Finalmente come Dio? Considerazioni inattuali sullo statuto morale della soggettività
(Paralleli)EAN 9788834322048
Come precisa l’A. nella sua breve Introduzione, il volume nasce «dal margine» di un corso universitario di teologia morale e pratica (tenuto presso l’Università Cattolica di Milano). Non si tratta dunque di un manuale, di un percorso classicamente modulato sulle esigenze della didattica, ma di un itinerario di ricerca intrapreso a partire dall’esperienza dell’insegnamento e stimolato da alcune indicazioni colte in aula, quali anzitutto una mancanza di interesse per la morale da parte di molti studenti, spesso attratti solo dal tema della sua crisi, se non proprio della sua scomparsa.
Concepito «al margine», il volume sembra quasi svilupparsi difendendo la propria marginalità, o inattualità, come suggerisce il sottotitolo, rinunciando in partenza a battersi direttamente per un recupero di attenzione nei confronti della morale, e arretrando invece l’ambito della contesa sul confine delle questioni piú propriamente antropologiche. Non si tratta però di una battaglia di retroguardia, quanto piuttosto di uno scavo scrupoloso per mettere a fuoco la vera natura del problema che affligge la morale. Esso riguarda precisamente, secondo l’analisi dell’A., lo statuto della soggettività contemporanea, che fonda la norma ultima dell’agire nei vissuti emozionali e pulsionali e afferma su questa base il diritto ad autodeterminarsi senza risponderne a nessuno, semplicemente accumulando esperienze cui ci si sente in diritto di accedere senza preoccuparsi di tesserne una trama, un percorso sensato, insomma una identità. Assunta come se godesse di normatività indiscutibile, e di fatto indiscussa, questa soggettività non appare solo incompatibile con l’annuncio cristiano, ma rappresenta, ben prima, un vistoso fraintendimento dell’umano: della trascendenza dei suoi atti e della sua libertà, della sua radicale apertura all’altro e dipendenza da altri, della qualità estetica che accompagna le dinamiche della volizione.
Già preoccuparsi di far notare questi aspetti, tuttavia, conduce verso quel «margine» richiamato in apertura, conduce cioè alla fatica di una riflessione periferica rispetto a tutte le traiettorie piú accreditate dell’attuale quadro sociale. A giudizio di Lia del resto non v’è alternativa: occorre «restare nel margine», e di lí coltivare la dignità di un pensiero non connivente con l’imbarbarimento diffuso e la lucidità di una analisi offerta a chiunque cominci a percepire l’insoddisfazione per la qualità del vivere cui approda una comprensione autoreferenziale e solipsista della soggettività. Ed è per questo che egli convoca, a sostegno della propria analisi, una serie di pensatori vigorosamente critici della vita moderna e non immuni da un certo slancio profetico (si pensi solo a Kierkegaard, Heidegger, Peguy), quasi a sottolineare l’urgenza della questione. Criticare gli esiti della modernità non significa però rifugiarsi nelle confortevoli certezze di un passato che non è piú. In questo senso, la soluzione suggerita per una riqualificazione della coscienza morale non è quella di una ontologia della necessità che faccia salvi i principi ancorandoli all’evidenza del vero e del razionale, ma di una ontologia della libertà, nell’ottica della quale ciò che è vero e giusto non vanta alcun carattere di apoditticità ma si presta a essere riconosciuto solo in quanto desiderato e responsabilmente voluto.
La libertà che si intende in questo modo onorare non è quella tanto enfatizzata nello scenario attuale, che si configura come supremo arbitrio tra opzioni multiple e irrilevanti, perché non qualificanti il soggetto, ma invece una libertà drammatica (il dramma di non poter non essere libero, di non potersi sottrarre all’avventura e al rischio della determinazione di sé), condizione strutturale di ogni soggettività cosciente e spazio aperto per l’inedito. È proprio questo carattere di novità insito nell’essere libero che apparenta l’essere umano a Colui che lo ha voluto e creato (donde il sorprendente titolo del volume) senza predeterminare chi debba essere e a cosa debba tendere – fosse pure la felicità –, senza fissarne «natura» e «identità». La tesi centrale è annunciata in partenza e ribadita via via secondo varie angolature. Essa considera la comprensione contemporanea della soggettività non soltanto problematica ma deviante e malata, e valuta di primaria importanza recuperare una visione piú equilibrata della soggettività medesima, vale a dire, anzitutto, il suo originario profilo relazionale.
Laddove questo profilo è pienamente legittimato, come accade ad esempio nel pensiero potente ma «marginale» di un M. Buber, un E. Lévinas, un P. Florenskij e una A. Adendt (a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo), diventa possibile una riconsiderazione adeguata ed efficace sia di questioni classiche per l’etica – quali quelle del diritto, della legge (naturale), del giudizio – sia di questioni oggi divenute impellenti – che riguardano anzitutto l’invadenza dispotica dell’economia e della tecnica. Il volume riesce a essere al tempo stesso denso e agile. Propone una successione di capitoli generalmente brevi e puntuali nell’affrontare temi specifici, tra i quali l’A. si premura di evidenziare le connessioni. I nodi rilevanti sono spesso richiamati lungo il percorso, in omaggio a un’intenzione pedagogica che non lede l’originalità della riflessione né semplifica arbitrariamente le questioni piú complesse. La scelta dei temi piú diffusamente trattati e degli autori di riferimento, se pur condizionata com’è ovvio da preferenze personali, appare sempre coerente con lo sviluppo del percorso.
La scrittura è elegante e si mantiene a debita distanza dall’ermetismo sfoggiato talvolta dalla ‘scuola milanese’. Da segnalare sul piano stilistico il curioso e frequente passaggio dalla prima persona personale alla prima plurale, a seconda del livello di implicazione personale che l’affermazione racchiude (cosí ad esempio nel capitolo conclusivo: «L’ipotesi che formuliamo e a cui ritengo di dover legare la mia azione è che…»). Trattando di come la soggettività si gioca e si realizza in una rete di relazioni, si tratta di qualcosa di piú che un vezzo linguistico.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 3/2012
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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