La Compagnia divisa
-Il dissenso nell'ordine gesuitico tra '500 e '600
(Storia)EAN 9788837223014
Oltre alle molte aggressioni esterne (príncipi, illuministi) e intraecclesiali (papa, ordini mendicanti, vescovi), i gesuiti dovettero affrontare i dissensi della seconda generazione, di quelli cioè che erano disponibili a traghettare la congregazione sulle sponde più note della legislazione degli altri ordini e su consuetudini coerenti con la vincente Riforma cattolica. Il gruppo più attivo dei contestatori era spagnolo, ma consensi gli venivano un po’ da tutte le province. Il rifiuto della centralità del padre generale, del centralismo romano, della minuziosità legislativa, dei diversi gradi interni: tutto sembrava convergere in una revisione profonda della nascente Compagnia. Discussione che si alimentava anche dai dissensi relativi a questioni teologiche come quella sulla predestinazione o a tensioni nazionalistiche e localistiche. La fermezza dei responsabili (in particolare il generale C. Acquaviva) e la fecondità del ministero nei confini più difficili dell’evangelizzazione fecero superare il difficile momento.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 12
(http://www.ilregno.it)
Obbedienti perinde ac cadaver? Forse no, o quantomeno non sempre. Il libro di Michela Catto cerca di dimostrare come il proverbiale spirito di sottomissione dei gesuiti (i quali, secondo le parole del Loyola, avrebbero dovuto lasciarsi «guidare dalla divina provvidenza, per mezzo del superiore, come un cadavere che si lascia portare dovunque e trattare come altri vuole») non fosse affatto una conquista pacifica. Il tentativo è dunque quello di sfatare un luogo comune, pervicacemente radicato tanto nella storiografia apologetica interna all’Ordine, quanto in quella “laica”, secondo il quale la Compagnia sarebbe nata come un corpo monolitico e compatto, disciplinato e fedele per vocazione, “naturalmente” in linea con i dettami controriformistici e le esigenze di Roma.
La realtà risulta molto diversa da questa immagine oleografica: se già erano note le inquietudini e le critiche che i primi gesuiti si erano attirati (la loro particolare vita religiosa, aliena dalle mortificazioni esteriori e dalle pratiche di orazione comune, così come l’attenzione posta sul discernimento degli spiriti e la ricerca di una perfezione spirituale li aveva fatti anche tacciare di alumbradismo, particolarmente da parte dei domenicani spagnoli), il merito del lavoro di Michela Catto sta nell’aver allargato questo piano di osservazione alla seconda metà del XVI secolo, concentrandosi sul dissenso interno all’ordine di Ignazio. Il momento più aspro e difficile furono sicuramente gli anni ’90 del Cinquecento, ma giustamente il libro si apre con la ricostruzione delle origini di quei problemi che sarebbero poi esplosi – e la comunità dei fondatori risulta molto meno compatta e solidale del previsto. La «sedizione di Bobadilla», cioè il tentativo del gesuita spagnolo di fare appello al pontefice Paolo IV contro le Costituzioni della Compagnia, ritenute «un laberinto proliso», bisognevole di riforma «perché contengono cose, le quale la sede apostolica non li concederà mai», è in questo senso esemplare: soltanto un anno dopo la morte del fondatore, uno dei suoi primi compagni metteva in dubbio l’ispirazione divina delle prescrizioni da lui stabilite («certo era prudente, ma era anche homo et haveva proprie opinioni»), criticando l’irrigidimento normativo che la Compagnia stava subendo sotto il vicario Laínez e proponendo invece la stesura di una semplice Regola, più simile a quella degli altri Ordini.
La proposta di Bobadilla non passò, e le Costituzioni vennero approvate dalla prima Congregazione generale (anche se il pugnace papa Carafa riuscì a modificarle, almeno per gli anni in cui visse), ma l’oggetto del dissenso e la modalità con cui veniva espresso fecero scuola. Da allora abbondarono infatti i memoriali in cui si criticava l’assoluta singolarità del particolare modo de proceder della Compagnia, basata su di una anomala distinzione tra i «professi» (quelli che non arrivavano ad emettere il quarto voto circa missiones risultavano di fatto discriminati, o come tali si percepivano), su di un eccessivo accentramento dei poteri nel generale (eletto a vita), così come nella mancanza di pratiche comuni a tutti gli altri ordini religiosi (una per tutte, la recita delle ore in coro), vista in senso orgogliosamente anti-monastico e anti-conventuale. Negli anni del generalato di Francisco de Borja (1565-1572) germogliavano poi altre istanze destinate a creare problemi all’interno della Compagna: la presenza di correnti profetiche e spiritualiste, concentrate nel collegio di Gandía ma destinate poi a un lungo corso in Italia, e soprattutto la nascita di un “nazionalismo” che creava divisioni tra i rappresentanti delle varie Province, ed era particolarmente forte in Spagna, dove personaggi legati alla corte come Antonio de Araoz propugnavano una sorta di separatismo iberico.
Il desiderio di Filippo II di poter controllare gli ordini religiosi operanti sul territorio spingeva i gesuiti a lui legati a chiedere un proprio generale indipendente da Roma, e a criticare fortemente il Borja per la politica di apertura ai novizi di origine ebraica: essa avveniva infatti proprio nel momento in cui la Spagna si chiudeva nell’ideologia della limpieza de sangre. Conseguenza di ciò fu un forte cambiamento di rotta sotto il primo generale non spagnolo, Mercuriano (1573-1580): furono presi provvedimenti che reindirizzavano in senso antimistico le linee spirituali della compagnia e soprattutto vennero allontanati dalle cariche e reimpatriati in Spagna molti membri di orgine giudeoconversa. Questo fatto suscitò le prevedibili critiche di quanti si vedevano emarginati a causa della propria ascendenza ebraica, ma proprio tale dissenso rafforzò l’idea che i mali e la disunione della Compagnia fossero causati in prima istanza dall’eccessiva presenza di cristianos nuevos (si veda la campagna diffamatoria contro Dionisio Vázquez): nel 1593 si giunse infine a proibire loro l’ingresso nella Compagnia, divieto rimasto in vigore fino alla metà del secolo scorso. Nonostante la centralità della Spagna nell’alimentare queste polemiche (la Catto fa notare come il paese «che aveva dato i natali al fondatore della Compagnia [...] si rivelò per buona parte dell’età moderna una spina nel fianco») è tuttavia tra gli italiani che spiccano alcuni dei più attivi «memorialisti»: fu infatti il padovano Achille Gagliardi, docente di teologia al Collegio Romano, a intervenire presso Gregorio XIII per criticare l’operato del generale e l’indeterminatezza con cui veniva assegnato il quarto voto; parimenti, fu un giovane gesuita genovese, Benedetto Giustiniani, a far circolare una lettera anonima in cui si difendevano il Gagliardi e altri suoi sodali (Palmio, Maffei, il futuro cardinale Francisco Toledo) dalle aspre rappresaglie interne provocate dalla notizia della loro «delazione».
Seguendo il trasferimento del Gagliardi da Roma a Milano, l’autrice evidenzia come nella città lombarda si spostasse anche il centro del dissenso gesuitico: a partire dal contrastato rapporto vissuto dalla Compagnia con l’arcivescovo (la primitiva intimità e collaborazione vennero messe a dura prova dalle prediche del gesuita Mazarino, che si schierava con il governatore contro le riforme del Borromeo), per finire con il clamoroso «caso Berinzaga». La carismatica nobildonna Isabella Berinzaga aveva infatti riunito intorno a sé un gruppo di gesuiti che la ritenevano dotata di virtù profetiche e del compito di illustrare le riforme necessarie al miglioramento dell’Ordine gesuitico: in questo ambiente Achille Gagliardi stese una sua biografia e, in particolare, un Breve compendio di perfezione cristiana, subito condannato dalla censura interna ed edito postumo, solo per finire condannato dall’Indice durante le prime campagne inquisitoriali contro il quietismo. Il sospetto dei superiori nei confronti di questa ennesima «divina madre» (a cui si univa il pericolo di risvegliare le antiche critiche già suscitate da Loyola e compagni per le loro frequentazioni spirituali femminili), così come il dubbio del generale che «con questo trattar con madonna Isabella delle cose nostre, un giorno non si facesse là alcun scisma», condussero infine all’allontanamento del Gagliardi da Milano e da ogni incarico.
L’analisi del dissenso interno gesuitico raggiunge il suo climax nel capitolo dedicato alla descrizione del «partito degli zelatori» attivo sotto il lungo generalato Acquaviva (1581-1615): alcuni membri della Compagnia, scrive la Catto, «richiamandosi proprio all’amore [zelo] che dicevano di nutrire verso il proprio Ordine, erano incapaci di riconoscersi nell’Ordine gesuitico così come strutturato e organizzato, considerandolo già lontano dallo spirito ignaziano, già profondamente violato nella sua essenza originaria». Personaggi importanti e conosciuti per dottrina e cariche, come Josè de Acosta e Francisco Toledo (oltre all’ostinato Gagliardi, naturalmente), cominciarono così a guidare la produzione di una massa di denunce (i «memoriali ») volte a delegittimare Acquaviva e a condurre a una profonda trasformazione della Compagnia, liberandola dalla sua rigida gerarchia, imperniata sull’arbitrio del generale e sul sistema dell’obbedienza. Tali memoriali, che giunsero anche nelle mani del Sant’Uffizio, dovettero trovare una sponda anche nelle alte gerarchie se il 14 luglio 1592 il cardinale di Camerino, probabilmente d’intesa con Sisto V, dava lettura di una relazione in cui si proponevano drastici rimedi ai mali della Compagnia: «dei nuovi visitatori apostolici, un cardinale protettore, l’elezione a tempo determinato delle cariche interne, a partire da quella di generale, l’obbligo di visita annuale dell’Europa o parte di essa, la determinazione di un tempo preciso in cui riunire la congregazione generale e, infine, lo scandire i tempi per la professione solenne», secondo la sintesi della studiosa. La quinta Congregazione generale (1593), la prima ad essere convocata senza che vi fosse la necessità di eleggere il generale, fu dunque il teatro in cui il dissenso ebbe la possibilità di palesarsi. Alla resa dei conti tuttavia, le manovre di Acosta e Toledo fallirono: grazie alla minaccia della disgregazione dell’Ordine e del blocco dell’attività missionaria, come pure agitando lo spettro delle eccessive ingerenze dell’autorità regia (Filippo II era il patrono degli zelatori) e con piccole concessioni, Acquaviva riuscì a riconquistarsi la fiducia dei presenti e a sancire la sconfitta dei memorialisti – «questi padri hanno voluto processare il loro generale e l’hanno canonizzato» sembra che abbia esclamato Clemente VIII. Per mostrare le differenze che ormai separavano le due anime della Compagnia di Gesù, l’autrice dedica l’ultima sezione del suo lavoro a una sorta di “dialogo a distanza” tra un acceso difensore dell’istituto gesuitico e un suo prestigioso critico: Pedro de Ribadeneira e Juan de Mariana.
Il Ribadeneira, memoria storica della Compagnia e biografo dei suoi primi generali, nel lungo Tratado en el qual se da razón del Instituto de la religión de la Compañia de Jesús costruiva un’appassionata apologia delle peculiarità normative dell’Ordine ignaziano: secondo la convincente ricostruzione della Catto, l’opera (composta nel 1602 ed edita tre anni più tardi) non era stata scritta per rispondere alla consuete critiche degli altri Ordini religiosi, ma piuttosto era indirizzata a una fruizione riservata ai soli gesuiti, «per rispondere ad incomprensioni tutte interne alla Compagnia». La strategia argomentativa del Tratado si basava sull’accentuamento della continuità del modo de proceder gesuitico con la tradizione apostolica e delle prime comunità: frequenti erano i riferimenti alle opere dei Padri della Chiesa, così come il ricorso a comparazioni con altri Ordini religiosi o alle conferme più volte ottenute dalla Santa Sede per ribadire la piena legittimità delle regole dell’Ordine. Profondamente diversa erano invece l’opinione che di esse aveva il toledano Mariana, dotto poligrafo (scrisse di temi biblici, filosofici, morali, storici e anche economici), celebre presso gli storici soprattutto per la tesi della liceità del tirannicidio, espressa nel proprio De rege et regis intitutione (1599). La stessa impostazione duramente critica nei confronti del potere arbitrario del sovrano – il quale non doveva mai dimenticare come il proprio potere derivasse da una volontario trasferimento di autorità da parte dei sudditi, che potevano revocare il proprio consenso in caso di abusi o irregolarità – si ritrova applicata in uno scritto più tardo volto a discutere la struttura e l’organizzazione della Compagnia di Gesù.
Il Discurso sobre las enfermedades de la Compañia, concluso tra il 1602 e il 1605, fu pubblicato solo nel 1625 (in Appendice al volume della Catto è riprodotta la traduzione italiana apparsa in quell’anno con luogo di edizione Bordeaux); lo scandalo fu così elevato che non solo l’opera venne subito proibita dagli Indici spagnolo e romano, ma si cercò anche in più occasioni di negarne l’autenticità e la paternità. Mariana, del resto, nel libretto attaccava non solo il sistema di professione dei quattro voti o l’educazione dei novizi (criticando aspramente anche le «novità» introdotte dal Molina in materia di grazia rispetto alla dottrina tomistica), ma concentrava il proprio dissenso proprio nella questione della «monarchia» gesuitica: «considerisi se questo mal non viene da questo, che ’l general, e tre o quattro in ciascuna provincia, hanno tra le lor mani tutto il governo, senza farne parte agl’altri [...] che si gettino un poco gl’occhi sopra il nostro padre generale che è hoggidì, che si consideri se egli non ha niente procurato d’accrescer la sua auttorità con eccessi». Un tale Ordine, sosteneva Mariana, non sarebbe stato affatto approvato dal fondatore Ignazio: era necessario correggere quella «tirannia» aumentando il potere di controllo delle congregazioni provinciali e limitando il centralismo romano.
Questo prolungato dibattito tra due differenti concezioni dell’essere gesuiti, tra quanti cioè volevano correggere la forma della Compagnia, adeguandola a modelli consolidati e riportandola sugli stretti binari della Controriforma, e coloro che invece lottavano per difendere le particolarità dell’istituto ignaziano, vide infine la sconfitta del partito memorialista: a ciò contribuirono indubbiamente il successo che la «differenza» gesuitica aveva saputo conseguire nel campo missionario, così come la progressiva opera di sacralizzazione e indiscutibilità a cui il fondatore e le sue regole vennero sottoposte (nel 1584 Gregorio XIII proibì con la scomunica le discussioni o i commenti non autorizzati alle Costituzioni; nel 1609 venne beatificato Ignazio). Un merito sicuro di un lavoro come quello di Michela Catto è proprio l’aver saputo rovesciare questa interpretazione apologetica tesa a negare le divisioni e le fratture interne all’Ordine, per consegnarci una visione dei primi decenni di vita della Compagnia più problematica e consapevole.
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (3/2010) 508-512
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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