Nuovi studi aristotelici [vol_3] / Filosofia pratica
(Filosofia. Nuova serie)EAN 9788837221645
Terzo vol. della collana «Nuovi studi aristotelici» che l’editrice bresciana presenta a firma dell’a., uno dei massimi esperti di Aristotele. Sono articoli e saggi pubblicati nell’arco di alcuni decenni e riguardano la filosofia pratica contenuta nelle due Etiche (nicomachea ed eudemea) e nella Politica. I primi dieci cc. riguardano temi d’etica (come teoria e prassi, ragione pratica e normatività, la prudenza, la giustizia come proporzione, il piacere, il concetto di amicizia, le emozioni). Gli altri sette riguardano tematiche di filosofia politica (la concezione aristotelica dello stato, la società civile, il filosofo e la città, i barbari di Platone e Aristotele). Testo di studio.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 14
(http://www.ilregno.it)
Dopo Epistemologia, logica e dialettica e Fisica, antropologia e metafisica, editi dalla Morcelliana rispettivamente nel 2004 e nel 2005, questo terzo volume della serie Nuovi studi aristotelici ("nuovi" rispetto al testo di E. Berti, Studi aristotelici, Japadre, L’Aquila 1975), è strutturato in 17 capitoli, costituiti da altrettanti saggi (10 dei quali riguardano temi di etica, mentre gli ultimi 7 sono incentrati su questioni squisitamente “politiche”) che si snodano lungo un percorso estremamente articolato, condotto con una chiarezza esemplare. Tra le numerose questioni e i rilevanti nodi problematici del pensiero dello Stagirita attraversati dagli studi Berti, possono essere richiamate, in modo necessariamente sommario, le articolazioni delle complesse figure di theoria, di praxis e di poiesis.
Emblematica, in questo senso, la diversa calibrazione che la figura del poiein viene a ricevere, da un lato nell'ambito della riflessione logico-ontologica (al cui interno viene intesa come "agire", ovvero come categoria dell'essere contrapposta al "patire") e, dall'altro, nell'orizzonte etico, in cui la poiesis viene ad assumere il significato "tecnico" di azione ateles, cioè imperfetta, in contrapposizione a quell'azione perfetta che è la theoria. «La superiorità della teoria sulla prassi non esclude che la teoria, in Aristotele, possa essere finalizzata alla prassi» (p. 11). Da un certo punto di vista, infatti, e più precisamente in rapporto a quella duplice modalità di esercizio della ragione pratica rappresentato dalle due virtù dianoetiche della saggezza e della tecnica, la theoria costituisce il 'momento conoscitivo', momento certamente fondamentale ma che «è interamente finalizzato all'azione e, rispettivamente, alla produzione» (p. 11).
Si assiste così all'individuazione di vari livelli di subordinazioni e di diversi sensi di "primati", facendo emergere una trama argomentativa fatta di confini chiari, di nessi precisi e, insieme, 'mobili', sempre nuovamente da individuare e da ricostruire secundum quid. Un approccio flessibile che, nel caso specifico del rapporto tra teoria e prassi, lungi dal tradursi in una relazione di opposizione o di alternativa, dà luogo in Aristotele -e diversamente da quanto accade in alcuni esponenti della filosofia a lui posteriore- a un «rapporto di successione continua (corsivo nostro)» (p. 14). All'attenta esplorazione della complessa e cruciale nozione di saggezza (phronesis) sono, inoltre, dedicati diversi contributi, volti a restituire, da un lato, tutti i suoi molteplici profili e le sue diverse specie (di cui una è la saggezza relativa al governo di se stessi, chiamata semplicemente phronesis, un'altra è quella relativa al governo della casa, o phronesis economica, un'altra ancora è quella relativa al governo della città, o phronesis politica, che, a sua volta, si divide in saggezza legislativa, deliberativa e giudiziaria) e, dall'altro, volti a stabilire con chiarezza i confini di due nozioni spesso erroneamente confuse o sovrapposte, quali quelle di 'saggezza' e di 'filosofia pratica'.
A questo scopo Berti passa minuziosamente in rassegna tutte le caratteristiche e le movenze argomentative delle due 'figure' in questione, ricordando come, benché da un lato presentino entrambe, seppur in senso diverso, un carattere normativo, dall'altro esse costituiscano due realtà irriducibili, caratterizzate da fondamentali differenze. Differenze spesso erroneamente sottovalutate, sottolinea lo studioso, il quale ricorda anche come «la riduzione della filosofia pratica alla phronesis diffusa tanto nel "neo-aristotelismo" odierno quanto nei suoi critici, ha avuto importati conseguenze dal punto di vista filosofico: essa ha portato infatti a fare di Aristotele un conservatore, cioè un filosofo preoccupato unicamente di giustificare, o di razionalizzare, il costume esistente… ma questo è soltanto il significato della phronesis, la quale presuppone la virtù etica, cioè appunto l'ethos…
Al contrario, la filosofia pratica di Aristotele è spesso critica nei confronti del modo di pensare vigente» (pp. 31-32). Al fondamentale tema dell'amicizia e della sua imprescindibile funzione all'interno della vita buona sono, inoltre, dedicati quattro ricchi saggi di Berti che osserva la complessa questione da varie prospettive (logica, psicologica, sociale e antropologica), mettendo a fuoco con estrema chiarezza alcuni degli snodi concettuali di questa nozione straordinariamente vasta (visto che il termine philia esprime «qualsiasi forma di affetto fra gli esseri umani»), a cui lo Stagirita dedica un quinto dell’Etica Nicomachea, cioè lo spazio maggiore che un filosofo abbia mai dedicato ad esso. Tra le molteplici questioni scandagliate dallo studioso all'interno di questo vasto orizzonte, inoltre, particolarmente rilevante -anche per le sue riprese all'interno del dibattito contemporaneo- risulta l’indagine del rapporto fra le tre forme di amicizia, e cioè fra l’amicizia virtuosa, l’amicizia utile e l’amicizia piacevole.
A questo proposito si sottolinea come, a fronte dello scenario delineato nella Nicomachea, secondo cui l’amicizia virtuosa si configurerebbe come l’amicizia nel significato assoluto e le altre due forme costituirebbero delle amicizie solo in senso improprio, cioè per accidente, e per somiglianza rispetto all’amicizia del primo tipo, l’Etica Eudemia prospetterebbe uno scenario diverso, stabilendo fra le varie forme di amicizia un rapporto di omonimia relativa, ovvero di relazione ad uno (omonimia pros hen), quella stessa relazione che Aristotele stabilisce tra i diversi significati dell'essere e dell'uno nel IV libro della Metafisica.
Le varie forme di amicizia, infatti, si legge in alcune delle pagine concettualmente più dense e problematiche dell'Eudemia, non si danno né in un solo senso, cioè in modo univoco, né in modo del tutto equivoco (cioè secondo una omonimia totale), ma secondo una omonimia relativa, che consiste nell'uso di un termine in più sensi, ma tutti relativi a un senso primo (kurios): l'amicizia fondata sull'utile e l'amicizia fondata sul piacere, infatti, sono dette amicizie "in relazione" all'amicizia fondata sulla virtù, dal momento che esse contengono, nelle loro definizioni, un riferimento a quest'ultima. All'esplorazione del nesso tra Stato e società civile sono dedicate molte interessanti pagine del volume di Berti, volte a ricostruire, tra l'altro, le articolazioni concettuali più significative di nozioni come polis (da identificare non con lo Stato, cioè con l'insieme delle istituzioni attraverso cui si esercita il potere, ma con la comunità politica) e politeuma (nozione che più si avvicina al moderno concetto di Stato), scandagliandone attentamente il retroterra storico e mostrando la "validità metastorica" dei modelli delineati all'interno della Politica dello Stagirita. «Il tramonto della polis antica e la sua sostituzione ad opera dello Stato moderno sembrano aver privato di qualsiasi validità la concezione aristotelica della società politica.
Invece è necessario rendersi conto che la società politica teorizzata da Aristotele ha una base naturale, cioè esisterà sempre, sia pure in forme diverse dalla polis antica, finché ci saranno uomini sulla terra, come espressione della loro tendenza naturale ad aggregarsi in organizzazioni politiche aventi un fine comune» (pp. 224-225). Ci troviamo di fronte a un Filosofo, dunque, che oltre ad essere «l'autore, o il codificatore in senso tecnico, di quasi tutte le distinzioni concettuali che stanno alla base del linguaggio filosofico, ed anche non filosofico, della cultura occidentale» (p. 9), è ancora in grado di dirci molto, soprattutto in un ambito, quale quello etico e politico, in cui un pensatore "vecchio" di 2500 anni viene ancora letto e discusso come un contemporaneo.
Tratto dalla rivista Firmana n. 50/2010
(http://www.teologiamarche.it)
Hannah Arendt scrisse che lo sguardo dei Greci era capace di «vedere il mondo comune a tutti da un numero infinito di prospettive diverse» (Tra passato e futuro, p. 82). Esattamente in questo modo opera Aristotele, la cui “filosofia pratica” o “scienza politica” (cioè quell’àmbito di riflessione che mira ad attraversare il terreno, composito e intrinsecamente “scivoloso”, dell’etica e, insieme, della politica) prende forma attraverso le molteplici prospettive guadagnate su un oggetto già, di per sé, costitutivamente molteplice. Alla consapevolezza della irriducibile molteplicità dell’oggetto da conoscere si unisce, in Aristotele, l’insistenza sulla necessità di tener conto e di far interagire, da un lato, una molteplicità di punti vista del soggetto conoscente e, dall’altro, una molteplicità di punti di vista dei soggetti conoscenti. Enrico Berti riesce a dare pienamente conto di questo “molteplice livello di molteplicità”, mostrando gli elementi di straordinaria attualità del pensiero pratico dello Stagirita, valorizzandone con estremo rigore tutti gli snodi storici e concettuali più significativi.
Dopo Epistemologia, logica e dialettica e Fisica, antropologia e metafisica, editi dalla Morcelliana rispettivamente nel 2004 e nel 2005, questo terzo volume della serie Nuovi studi aristotelici («nuovi» rispetto al testo di E. Berti, Studi aristotelici, Japadre, L’Aquila 1975), è strutturato in 17 capitoli, costituiti da altrettanti saggi dello studioso, 10 dei quali riguardano temi di etica (cap. I, Teoria e prassi da Aristotele a Marx e... ritorno, pp. 9-23; cap. II, Ragione pratica e normatività in Aristotele, pp. 25-38; cap. III, Phrónesis et science politique, pp. 39-59; cap. IV, La prudenza, pp. 61-70; cap. V, La giustizia come proporzione, pp. 71-79; cap. VI, Il dibattito sul piacere nell’Accademia antica, pp. 81-100; cap. VII, Il concetto di amicizia in Aristotele, pp. 101-111; cap. VIII, Le rapport entre les formes d’amitié selon Aristote, pp. 113-128; cap. IX, Amitié et philosophie chez Aristote, pp. 129-139; cap. X, Le emozioni dell’amicizia e la filosofia, pp. 141-155), mentre gli ultimi 7 sono incentrati su questioni squisitamente “politiche” (cap. XI, Les écoles philosophiques d’Athènes et les princes de Chypre, pp. 157-163; cap. XII, Storicità ed attualità della concezione aristotelica dello Stato, pp. 165-209; cap. XIII, Sulla costituzione mista in Platone, Aristotele e Cicerone, pp. 211-218; cap. XIV, Quale «società civile» in Aristotele?, pp. 219-225; cap. XV, La nozione di società politica in Aristotele, pp. 227-239; cap. XVI, Il filosofo e la città secondo Aristotele, pp. 241-249; cap. XVII, I «barbari» di Platone e di Aristotele, pp. 251-268), saggi che si snodano lungo un percorso estremamente articolato, condotto con una chiarezza esemplare. Una chiarezza e un’attenzione al lettore che si accompagnano costantemente anche al rispetto per un pensiero, come quello di Aristotele, che necessita costantemente del confronto dialettico con le opinioni altrui: «C’è [...] una particolarità nel modo di dimostrare proprio della filosofia pratica, ossia il fatto che essa, trattando dei beni umani, ossia di cose che interessano tutti gli uomini, deve fare i conti con ilmodo di pensare della gente, sia nel senso di vagliare le opinioni dei singoli o dei gruppi [...] sia nel senso di farlo a partire da premesse le quali possono essere concesse da tutti, cioè a partire da quelli che Aristotele chiama gli éndoxa» (p. 26).
Tra le numerose questioni e i rilevanti nodi problematici del pensiero dello Stagirita attraversati dagli studi di Berti, vanno richiamate, in modo necessariamente sommario, le articolazioni delle complesse figure di theoría, di prâxis e di póiesis, e della serie di spostamenti che ognuna di esse viene a ricevere, sia all’interno dei diversi orizzonti teorici in cui esse vengono a collocarsi, sia all’interno del medesimo àmbito concettuale, e della trama di nessi che si viene a istituire tra di esse. Emblematica, in questo senso, la diversa calibrazione che la figura del poiêin viene a ricevere, da un lato nell’àmbito della riflessione logico-ontologica (al cui interno viene intesa come «agire», ovvero come categoria dell’essere contrapposta al «patire») e, dall’altro, nell’orizzonte etico, in cui la póiesis viene ad assumere il significato “tecnico” di azione atelés, cioè imperfetta, in contrapposizione a quell’azione perfetta che è la theoría. Peraltro, e a ulteriore conferma della radicale “polivocità” della riflessione dello Stagirita, la medesima nozione di theoría, che da un certo punto di vista detiene un chiaro e indiscusso primato rispetto alla prassi, da un altro punto di vista si configura, sempre all’interno del medesimo orizzonte etico, come condizione e strumento della prassi. «La superiorità della teoria sulla prassi non esclude che la teoria, in Aristotele, possa essere finalizzata alla prassi» (p. 11). Da un certo punto di vista, infatti, e più precisamente in rapporto a quella duplice modalità di esercizio della ragione pratica rappresentato dalle due virtù dianoetiche della saggezza e della tecnica, la theoría costituisce il “momento conoscitivo”, momento certamente fondamentale ma che «è interamente finalizzato all’azione e, rispettivamente, alla produzione» (p. 11).
Si assiste così all’individuazione di vari livelli di subordinazioni e di diversi sensi di “primati”, facendo emergere una trama argomentativa fatta di confini chiari, di nessi precisi e, insieme, “mobili”, sempre nuovamente da individuare e da ricostruire secundum quid. Un approccio flessibile che, nel caso specifico del rapporto tra teoria e prassi, lungi dal tradursi in una relazione di opposizione o di alternativa, dà luogo in Aristotele – e diversamente da quanto accade in alcuni esponenti della filosofia a lui posteriore – a un «rapporto di successione continua (corsivo nostro)» (p. 14). All’attenta esplorazione della complessa e cruciale nozione di saggezza (phrónesis) sono, inoltre, dedicati diversi contributi, volti da un lato a restituire tutti i suoi molteplici profili e le sue diverse specie (una è la saggezza relativa al governo di se stessi, chiamata semplicemente phrónesis, un’altra è quella relativa al governo della casa, o phrónesis economica, un’altra ancora è quella relativa al governo della città, o phrónesis politica, che, a sua volta, si divide in saggezza legislativa, deliberativa e giudiziaria), dall’altro a stabilire con chiarezza i confini di due nozioni spesso erroneamente confuse o sovrapposte, quali quelle di “saggezza” e di “filosofia pratica”. «Aristotele parla di “ragione pratica” in due sensi abbastanza diversi l’uno dall’altro, corrispondenti a due facoltà della ragione, l’una delle quali ha come sua “virtù”, cioè attività perfetta, la “filosofia pratica” propriamente detta, cioè l’etica, o, per usare un’espressione aristotelica, la “scienza politica”, mentre l’altra ha come sua virtù la phrónesis, o saggezza pratica, o prudenza» (p. 25).
A questo scopo Berti passa minuziosamente in rassegna tutte le caratteristiche e le movenze argomentative delle due “figure” in questione, ricordando come, benché da un lato presentino entrambe, seppur in senso diverso, un carattere normativo, dall’altro esse costituiscano due realtà irriducibili, caratterizzate da fondamentali differenze. Differenze spesso erroneamente sottovalutate, sottolinea lo studioso, il quale ricorda anche come «la riduzione della filosofia pratica alla phrónesis diffusa tanto nel “neo-aristotelismo” odierno quanto nei suoi critici, ha avuto importati conseguenze dal punto di vista filosofico: essa ha portato infatti a fare di Aristotele un conservatore, cioè un filosofo preoccupato unicamente di giustificare, o di razionalizzare, il costume esistente [...]. Ma questo è soltanto il significato della phrónesis, la quale presuppone la virtù etica, cioè appunto l’éthos. [...] Al contrario, la filosofia pratica di Aristotele è spesso critica nei confronti del modo di pensare vigente» (pp. 31-32). All’interno di questo complesso orizzonte si situa anche l’indagine sulla vexata quaestio circa il rapporto tra phrónesis e i mezzi e i fini (la saggezza, cioè, riguarda solo i mezzi o anche i fini?), indagine che conduce ad una riflessione più ampia sullo statuto epistemologico della saggezza e sul suo legame inscindibile con il desiderio.
La soluzione a cui approda Berti, misurandosi in modo puntuale con alcune delle voci più autorevoli dell’ermeneutica aristotelica (tra cui, ad esempio, Aubenque e Gauthier), è che la saggezza, dal momento che deve presupporre un fine buono e che, dunque, deve conoscerlo, riguarda sia mezzi sia i fini, sebbene in sensi differenti. La “verità pratica”, la verità corrispondente al desidero corretto, si realizza quando c’è a) un desiderio retto (cioè indirizzato ad un fine buono; diversamente, si trasformerebbe in “astuzia”) e b) un calcolo vero, cioè capace di scoprire i mezzi più adatti per realizzare un certo fine. In breve, si delinea una duplicità di passaggi che permette alla saggezza di fuoriuscire dalle rigide strettoie imposte dalla legge di Hume (in base alla quale una conclusione prescrittiva non può essere dedotta da premesse di tipo descrittivo-conoscitivo): «La phrónesis [...] è certamente conoscitiva, nel senso che sa calcolare esattamente, a partire dal fine, quali sono i mezzi più idonei per realizzarlo [...]. Poiché, tuttavia, essa presuppone comunque che il fine, da cui si deducono i mezzi, sia buono, altrimenti non è più phrónesis, cioè saggezza, ma semplice deinótes, cioè astuzia, la premessa maggiore del ragionamento da essa sviluppato, il cosiddetto “sillogismo pratico”, è sempre di carattere anche prescrittivo, perciò la conclusione di esso, in base alla “legge di Hume”, è ugualmente prescrittiva, anzi è l’azione stessa» (p. 36). Un altro dei cuori teorici della riflessione pratica dello Stagirita, di notevole interesse storico-filosofico, è la questione del piacere. Nelle due fondamentali trattazioni del piacere contenute in Etica Nicomachea VII 11-14 (A) e in Etica Nicomachea X 1-5 (B), Aristotele, inserendosi all’interno di quel vivace dibattito sviluppatosi all’interno dell’Accademia a cui presero parte, oltre a Platone, Eudosso, Speusippo, Eraclide Pontico e Senocrate, sostenne che il piacere, pur non essendo il sommo bene, costituisce indubbiamente un bene. Una presa di posizione che comporta la sottolineatura, da parte dello Stagirita, delle caratteristiche di un piacere come enérgeia (cioè come attività e non come movimento) in contrapposizione alla concezione speusippea del piacere-génesis, che si configura come qualcosa di intero e di perfetto, la cui forma specifica è perfetta in ogni momento.
A proposito della problematica duplice trattazione del piacere contenuta nell’Etica Nicomachea, inoltre, Berti rileva come, se da un lato «tra il trattato A e il trattato B c’è una differenza di dottrina» (dato che «mentre il primo dice che il piacere non è movimento, ma attività, il secondo dice che esso non è l’attività più perfetta, ma ciò che accompagna, o perfeziona, l’attività»), dall’altro, dal momento che «nel primo testo Aristotele discute di quali cose sono piaceri [...] e risponde che queste sono le attività fine a se stesse, mentre nel secondo discute che cos’è in se stesso il piacere, e risponde che esso è [...] l’effetto delle suddette attività», si deve concludere che «tra i due testi non c’è contrasto, ma solo differenza di punti di vista» (p. 94). Al fondamentale tema dell’amicizia e della sua imprescindibile funzione all’interno della vita buona sono, inoltre, dedicati quattro ricchi saggi di Berti che osserva la complessa questione da varie prospettive (logica, psicologica, sociale e antropologica), mettendo a fuoco con estrema chiarezza alcuni degli snodi concettuali di questa nozione straordinariamente vasta (visto che il termine philía esprime «qualsiasi forma di affetto fra gli esseri umani»), a cui lo Stagirita dedica un quinto dell’Etica Nicomachea, cioè lo spazio maggiore che un filosofo abbia mai dedicato ad esso. Tra le molteplici questioni scandagliate dallo studioso all’interno di questo vasto orizzonte, inoltre, particolarmente rilevante – anche per le sue riprese all’interno del dibattito contemporaneo – risulta l’indagine del rapporto fra le tre forme di amicizia, e cioè fra l’amicizia virtuosa, l’amicizia utile e l’amicizia piacevole. A questo proposito si sottolinea come, a fronte dello scenario delineato nella Nicomachea, secondo cui l’amicizia virtuosa si configurerebbe come l’amicizia nel significato assoluto e le altre due forme costituirebbero delle amicizie solo in senso improprio, cioè per accidente, e per somiglianza rispetto all’amicizia del primo tipo, l’Etica Eudemia prospetterebbe uno scenario diverso, stabilendo fra le varie forme di amicizia un rapporto di omonimia relativa, ovvero di relazione ad uno (omonimia pròs hén), quella stessa relazione che Aristotele stabilisce tra i diversi significati dell’essere e dell’uno nel IV libro della Metafisica.
Le varie forme di amicizia, infatti, si legge in alcune delle pagine concettualmente più dense e problematiche dell’Eudemia, non si danno né in un solo senso, cioè in modo univoco, né in modo del tutto equivoco (cioè secondo una omonimia totale), ma secondo una omonimia relativa, che consiste nell’uso di un termine in più sensi, ma tutti relativi a un senso primo (kýrios): l’amicizia fondata sull’utile e l’amicizia fondata sul piacere, infatti, sono dette amicizie “in relazione” all’amicizia fondata sulla virtù, dal momento che esse contengono, nelle loro definizioni, un riferimento a quest’ultima. All’esplorazione del nesso tra Stato e società civile sono dedicate molte interessanti pagine del volume di Berti, volte a ricostruire, tra l’altro, le articolazioni concettuali più significative di nozioni come pólis (da identificare non con lo Stato, cioè con l’insieme delle istituzioni attraverso cui si esercita il potere, ma con la comunità politica) e políteuma (nozione che più si avvicina al moderno concetto di Stato), scandagliandone attentamente il retroterra storico e mostrando la “validità metastorica” dei modelli delineati all’interno della Politica dello Stagirita. «Il tramonto della pólis antica e la sua sostituzione ad opera dello Stato moderno sembrano aver privato di qualsiasi validità la concezione aristotelica della società politica. Invece è necessario rendersi conto che la società politica teorizzata da Aristotele ha una base naturale, cioè esisterà sempre, sia pure in forme diverse dalla pólis antica, finché ci saranno uomini sulla terra, come espressione della loro tendenza naturale ad aggregarsi in organizzazioni politiche aventi un fine comune» (pp. 224-225). Ci troviamo di fronte a un Filosofo, dunque, che oltre ad essere «l’autore, o il codificatore in senso tecnico, di quasi tutte le distinzioni concettuali che stanno alla base del linguaggio filosofico, ed anche non filosofico, della cultura occidentale » (p. 9), è ancora in grado di dirci molto, soprattutto in un àmbito, quale quello etico e politico, in cui un pensatore “vecchio” di 2500 anni viene ancora letto e discusso come un contemporaneo.
Dall’attenta e appassionante ricostruzione della filosofia pratica aristotelica realizzata da Berti emerge, pertanto, un tessuto estremamente ricco, le cui trame si intrecciano fittamente con complesse questioni di natura antropologica, psicologica, storica e sociale. Trame che lo studioso ha il merito di aver ri-tessuto e ri-attraversato nel pieno rispetto dei molteplici – e, talvolta, perfino irriducibili – “punti di vista” costantemente messi in campo e fatti giocare dallo Stagirita. Perché Aristotele è una questione di punti di vista, ma non nel senso che su di esso si possa dire tutto e il suo contrario o che, ancora peggio, il Filosofo non avesse le idee chiare. Aristotele, al contrario, come emerge dai saggi di Berti, le idee ce le aveva chiarissime, ma non essendo disposto a sacrificare la grande ricchezza e l’incontenibile variabilità del reale all’ideale di un metodo perfetto, rigido e inflessibile, cerca di approssimarsi alla realtà sulla scorta di modelli ermeneutici che non hanno mai la pretesa di afferrare univocamente il proprio oggetto annullandone le differenze, ma di renderlo intelligibile senza soffocarlo: la molteplicità non va, in questo senso, ricondotta violentemente all’unità, ma l’unità, che pure deve esserci, deve essere una unità in grado di salvaguardare e di far vivere le differenze, e deve essere osservata, letta e descritta con sguardi molteplici e con metodi differenti, come gli studi di Berti raccolti in questo volume mostrano in modo magistrale.
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (1/2010) 164-169
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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