Da qualche anno anche in Italia, sebbene con un po’ di ritardo rispetto ad altre parti del mondo occidentale, le questioni di etica della comunicazione sono diventate oggetto di particolare interesse da parte degli studiosi. È segno di un disagio crescente, avvertito dagli utenti dei mass media, del ruolo che essi possono avere nel quadro globale dei processi di comunicazione e l’espressione dell’esigenza di una regolamentazione dello spazio comunicativo.
C’è, in primo luogo, il bisogno di verificare se sia possibile non semplicemente subire ciò che s’impone nella comunicazione; c’è, poi, il desiderio di salvaguardare lo spazio di libertà per chiunque si esprima nelle diverse forme del comunicare: anche quella libertà che potrebbe manifestarsi, paradossalmente, nel rifiuto di comunicare, nella volontà di restare isolati, nel proposito di tacere. È all’interno di un simile scenario problematico che maturano le questioni di cui si occupa l’etica della comunicazione come disciplina specifica. Se si volesse dare una definizione generale, si potrebbe dire che essa, nell’ambito delle etiche applicate, ha il compito d’individuare, di studiare a fondo e di dimostrare quelle nozioni morali e quei principi di comportamento che sono all’opera nell’agire comunicativo e, insieme, di motivare all’assunzione dei comportamenti da essa stabiliti.
Ciò viene realizzato in quella che è propriamente la parte costruttiva di questa disciplina: vale a dire nella concreta elaborazione di un’etica professionale e, soprattutto, nel tentativo di definire e di giustificare che cosa significa comunicare bene, facendo riferimento ad alcuni criteri: la natura comunicativa dell’uomo; l’aspetto dialogico del linguaggio; l’attenzione per il pubblico e per l’audience; il principio generale dell’utilità; il criterio della “comunità della comunicazione”. Ma c’è anche un altro versante che questa disciplina è chiamata a sviluppare e che risulta interessante proprio come prima risposta a quel disagio appena visto, si tratta dell’idea di un’etica della comunicazione come critica delle concezioni a prima vista ovvie e diffuse dell’esprimere.
Nei manuali di semiotica o di linguistica comunicare significa, in generale, trasmettere un messaggio o un’informazione da un mittente a un destinatario. Nella prospettiva di un’etica della comunicazione, bisogna chiarire invece i presupposti che stanno alla base di essa. Per alcuni, fare una “buona” comunicazione significa trasmettere in maniera efficace, ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, eliminare tutto ciò che provoca rallentamenti, disturbi, eccessi, ambiguità. Si tratta di un’ulteriore manifestazione di quella “dittatura della procedura” nella quale si manifesta soprattutto un criterio o un principio economico. Esso ben si sposa con i compiti, per esempio, dell’informatica e dell’ingegneria delle telecomunicazioni. Questa è la tesi che risulta oggi predominante. Ma la prospettiva al cui interno essa si colloca non è priva di conseguenze sul versante etico. Se “comunicare bene” significa comunicare in maniera efficiente ed efficace, allora è il paradigma dell’utilità quello che viene privilegiato.
Di conseguenza sembrano scontati anche gli altri elementi che sono impliciti nella tesi modello: il carattere univoco della dinamica comunicativa nel rapporto tra mittente e ricevente, la tendenziale riduzione del comunicare a un passaggio d’informazioni, la fissazione e l’isolamento degli strumenti della comunicazione rispetto all’interazione vissuta di coloro che concretamente comunicano. La bontà di un processo comunicativo è dunque ricondotta, alla fin fine, all’adeguato funzionamento di un sistema. Se l’etica della comunicazione diviene critica della ragione comunicativa (e dei modi in cui questa ragione viene per lo più esercitata), ci consente di mettere in questione proprio tali modelli. Permette, anzi, di considerare il fatto che questo modello è uno di quelli elaborati nell’ambito delle etiche generali. Inoltre ci mette in guardia di fronte alla confusione fra comunicare e informare in cui la concezione finisce per cadere. “Informare” significa effettivamente trasmettere contenuti, recapitare messaggi.
E questo, certo, può anche essere uno dei caratteri che sono propri della comunicazione. Ma nell’ambito comunicativo avviene qualcosa di più, che tuttavia viene richiesto dagli stessi processi d’informazione: si verifica un vero e proprio coinvolgimento, si realizza un legame che va al di là del mero scambio di notizie. È necessario allora ridefinire il concetto stesso di “comunicazione” in una prospettiva più ampia. Da questo punto di vista, comunicare significa manifestare uno spazio comune di relazione fra interlocutori. Risulta evidente, qui, l’impegno etico che l’agire comunicativo nel contempo presuppone e mette in opera. Tutto ciò è ben presente sia nell’etica della comunicazione di Karl- Otto Apel sia nell’etica del discorso di Jürgen Habermas.
Viviamo in un’epoca nella quale è quanto mai opportuno che l’etica, e soprattutto l’etica applicata, assuma una tale abilità critica. Lo è soprattutto in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie sta provocando, nei vari ambiti dell’informazione e della comunicazione, una vera e propria crisi, secondo due aspetti. Per un verso, la comunicazione globale, quale viene favorita dai nuovi media, comporta decisive conseguenze per quanto riguarda l’accesso alle informazioni, il loro studio, la loro organizzazione, la definizione della loro specificità in quanto informazioni e per quanto riguarda l’autorevolezza di chi per professione si dovrebbe far carico di questi compiti.
La galassia internet è un chiaro esempio delle odierne trasformazioni della comunicazione e del modo in cui simili trasformazioni incidono sui processi informativi. Per altro verso, e ancor di più decisamente, si ha una crisi nel rapporto tra sviluppo tecnologico e la sua gestione etica, tanto che rischiano di essere messi in questione alcune condizioni fondamentali dell’interazione comunicativa quali, per esempio, il rispetto della verità e delle persone, il rapporto di fiducia fra interlocutori, la dignità stessa di chi opera, come professionista o come semplice consumatore, all’interno della sfera della comunicazione. Tutti questi motivi sono alla base della diffusione della ricerca sull’etica della comunicazione in molti paesi occidentali e nella stessa Italia. Con una differenza, però, dovuta al modo in cui tradizionalmente si sono sviluppati gli studi sulla comunicazione: più attento agli aspetti dell’etica professionale e ai casi di studio concreti l’approccio anglo-americano; maggiormente volto alla ricerca di criteri generali capaci di giustificare una comunicazione buona l’indagine continentale.
Nell’area linguistica italiana si sono moltiplicati negli ultimi anni testi e ricerche di notevole livello sull’argomento. Tre sono le prospettive da cui partono e secondo cui si sviluppano queste ricerche, pur nel comune riconoscimento dell’esigenza di una regolamentazione dei processi comunicativi. Vi sono anzitutto alcuni che intendono interrogarsi responsabilmente sui limiti del loro lavoro e sul contesto generale in cui, oggi, esso può essere svolto nel modo migliore. Un esempio valido e documentato in questa direzione è offerto dai libri di Enrico Morresi: un giornalista svizzero molto attento alle emergenze del panorama italiano.
Vi è poi chi si avvicina a queste tematiche da un’ottica di tipo sociologico, tenendo conto del fatto che l’insegnamento concernente teorie e tecniche della comunicazione rientra appunto in quest’ambito disciplinare. Tuttavia una chiara analisi sociologica non è sufficiente a risolvere la “preoccupazione etica”. Ecco allora la necessità di chiamare in causa chi fa pratica di filosofia. Alla prospettiva filosofica è chiesto non solo di chiarire che cosa significa “comunicare bene”, né solo di giustificare il perché della scelta, essa deve anche motivare alla scelta di una comunicazione buona rispetto a una che non lo è. In questa direzione si muovono alcuni libri pubblicati di recente (si pensi ai lavori di Franco Totaro, Rocco Ronchi, Giuliana Di Biase e di Francesco Bellino).
Si tratta, sempre sulla scia di quanto già elaborato da Apel e da Habermas, di mostrare come il comunicare sia non tanto un ambito di applicazione di criteri etici, ma il luogo in cui questi stessi criteri sorgono e vengono a imporsi: nella misura in cui l’essere umano è pensato anzitutto come un essere caratterizzato proprio dalla sua capacità di esercitare un’attività comunicativa. In questo quadro l’etica della comunicazione non si configurerebbe semplicemente come un’etica seconda. Ma neppure punterebbe, a ben vedere, al primato: a sostituirsi cioè all’etica generale. Il suo sviluppo mostrerebbe piuttosto la reciproca implicazione di generale e particolare.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 1-4/2012
(http://www.pftim.it)
-
-
20,00 €→ 19,00 € -
-
-
-
27,00 €→ 25,65 € -
-
-