Ricerche sulla praescriptio
EAN 9788834885536
1. – In queste sue approfondite ricerche, raccolte in veste monografica, l’a. affronta i problemi essenziali suscitati dall’affermazione delle Istituzioni di Gaio secondo cui, nell’ambito del processo formulare, ai suoi tempi sarebbero esistite soltanto praescriptiones, quali clausole giudiziali antecedenti la formula, pro actore, mentre preesistenti praescriptiones pro reo si sarebbero ormai convertite in altrettante exceptiones. Indaga pertanto come si presentasse la formulazione, e rispettivamente operasse la funzione, della praescriptio pro reo, in rapporto a quelle della exceptio, salvo porsi il problema di quali exceptiones derivassero da antecedenti praescriptiones pro reo; ricerca inoltre quali fossero formulazione e funzioni possibili di praescriptiones pro actore, pervenendo a domandarsi se e quali di esse potessero essersi trasformate in altrettante demonstrationes rientranti nel contesto della formula.
Quanto alla praescriptio pro reo, egli giunge a ritenerla formulata iniziando coi termini ea res agatur (o agetur) quod introducenti ciò da cui entrambe le parti intendono escludere l’oggetto della valutazione da effettuarsi ad opera del giudice, venendo così ad incidere sull’ambito di efficacia estintiva e rispettivamente preclusiva della susseguente litis contestatio tra le parti medesime o della sentenza del giudice che ne fosse conseguita: il quod della clausola sarebbe stato un pronome neutro singolare assumente col tempo valore di congiunzione subordinante o concessiva (nel senso di purché) e la clausola stessa avrebbe avuto funzione essenzialmente determinativa dell’oggetto del contendere, presentandosi come possibile antecedente soltanto di exceptiones pregiudiziali o comunque attinenti a ragioni procedurali e non di merito. Quanto all’exceptio, secondo l’a. essa potrebbe essere stata introdotta con un quod concessivo, derivato da antecedente praescriptio, se preceduta da intentio espressa in termini di si paret etc. al cui oggetto si correlasse, ovvero con un si condizionante se correlato a sua volta all’oggetto di un quod con cui fosse iniziata una precedente demonstratio: avrebbe comunque prodotto effetti sulla litis contestatio e sulla sententia iudicis identici a quelli della praescriptio da cui fosse derivata, operando tuttavia in maniera diversa e cioè condizionando la assoluzione o condanna da parte del giudice alla verifica del fondamento dell’eccezione medesima.
Quanto poi alla praescriptio pro actore, sempre secondo l’a., essa avrebbe potuto avere valore non soltanto limitativo del petitum ma anche, iniziando con un quod causale, determinativo, in relazione alla causa petendi, dell’oggetto del contendere, con conseguente incidenza sugli effetti della litis contestatio e della sentenza: sarebbe stata così operativa ad analogia di una demonstratio insita all’interno della formula dopo la nomina del giudice, salvo aver potuto conservare ancora la denominazione di praescriptio se inserita al posto della demonstratio sulla base di tale identità di funzione e malgrado il posto ricoperto ormai all’interno anziché all’esterno della formula; la trasformazione di una praescriptio precedente in demonstratio si sarebbe determinata in particolare correlativamente alla formazione di negozi tipici riconosciuti nell’editto pretorio, mentre per negozi atipici di cui si ammettesse la rilevanza si sarebbe conservata alla descrizione dei medesimi la natura di praescriptio antecedente la formula. La complessità di tali risultati, ai quali sia pure spesso in via di ipotesi perviene l’a., giustifica la natura di progressivo passaggio da una tappa all’altra che le sue ricerche presentano e di cui conviene ripercorrere il susseguirsi di argomentazione ad argomentazione.
2. – In un primo capitolo introduttivo (pp. 9-23) l’a., dopo aver brevemente richiamato, in base alle fonti, gli estremi per la individuazione delle praescriptiones, rispettivamente pro reo e pro actore, attinenti al processo formulare, da non confondersi con la praescriptio delle cognitiones extra ordinem, prospetta i principali problemi che le fonti stesse sul tema presentano nonché i principali dubbi in proposito sollevati nella dottrina, partendo da quello relativo alla ricostruzione da effettuarsi, nel testo del Gaio veronese, della formulazione, ormai illeggibile nel palinsesto per lo spazio di pochi caratteri ma che ne coinvolge struttura e portata, della praescriptio pro reo. In particolare, sulla scia dell’autorità del Wlassak, la dottrina si sarebbe generalmente orientata nel senso di ricostruire la lacuna del manoscritto di Gai 4.133 inserendovi l’espressione (ea res agatur) si in ea re (praeiudicium hereditati non fiat), che porterebbe a considerare la praescriptio pro reo, alla pari dell’exceptio in cui si sarebbe col tempo trasformata, come condizione negativa dell’agere delle parti, da intendersi nel senso di fare la litis contestatio, mentre si potrebbe invece dubitare che queste fossero state struttura e rispettivamente funzione della praescriptio pro reo. Si dovrebbe d’altro lato rivalutare l’opinione di Betti dipoi sviluppata da Selb, secondo cui la demonstratio di talune formule introdotte da un quod causale sarebbe derivata dalla trasformazione di una precedente praescriptio pro actore espressa in termini di ea res agatur quod. Ne conseguirebbe nell’insieme l’opportunità, per un verso, di riconsiderare struttura e funzione della praescriptio pro reo in rapporto a quelle dell’exceptio, e, per altro verso, di riprendere il problema della possibilità di individuare una cornice accomunante praescriptio pro reo e rispettivamente pro actore (costituita da identità di funzione determinativa dell’oggetto del contendere).
3. – Il secondo capitolo (pp. 24-111) tratta della praescriptio, e correlativamente dell’exceptio, pro reo. Inizia col richiamare la menzione, nel testo gaiano di D. 10.2.1.1, di una exceptio, diretta a evitare un praeiudicium alla causa ereditaria, espressa in termini di ea res agatur si in ea re, qua de agitur, praeiudicium hereditati ne fiat ed opponibile a coerede non possessore che agisse con actio familiae erciscundae: exceptio la quale si vorrebbe fosse derivata da precedente praescriptio in termini di ea res agatur si in ea re praeiudicium hereditati non fiat, donde la ricostruzione negli stessi termini della lacuna del palinsesto veronese; conseguenza ne sarebbe la natura della praescriptio. come dell’exceptio, pro reo quale condizione negativa, in un caso, della adiudicatio e, nell’altro, della condemnatio. Ma l’a. rileva che la medesima exceptio di non arrecar pregiudizio alla causa ereditaria risulta espressa in termini di quod praeiudicium hereditati non fiat in D. 44.1.13 e D. 5.3.25.17 (la stessa formulazione appare attestata altresì in D. 44.1.16 e 18 per altra exceptio pregiudiziale) che ne potrebbero rappresentare la formulazione più antica, derivata da analoga praescriptio introdotta col quod e conservatasi in giudizi inizianti con intentio nel si paret, riferita alla res qua deagitur, mentre per giudizi già inizianti con demonstratio nel quod l’originaria praescriptio espressa col quod si sarebbe trasformata in exceptio introdotta dall’espressione si in ea re qua de agitur (praeiudicium non fiat).
Ne risulterebbe posta in discussione la tesi del Wlassak secondo cui la praescriptio, come l’exceptio, avrebbe avuto lo scopo di condizionare negativamente gli effetti della litis contestatio: né a sostegno di quella opinione si potrebbero d’altra parte invocare ulteriori testi (Cic. de inv. 2.20.59-60 e ad Att. 6.1.15 nonché D. 43.12.1.16) in cui sono richiamate clausole introdotte dalle espressioni extra quam, extra quam si e aut nisi, esprimenti condizione negativa, in quanto espressamente riferita a ipotesi di exceptio infondatamente interpretati quali casi di praescriptio. Una attenta analisi del manoscritto del Gaio veronese che contiene il testo dell’unica praescriptio pro reo riferito nelle fonti, diretta a evitare pregiudizio a causa ereditaria, porta poi l’a. a ricostruirne l’inizio, non più leggibile nel palinsesto, come già intuito dai primi editori, con un quod in luogo del più generalmente ipotizzato si in ea re (praeiudicium hereditati non fiat): ne trova appoggio nel fatto che lo spazio illeggibile nel palinsesto risulta limitato solo a quattro caratteri, nel posto del quarto dei quali non si era mancato di intravedere in un primo tempo, antecedentemente a ulteriori guasti arrecati al manoscritto, una lettera d. Verrebbe con ciò paleograficamente confermata l’ipotesi di una antica praescriptio pro reo introdotta col quod come lo sono le altre due praescriptiones pro actore testualmente riferite in Gai. 4. 137 nonché le demonstrationes riportate nello stesso manoscritto veronese, in antitesi alla tesi del Wlassak per cui nella praescriptio si esporrebbe una condizione negativa dell’agere, inteso come litem contestari.
Contro tale tesi l’a. rileva inoltre che la litis contestatio non sarebbe potuta essere sottoposta a condizione risolutiva, secondo quanto si legge in D. 5.1.35; che l’agere non equivale necessariamente a litem contestari bensì anche solo genericamente a intentare azione giudiziale; che il giudice non avrebbe potuto tener conto della praescriptio antecedente la sua nomina; che infine la ipotizzata risoluzione degli effetti della litis contestatio si sarebbe risolta anche a vantaggio dell’attore il quale avrebbe potuto nuovamente esperire in giudizio la stessa azione. Prima di affrontare il diverso modo, non condizionante, di operare della praescriptio pro reo rispetto a quello della exceptio, questa sì, in quanto inserita nella formula, condizionante la decisione del giudice alla verifica del suo fondamento, l’a. approfondisce l’operare dell’exceptio medesima, rilevando anzitutto che, ove si trattasse di eccezione c. d. pregiudiziale, da ritenersi derivata da antica praescriptio, il preventivo accertamento della fondatezza di detta eccezione a carattere pregiudiziale avrebbe comunque indotto il giudice a pronunciarsi per l’assoluzione del convenuto senza nemmeno entrare nella questione di merito, come è attestato in Gai 4.123 per il caso di formula contenente un’exceptio ex tempore dilatoria. Tale sarebbe stata pure l’eccezione di cui in Gai 4.133 diretta a evitare pregiudizio a causa ereditaria il cui inserimento nella formula richiesto dal convenuto avrebbe indotto l’attore, onde evitare l’assoluzione del convenuto (e relativa preclusione, già operante con la litis contestatio, dall’esperire una seconda volta l’azione pregiudiziale), a non insistere nell’esercizio di azione particolare (ad es. di divisione o di rivendica di singolo bene ereditario) e ad intentare per prima l’azione pregiudiziale (nel caso, la petitio hereditatis). Finalità analoga avrebbe perseguito l’exceptio quod praeiudicium praedio (o fundo partive eius) non fiat, di cui in D. 44.1.16 e 18, di fronte alla quale il giudice avrebbe dovuto assolvere il convenuto (con vindicatio servitutis o condictio fructuum) ad evitare di accertare incidentalmente la questione pregiudiziale relativa alla spettanza di proprietà (che si sarebbe dovuta far valere anteriormente con apposita reivindicatio) implicante la legittimazione all’azione dipendente esperita.
Lo stesso sarebbe valso per l’exceptio extra quam in reum capitis praeiudicium fiat di cui in Cic. de inv. 2.20.59-60, opposta ad actio iniuriarum la cui decisione avrebbe arrecato pregiudizio rispetto a giudizio intentato dinanzi a quaestio capitale (ove peraltro l’azione privata di iniuriae esperita con formula in cui fosse inserita quella exceptio non avrebbe comunque impedito l’instaurazione del giudizio pubblico avanti la quaestio). Quanto alla praescriptio pro reo, anziché esprimere in forma ipotetica una condizione dell’agere, essa sarebbe stata enunciata nella forma ea res agatur, quod etc., così delimitando la materia del contendere con funzione pertanto determinativa (da riconoscersi pure alla praescriptio pro actore, anch’essa posta al di fuori della formula dinanzi alla nomina del giudice) e venendo a rilevare agli effettti estintivi e preclusivi della litis contestatio. Preliminarmente l’a. sostiene il valore non ipotetico con cui va inteso il quod comparente nella praescriptio pro reo, come in quella pro actore e nella demonstratio: il quod, dal suo originario presentarsi come pronome relativo neutro singolare risulterebbe aver assunto significato concessivo (di purché) e non condizionale, in quanto reggente il congiuntivo, in vari testi (in particolare sententia Minuciorum ll. 23-28, lex Cornelia de XX quaestoribus col. I ll. 1-7, edictum Augusti de aquaeductu Venafrano ll. 21-25) e presenterebbe valore causale, in quanto reggente l’indicativo, nella formula della belli indictio di cui in Liv. 1.32.13, nonché nei formulari della manus iniectio avverso il iudicatus, della solutio per aes et libram, della cretio, della cognitoris datio e dell’actio tutelae secondo il testo in greco nel P. Vadin n. 28-29; ne ricava che il quod della praescriptio pro reo con valore concessivo (comunque riferito al futuro) e quello della praescriptio pro actore e della demonstratio con valore causale (riferito al passato) avrebbero in ogni caso risposto entrambi a funzione determinativa dell’oggetto del contendere.
Egli afferma poi, con una certa ambiguità, che in specie la praescriptio pro reo (quale relativa a questione procedurale) volta a non arrecare pregiudizio alla causa ereditaria impedirebbe la possibilità che l’attore adduca apud iudicem il titolo di erede a sostegno delle proprie ragioni mentre il giudice non sarebbe chiamato a esprimere alcuna decisione sulla spettanza dell’eredità in quanto questione esclusa dall’oggetto dell’agere in base alla praescriptio espressa nei termini ea res agatur o agetur, lasciando peraltro implicitamente intendere che si sarebbe comunque evitato l’effetto preclusivo della cosa giudicata (già anticipato dalla precedente litis contestatio) rispetto all’esperimento successivo di hereditatis petitio (in specie da parte del precedente convenuto). Successivamente l’a. si sofferma sulla possibilità di stabilire quando le praescriptiones pro reo avrebbero finito per trasformarsi in exceptiones, sostenendo non potersi ricavare da Cic. de inv.2.20.59-60 nonché da D. 40.12.42, D. 46.3.91 e D. 44.1.23 (testi tutti e tre riferenti opinioni labeoniane) la permanenza in uso di tali praescriptiones ancora all’epoca di Cicerone e Labeone. Ritiene infine comuni a praescriptio pro reo e praescriptio pro actore le caratteristiche di essere collocate al di fuori della formula e di iniziare con l’espressione ea res agatur, con conseguente loro rispondenza alla funzione di determinare l’oggetto dell’agere e relativa rilevanza sugli effetti estintivi e preclusivi della litis contestatio, precisandoli o escludendoli: in particolare la funzione determinativa della praescriptio pro reo troverebbe conferma in Cic. de fin. 2.1.3, ove sarebbe fatto generico riferimento a che in alcune formule in termini di ea res agetur si stabilirebbe preventivamente di comune accordo tra le parti l’oggetto del contendere, per cui l’a ipotizza trattarsi di formule giudiziarie con praescriptio pro reo o pro actore determinanti in anticipo e di comune accordo tra le parti ciò che si deve discutere; egli non considera peraltro che, parlando di un praescribere in formulis, Cicerone sembrerebbe a rigore aver attribuito semmai impropriamente al contenuto della formula la clausola ea res agetur e altrettanto impropriamente avrebbe potuto considerarla attribuita al consenso delle parti, mentre in effetti essa sembrerebbe dovuta essere preposta dal pretore alla formula (ma comunque come facente parte del contesto del programma giudiziale da sottoporre al giudice) su richiesta unilaterale rispettivamente del convenuto o dell’attore a seconda che fosse indirizzata all’interesse dell’uno o dell’altro.
3. – Il terzo capitolo (pp. 113-153) è dedicato alla praescriptio pro actore, vista in rapporto alla demonstratio. Avendo individuato nella praescriptio pro reo una funzione determinativa della res qua de agitur, diretta a incidere sugli effetti della litis contestatio in relazione alla causa petendi, l’a ritiene che analoga funzione si possa scorgere anche in talune applicazioni della praescriptio pro actore; e così pure che questa possa col tempo essersi integrata, in luogo di demonstratio, all’interno della formula. Già in Gai 4.40 si intenderebbe dire che la demonstratio è la pars formulae in cui solo praecipue si designa la res de qua agitur, che potrebbe essere indicata anche in altri elementi del complessivo programma di giudizio, specie ai fini della determinazione degli effetti della litis contestatio in relazione sia al petitum sia alla causa petendi. Che la precisazione di tali effetti potesse riguardare non solo l’uno ma anche l’altra, in funzione pertanto non solo limitativa ma pure determinativa dell’oggetto del contendere cui complessivamente si riferirebbe l’espressione ea res agatur quod, sarebbe ricavabile da Gai 4.137, laddove l’analogia tra praescriptio pro actore e demonstratio troverebbe conferma nella praescriptio inserita da Gai 4.136 all’interno della formula, loco demonstrationis, aperta da un quod e parimenti individuativa della causa petendi come limitativa del petitum: tale clausola, malgrado la sua collocazione all’interno di una formula, avrebbe conservato la denominazione di praescriptio in quanto anche limitativa del petitum, apparendo essere stata in origine esterna alla formula stessa.
In particolare l’agere praescriptis verbis, cui si ricorre in età classica a tutela di convenzioni atipiche, si richiamerebbe secondo l’a. a programmi di giudizio con praescriptio (pro actore) intesa in senso tecnico, precedente la nomina del giudice e nella quale si sarebbe descritto il fatto costitutivo dell’obbligo dedotto in giudizio: ciò sarebbe attestato in CI. 2.4.6 dell’a. 230 e nello scolio mauw˜ n a Bas. 11.1.7, il che mi pare non affatto sicuro, potendosi interpretare entrambi i testi come indicativi, ad analogia con Gai 4.136, di praescripta verba utilizzati in luogo (e funzione) di demonstratio, ove il parlare di agere o actio praescriptis verbis senza far riferimento a demonstratio in senso proprio potrebbe trovare giustificazione nella impossibilità di richiamarsi ad un nomen edittale tipico di convenzione, con conseguente necessità di provvedere a dettagliata descrizione dei fatti costitutivi di obbligo. Praescriptio anteriore alla formula e contenente l’indicazione della causa pretendi per cui si agisce sarebbe altresì riscontrabile, secondo l’a., in ordine alla prima delle due formule di cui al trittico pompeiano dell’archivio dei Sulpici n. 31: in tale praescriptio col dire che agetur (si agirà) de sponsione si intenderebbe avvertire il giudice dei due giudizi trattarsi di sponsio tertiae partis come tale inerente a giudizio principale di certa credita pecunia, vale a dire dovuta in base a operazione di credito e quindi con ciò indirettamente ‘causalizzata’; non mi parrebbe peraltro così escluso che il ricorso al verbo agetur al futuro potesse anche indicare (ma vi potrebbe ostare il diverso valore di agetur comparente in Cic. de fin. 2.1.3) la precedenza dell’agere con actio certae creditae pecuniae rispetto all’agere de sponsione tertiae partis.
4. – Nel quarto capitolo (pp. 154-179) l’a. si pone il problema della origine delle formulae con demonstratio. Ribadito che il quod reggente l’indicativo, e quindi anche quello comparente nella formulazione caratteristica della demonstratio, ha valore causale e non già ipotetico, egli, presupposto che la praescriptio pro actore svolgesse una funzione determinativa della res de qua agitur simile a quello della demonstratio la quale a sua volta costituirebbe il prodotto di integrazione all’interno della formula di quella clausola anteriore alla stessa e iniziata con la parola quod, ipotizza che le prime parole ea res agatur della praescriptio pro actore (come della praescriptio pro reo) si siano potute trasformare in quelle qua de agitur che si trovano tra demonstratio e intentio, mentre il periodo che inizia col quod sarebbe rimasto invariato integrandosi all’interno della formula dopo la iudicis nominatio. La funzione di dette parole nell’ambito del processo formulare privato a indicare ciò di cui si tratta troverebbe conferma nell’espressione qua de re agitur usata in Cic. top. 25.45 nell’ambito del processo pubblico delle quaestiones e riscontro in Cic. de fin. 2.1.3 e D. 5.1.1 pr.
Precisato poi che in base a Cic. de orat. 1.37.168 non si può stabilire il periodo in cui la praescriptio pro actore attestata in Gai 4.136 sia stata integrata nella formula dell’actio incerti ex stipulatu, l’a. ritiene che l’assorbimento della praescriptio pro actore all’interno della formula si possa spiegare con il fenomeno, avvenuto nel corso dell’ultima età repubblicana (in parallelo di analogo assorbimento della praescriptio pro reo in exceptio interna), dell’emersione delle causae e della loro tipizzazione a livello edittale, in relazione a programmi di giudizio, ancora chiamati da Cicerone arbitria in pro Roscio 4.10-11 e costituenti in età classica iudicia bonae fidei, muniti di demonstratio ove è indicato l’atto da cui nasce l’obbligo dedotto in intentio (incerta) che in essa è richiamato dalle parole ob eam rem: in D. 2.14.7 pr.-2 il nome edittale di alcune di tali azioni risulterebbe modellato, a seguito di un processo di tipizzazione, sull’atto costitutivo della obbligazione enunciata nella demonstratio, mentre altre convenzioni apparirebbero tutelate da azioni civili ma senza riscontro in un mezzo specifico, facente riferimento a un nomen, edittale, ove la causa petendi sarebbe enunciata praescriptis verbis in una clausola (praescriptio pro actore) ancora premessa a formula incerta. Pare tuttavia a me che l’agere praescriptis verbis per convenzioni innominate, escogitato per la prima volta da Labeone come estensione della tutela accordata a contratti bilaterali tipici di buona fede tramite la utilizzazione di praescriptio in luogo oltreché in funzione di demonstratio, mentre Aristone sarebbe pervenuto a riconoscere tutela al do ut des o facias tramite azione civile di stretto diritto che peraltro potrebbe egualmente essere stata supportata da praescripta verba, si sarebbe potuto trasformare nel corso dell’età classica nella utilizzazione di praescriptio, in luogo (e in funzione) di demonstratio sulla scorta di Gai 4.136, interna alla formula a imitazione della struttura assunta dalle azioni contrattuali tipiche edittali.
5. – Il libro si chiude con accurati indici rispettivamente bibliografico (pp. 181-195), degli autori citati (pp. 197-202) e delle fonti citate (pp. 203-210). L’insieme delle ricerche dell’a. si presenta ben coordinato e di notevole originalità nei risultati raggiunti, anche se talora necessariamente con carattere indiziario, comunque sempre proposti con documentazione accurata e solida argomentazione. Come già ho avuto occasione di accennare nel corso della esposizione del loro contenuto, qualche perplessità mi è rimasta, in particolare per quanto attiene alla natura della praescriptio quale risultato di un accordo tra le parti anziché come clausola recepita dal pretore su richiesta unilateralmente avanzata a seconda dei casi dal convenuto o dall’attore, nel contesto pur sempre del programma scritto di giudizio da sottoporsi al giudice, ancorché antecedente la formula oggetto in senso proprio di litis contestatio; o al perdurare della estraneità di praescriptio antecedente la formula nell’agere praescriptis verbis in età classica, di contro alla tipizzazione di fattispecie contrattuali tramite riconoscimento in editto del loro rispettivo nomen sufficiente a indicarne gli estremi. Resta peraltro convincente il riscontro da parte dell’a. di una cornice unitaria in cui inquadrare praescriptiones pro reo e pro actore, in base ad una caratteristica, oltreché formale per essere nate al di fuori della formula, funzionale di rispondenza a esigenze determinative, in senso limitativo e/o descrittivo, dell’oggetto del contendere tra le parti, con conseguenti effetti sulla litis contestatio: così pure di massima la ricostruzione dei formulari complessivi di giudizio nel passaggio da praescriptiones pro reo a exceptiones, e rispettivamente da praescriptiones pro actore a demonstrationes, interne alla formula. E in ogni caso appare altamente apprezzabile lo studio dall’a., condotto con competenza e acume su di una difficile e affascinante materia.
Tratto dalla rivista "Studia et Documenta" n. 1/2010
(http://e-lup.com)
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