Magia, stregoneria e divinazione in diritto ebraico e romano
EAN 9788834876732
Il volume, incentrato su una analisi che inerisce alle arti magiche e divinatorie in diritto ebraico e romano, segue a tre Studi sulla ‘Collatio’ precedentemente pubblicati (I. L’uccisione dello schiavo in diritto ebraico e romano; II. La violenza sessuale in diritto ebraico e romano; III. La successione intestata in diritto ebraico e romano) e ad essi si raccorda con un richiamo ad alcuni passi della Lex Dei della quale prospetta altresì un’ipotesi sulla possibile datazione. L’a. suddivide la materia oggetto di studio dando rilievo dapprima al diritto ebraico in quattro capitoli, per poi passare a trattare il diritto romano dal capitolo quinto alla fine.
Nel Cap. I (Mirabilia Dei, p. 1-13) lo studio del tema oggetto di indagine viene approcciato considerando dapprima la compresenza presso i popoli antichi tanto della magia quanto della religione, ancorché, sovente, fra le stesse il confine sia labile e risulti difficile tracciare una linea netta di demarcazione. Di tal guisa l’a. dà subito il via ad uno studio parallelo di arti magiche e storia che prosegue fino all’ultima pagina del lavoro; d’altra parte, nel corso dei secoli l’aspirazione verso la previsione del futuro risulta essere sempre stata un elemento atto a mobilitare numerosi indovini, medium, presaghi «gelosi custodi dei segreti dell’arte divinatoria ». Prima di ogni altra cosa, si richiamano le vicende storiche di Israele, per l’appunto variamente costellate nelle Scritture dalla realizzazione di prodigi divini; tuttavia in questo caso il monoteismo religioso avrebbe inibito una serie di sistemi per divinare il futuro e, conseguentemente, molte pratiche risultano proibite. Vengono ricordate, inoltre, le false accuse di magia e stregoneria che diventeranno nel Mediterraneo e nel ’700 uno dei leit motiv di una propaganda antisemita.
Il Cap. II (Mechashefah lo tekhayeh, p. 15-23) è dedicato alla sanzione prevista contro le streghe da Maimonide – anche detto con un acronimo Rambàm – saggio e scienziato vissuto nel Medio Evo; la sanzione, formulata nella Torah, è espressa nel libro dell’Esodo e prevede, secondo la tradizione fornita dall’a. che non si lasci vivere la strega. Varie le considerazioni sulla sanzione: a partire dal fatto che non si condanna la pratica di stregoneria ma la strega, mentre, di regola, ad essere proibito è il fare, ossia l’atto illecito, e non l’essere; si osserva, peraltro, che mentre la pena in genere è ben distinta dalla proibizione, nel caso specifico risulta incorporata in essa; infine, il comandamento dell’Esodo di «dare morte alla strega» non pare rivolto ai soli giudici ma a tutto il popolo.
All’interno del Cap. III (Ovòt e ideonìm, p. 25-28) l’a. si occupa dei precetti previsti nel libro del Levitico contro le pratiche stregonesche e divinatorie. Anzitutto, nel precetto Lev. 19-26 si esprime la proibizione di fare gli indovini e di esercitare la stregoneria; poi, nel precetto contenuto in Lev. 19.31 si rafforza il divieto aggiungendo l’interdizione di rivolgersi agli ‘ovòt’ e agli ‘ideonìm’ per evitare ogni possibile ‘contaminazione’. Come si evince da Lev. 20.27, inoltre, la pena in caso di trasgressione risulta essere la morte. È poi richiamato il collegamento tra ‘ovòt’ e ‘ideonìm’ ed il culto dei morti esercitato nelle civiltà del vicino Oriente; e per tali pratiche, i precetti del Levitico appaiono volti a vietare ogni forma di interlocuzione con chi abbia cessato di vivere.
Con il Cap. IV (Toavòt, p. 29-37) si continuano a considerare i passi biblici in tema di pratiche magiche e divinatorie. Viene in esame, prima di tutto, il passo tratto dal Deut. 18.9-14, la cui importanza storico-religiosa è stata di recente messa in rilievo da J. Ratzinger che ne ha fornito un commento nella sua biografia su Gesù di Nazareth. Nel brano compaiono menzionate sette pratiche di stregoneria proibite e tutte bollate come ‘toavòt’, ovvero abominazioni, nefandezze. Il primo divieto è il sacrificio dei fanciulli; fanno seguito i divieti di compiere sortilegi, di fare l’indovino, di presagire il futuro, di fare l’incantatore, l’interrogatore o il necromante. Il passo è rimasto per secoli un testo di riferimento essenziale per la repressione delle pratiche stregonesche, magiche e divinatorie tanto in ambito ebraico che cristiano.
A partire dal Cap. V (Malae artes, p. 39-54) lo sfondo su cui si compie lo studio sul trattamento delle arti divinatorie si staglia nella cornice del diritto romano. Il tema è affrontato facendo un’opportuna distinzione preliminare fra la Roma precristiana e la Roma cristiana: d’altra parte, fino alla svolta data da Costantino, e ancor più dall’editto di Tessalonica, in assenza di un’unica forma di culto ufficiale e consolidato non sarebbero sussistite le condizioni per «un rifiuto di tipo ideologico delle arti magiche», con la conseguenza che nei fatti esse risultarono generalmente tutte tollerate nei limiti in cui non fossero nocive. L’a. prende le mosse dalla storia originaria di Roma, che, come quella di Israele, appare largamente intessuta da legami fitti con la magia e le arti divinatorie; ciò nondimeno, nel tempo, sarebbero stati introdotti via via una serie di divieti: così – giusto a voler considerare qualche esempio riportato dall’a. – nelle XII tavole fu vietato il malum carmen e la incantatio frugum; nel 331 a. C., dopo una speciale quaestio de venefìciis per identificare le cause della propagazione a Roma di una grave forma di epidemia, furono condannate alcune matrone responsabili di aver diffuso filtri velenosi; nell’81 a. C. da Silla fu istituita un’apposita quaestio de sicariis et venèficis che, poi, con successiva interpretazione estensiva avrebbe allargato la sua sfera di competenza anche al compimento di pratiche magiche atte a nuocere o dare la morte.
Tuttavia, a fronte dei limiti all’uso delle arti magiche e divinatorie, grazie all’autodifesa di Apuleio nel processo iniziato contro di lui in provincia d’Africa al cospetto del governatore Claudio Massimo, proprio per bocca dell’autore della Metamorfosi si coglie anche una considerazione alta e benevola della magia nel II secolo dell’età imperiale, e precisamente nel 160 d. C.: assegnando ad essa il ruolo di ars nobile e gradita agli dei immortali, che rientra nell’educazione regale, al punto da non doversi configurare un crimen magiae in quanto tale ma da far operare esclusivamente un divieto dell’uso malvagio dell’arte magica. Tra gli altri divieti alle malae artes d’età precostantiniana l’a. si riporta infine al governo Diocleziano che vietò di consultare i mathematici, che iniziò una repressione contro i Manichei allarmato per la diffusione del manicheismo sino in Africa perché poteva mettere in pericolo la vetus religio, e che similmente tentò di reprimere il cristianesimo e i cristiani.
Il Cap. VI (Sileat divivinandi curiositas, p. 55-65) è incentrato sulla nuova politica religiosa che prende avvio con Costantino, dall’opzione a favore della fede in Cristo al divieto delle forme di culto pagano. Coi nuovi tempi si inverte il rapporto tra superstitio e religio, perché oramai superstitio sarà il paganesimo e religio il cristianesimo, anche se in realtà riti e credenze pagane continueranno a sopravvivere nei vari strati sociali; del resto, gli stessi editti di Costantino contro l’aruspicina mostrano una contraddittorietà nelle stesse scelte dell’imperatore ‘cristiano’: difatti, il divieto posto da Costantino di interpellare gli haruspices gode d’una significativa eccezione allorché la folgore abbia colpito il palazzo imperiale o altri edifici pubblici (CTh. 9.16.2). In ultimo l’a. osserva che una posizione oscillante nei confronti delle pratiche pagane continua anche con gli altri imperatori cristiani: così, Valentiniano, Valente e Graziano asseriranno che nell’aruspicina non vi sia alcunché di riprovevole salvo che sia esercitata nocenter (CTh. 9.16.9), Costanzo interviene più volte contro maghi e indovini sul presupposto che ad essere stroncata sia più di tutto l’insana curiosità di conoscere il futuro – sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas – (CTh. 9.16.4) come si riprende nel titolo. Ad ogni modo, a partire dall’epoca costantiniana sono oramai molteplici le sgranature realizzate dall’impero e dai suoi imperatori al tessuto delle tradizioni pagane e l’a. ne fa ampia rassegna.
Nel Cap. VII (Mathematici Malefici e Manichei, p. 67-75) viene preso in esame il titolo quindicesimo della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, intitolato De mathematicis, meleficis et Manichaeis; nella fonte, il brano tratto dai precetti mosaici cita in passo del Deuteronomio (Deut. 18.9-4), e poi, a seguire, la parte di diritto romano richiama un estratto del De officio proconsulis di Ulpiano escerpito dal titolo De mathematicis et vaticinatoribus. Orbene, la lettura del quindicesimo titolo della Collatio consente anzitutto di rilevare che la normativa in materia di magia e divinazione appare sostanzialmente conforme in diritto ebraico e romano; e inoltre, che la risalenza dell’opera potrebbe trarre spunto proprio da questi testi: infatti, per la parte dedicata al diritto romano sorprende la completa mancanza di tutte le leggi emanate da Costantino e dagli altri imperatori cristiani, il che, prima facie, parrebbe confermare la communis opinio intenta a negare la redazione della lex Dei in età cristiana. Tuttavia, dalle considerazioni che seguono nel capitolo successivo ed ultimo del volume tale conclusione risulta poi errata. Nel Cap. VIII (Qui lustret filium tuum, p. 77-92) l’a. aderisce ad un’ipotesi di datazione tarda della Collatio, traendo una possibile conferma di ciò proprio dallo studio approfondito di questo filone d’indagine, dato che il redattore della Lex Dei, discostandosi dall’originale ebraico si sarebbe servito della traduzione della Bibbia di Girolamo completata nel 405 d. C., dunque in epoca postcostantiniana.
Tratto dalla rivista "Studia et Documenta" n. 1/2010
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