69) e afferma l’esistenza di una “precomprensione dell’essere” atematica e fondativa di ogni esperienza del conoscere e dell’agire. Questa condizione, però, è un dono che viene all’uomo dall’esterno e che lo rende un “esistenziale soprannaturale”. Il rischio che l’alterità sia assorbita dal soggetto, però, rimane anche in questa variante heideggeriana dell’impostazione dialettica kantiana. Per Anelli il pensiero del filosofo di Essere e tempo manca di riconoscere la differenza ontica. Sembra, infatti, che, in Heidegger, il singolare si perda nell’universale.
Neanche la categoria della temporalità e della mortalità riescono a esprimere il pieno senso dell’autonomia. La singolarità esistenziale è assolutamente eteronoma, priva di specifica identità. Se la filosofia del soggetto aveva spinto all’autonomia, l’ontologia fondamentale e la sua svolta propongono, sub contrario, la stessa dialettica. In teologia, Barth aveva messo in luce l’esigenza di partire dall’umanità del Cristo per recuperare il senso concreto di ogni esistenza specifica e così avevano fatto i suoi successori. I discepoli di Rahner (Verweyen, Pröpper), d’altro canto, non riescono a eliminare quello che è il vero limite della teologia trascendentale: in essa, libertà, ragione e coscienza conservano un valore formale. Una concezione eteronoma del soggetto impedisce una vera valorizzazione della singolarità, come dimostra l’impostazione di Pannemberg che prefigura una radicale passività (cf. pp. 81-82): «Il sé di Pannemberg è un’alterità a cui il soggetto si deve conformare per costituirsi e che è data alla società dalla storia» (p. 82).
Sia nelle impostazioni gadameriane che ricoeuriane, poi, la problematica non cambia. Un altro tema teologicamente sensibile è la questione epistemologica. In essa si propone il problema del come si possa arrivare a toccare e conoscere l’evento. L’Heidegger di Essere e tempo non era riuscito a esplicitare una teoria della conoscenza che comprendesse una vera e propria disamina dei diversi modi del sapere. Ricoeur, criticando l’impostazione, aveva cercato di tenere insieme il principio di pluralità e di confronto, utili per la realizzazione di percorsi condivisi (specie per l’etica). Per Heidegger, infatti, la conoscenza non si riferisce a un criterio assoluto di verità, ma a un principio di “correttezza”.
L’essere ente tra gli enti, mette l’uomo nella condizione di essere, nelle determinazioni della sua esistenzialità specifica, un ricettore: «Sapere è afferrare ciò che viene da altrove» (p. 89). Da questa impostazione (che detrascendentalizza il sapere), nasce una problematica aperta relativa ai criteri intersoggettivi di valorizzazione della verità, specie in ambito sociopolitico (Apel e Habermas). Sulla scorta della sesta ricerca logica di Husserl, il pensatore del Dasein afferma che ciò che consente al soggetto di mettersi in una dimensione di conoscenza è l’intenzionalità, che precede, come struttura, la soggettività stessa. Da qui l’accusa, mossa a Heidegger da Rombach, di non specificare coraggiosamente la differenza ontica attraverso la valorizzazione dell’individualità di ogni ente (è la tesi dell’apax ontologico). E riguardo alla conoscenza di Dio? La teologia, anche in questo caso, si confronta con il pensatore tedesco.
In maniera particolare, il dibattito antico e moderno sulla natura dell’atto di fede, acquisisce la nuova categoria della “decisione”, ispirata parzialmente proprio all’analitica del primo Heidegger. In questa prospettiva (tipica della scuola teologica milanese) la decisione non ha solo una dimensione fenomenologica, bensì ontologica: la libertà non è libertas indifferentiae bensì capacità di andare incontro alla propria vita in forma di progetto. L’atto di decisione avviene per evidenza simbolica (cf. p. 101). Come per la vita di Cristo, la vita del credente si scopre nell’essere per la vita e non per la morte, nel porsi in un orizzonte diverso dalla semplificazione esistenzialista. Proprio dal punto di vista della questione epistemologica, però, si rivela la debolezza di questo nuovo impianto: una fede cristiana non può dare per implicito in un atto di decisione atematico il riconoscimento di Cristo come il Salvatore.
Nel corso dei secoli, i criteri di evidenza interna ed esterna, rispetto all’atto di fede, hanno segnato un accento razionalistico oppure uno più esperienziale. Heidegger è un solco in cui non si radicalizza l’alternativa ma che, come dimostra la lezione di Gadamer, prevede una apertura e una possibile continuità. L’auspicio finale dell’autore è che si possa ritornare a Heidegger come a un filosofo che ha ancora percorsi aperti da offrire. Il testo di Anelli, credo, sia una riuscita sintesi in prospettiva. La sintesi è chiara e completa, uno sguardo complessivo a una vicenda estremamente frammentata e, comunque, affascinante.
Questo, però, fatto in virtù non di una mera intenzione di ricostruzione storiografica o rappresentativa della filosofia e del filosofo, bensì in una proposta di approfondimento teologico a partire da tracce criticamente proposte del passaggio heideggeriano nell’itinerario culturale del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Come detto, la certezza che accompagna il lavoro è che la fine del secolo non abbia chiuso il dialogo tra il filosofo del Dasein e la teologia.
Tratto dalla rivista "Asprenas" n. 1-4/2012
(http://www.pftim.it)
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