L' Oriente e noi
(Il Pellicano Rosso. Nuova serie) [Libro in brossura]EAN 9788837221256
Nella crisi di identità culturale e religiosa che caratterizza il nostro tempo e che «provoca tanti traumi», la riflessione che presenta l'autore in questo suo recentissimo saggio ci sembra quanto mai importante per favorire la comprensione reciproca tra le religioni. Abbiamo cercato quindi di riassumere alquanto estesamente il suo pensiero, senza la pretesa di poter esaurire l'abbondante materia e i numerosi riferimenti bibliografici che il libro contiene.
Il punto di partenza, da cui muove il prof. Terrin, è la critica alla superiorità culturale assoluta che l'Occidente ha reclamato nei confronti dell'Oriente. Questa «egemonia epistemologica» ha prodotto il principale ostacolo al dialogo autentico e alla comprensione dell'altro. Anche il cristianesimo, sotto questo profilo, non è stato esente da colpe: «In nome del Dio cristiano si sono demonizzate tutte le altre esperienze religiose e si creato un gap che ancora oggi appare incolmabile» (p. 8). Quale può essere dunque un giusto equilibrio tra Occidente e Oriente? Nel primo capitolo (pp. 11-59), l'autore mette a fuoco gli obiettivi della sua ricerca: egli si propone di esaminare soprattutto i rapporti che gli orientalisti occidentali hanno avuto con l'induismo e il buddhismo, lasciando fuori dall'indagine il Medioriente e le problematiche legate all'islamismo.
Un primo modello di tali rapporti è stata la contrapposizione «noi/loro», in cui l'Occidente pretendeva la propria superiorità culturale e religiosa, aggravando la situazione con un'aggressiva politica di colonialismo e sfruttamento economico. «Si comprendeva per dominare meglio»: questo fu in pratica lo slogan del secondo modello di relazione. Solo con la crisi della razionalità occidentale e la sensibilità derivante dal postmoderno, si è giunti al terzo modello che si può così sintetizzare: «comprendere per trasformarsi». L'Occidente prende qui coscienza dei propri limiti ed è costretto a rivedere la sua storia coloniale e le pretese universalistiche della sua cultura etnocentrica. Tutto ciò ha profonde influenze sul metodo e sulle finalità che la storia comparata delle religioni deve assumere nel contesto attuale della globalizzazione.
Nel secondo capitolo (pp. 61-128), l'analisi verte in particolare sul modo in cui sono state viste e interpretate le due grandi religioni dell'India, induismo e buddhismo. In particolare si riscontra che l'Occidente ha usato categorie come quella di «religioni universali» o di «religioni mistiche» per mantenere comunque la sua pretesa di superiorità. Nel terzo capitolo (pp. 129-224), si esamina il ruolo positivo che il postmoderno ha esercitato sia nella critica al colonialismo sia nel rinnovare il metodo della storia delle religioni, soprattutto facendo riferimento all'opera di R. King, Orientalism and Religion (1999), le cui tesi vengono condivise dal nostro autore. Si tratta di rovesciare i ruoli e di mettersi dal punto di vista di colui che è conosciuto, rilevando le differenze e valorizzandole come tali, senza farle rientrare a tutti i costi nei nostri schemi mentali o religiosi o peggio senza utilizzare facili stereotipi come, ad es., dire che l'Oriente è mistico, intuitivo, irrazionale, mentre l'Occidente sarebbe analitico, induttivo, razionale.
Si deve ammettere che la religione ha sempre anche un carattere socio-politico ineludibile, per cui c'è un intreccio inestricabile tra esperienza religiosa, da una parte, e potere, dall'altra. Bisogna diffidare da troppo facili costruzioni teorico-teologiche non suffragate da una ricerca scevra da pre-comprensioni fuorvianti. Occorre un CredOg n. 159 151 metodo descrittivo e fenomenologico, il cui agnosticismo metodologico non esclude però la possibilità che il trascendente esista. Questo nuovo metodo è dunque una posizione intermedia tra lo studio storico-scientifico e quello teologico del fenomeno religioso: il primo, di stampo illuministico, tenderebbe a negare qualsiasi riferimento trascendente, mentre il secondo si arrocca facilmente su posizioni dogmatiche precostituite. Al contrario, va sviluppata una relazione dialogica tra i vari fenomeni religiosi oggetto di osservazione. In discussione oggi è proprio il concetto stesso di religione, in cui il monoteismo classico del cristianesimo non è più assunto come paradigma normale per comprendere che cosa sia la religione.
C'è chi propone di sostituire il termine e parlare soltanto di «fede» o di «fede personale», rinunciando a una definizione universale di religione. Ciò potrebbe portare addirittura a un certo fondamentalismo, perché alcuni autori sostengono la necessità di una «ri-teologizzazione» degli studi religiosi, sostenendo che solo il credente può capire un altro credente. Di fronte a questi estremismi confessionali, da una parte, e di secolarismo militante, dall'altra, la via «intermedia» di King sembra essere la più convincente e saggia, perché cerca di rispettare le credenze altrui, senza giudicarle. «E importante evitare sia il sociologismo della cosiddetta visione secolare, sia il teologismo della visione opposta» (p. 212).
Va segnalato anche l'apporto proveniente dalle antropologhe femministe, le quali, studiando il rapporto tra mondo maschile (equiparato alla razionalità) e mondo femminile (equiparato al sentimento), vedono un'analogia del modo in cui i valori occidentali hanno assunto una posizione dominante rispetto a quelli orientali. Si tratta sempre del medesimo processo: andare verso l'altro senza preconcetti, rispettando le differenze. Nell'ultimo capitolo (pp. 225-271), l'autore si domanda se sia ancora sostenibile la tesi di Husserl, ripresa da Halfass, che cioè l'europeizzazione dell'umanità sia il destino della terra, o in altri termini se il destino dell'Europa coincida con il destino del mondo (p. 227).
Nutrendo forti dubbi su questa tesi, soprattutto se si concepisce la razionalità europea in senso di sapere tecnologico-scientifico, Terrin sottolinea che in realtà Husserl auspicava l'avvento di una Europa «spirituale» che avrebbe potuto mostrare altri aspetti della razionalità oltre a quelli delle scienze naturali. Si potrebbe tradurre oggi l'istanza di Husserl, dicendo che il mondo ha bisogno di una «razionalità sapienziale», che sappia mediare tra i vari saperi e mantenga l'equilibrio delle scelte. Questa sapienza è la vera alternativa alla razionalità inaridita dell'Occidente.
Il bisogno di riscoprire il mondo interiore e la sensibilità olistica presente in movimenti come la New Age, fanno capire che se l'Oriente ha avuto bisogno dell'Occidente, è ora forse giunto il momento in cui l'Occidente ha bisogno dell'Oriente per riacquistare quel «supplemento di anima» che sembra aver smarrito.
Tratto dalla rivista "Credere Oggi" n.3 del 2007
(www.credereoggi.it)
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