Attività e virtù. Anima e corpo in Aristotele
(Università/Filosofia)EAN 9788834315484
Poiché consideriamo la conoscenza tra le cose belle e degne di onore e una più di un’altra o per il rigore o perché si occupa di oggetti migliori e più ammirabili, per entrambe queste ragioni potremmo ragionevolmente porre tra le prime la ricerca sull’anima. Sembra anche che la conoscenza dell’anima contribuisca di molto ad ogni verità… ma in ogni senso e in ogni modo è tra le cose più difficili ottenere una qualche credenza riguardo all’anima (De anima A, 1, 402 a 1-10).
Così Aristotele apre il suo scritto riguardante l’anima e ci sembra non ci siano parole migliori per introdurre questo volume – che raccoglie i contributi presentati al Convegno Attività e virtù.Anima e corpo in Aristotele, organizzato dal Prof. Maurizio Migliori e svoltosi presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dell’Università degli Studi di Macerata dal 24 al 26 marzo 2004 – nel quale i vari saggi degli autori, intrecciandosi, danno vita a diversi percorsi che spaziano nel pensiero aristotelico dalla psicologia, passando per la biologia fino all’etica ed evidenziano un denominatore comune, presente in ogni ambito della filosofia dello Stagirita, che consiste nella consapevolezza (propria del pensiero antico in generale e di Aristotele in particolare) che la complessità e la ricchezza della realtà vada studiata con altrettanta ricchezza di schemi esplicativi e punti di vista. Questo libro ci offre, quindi, un ampio e variegato percorso di ricerca che tenta di far luce in passi controversi dell’opera aristotelica e di aprire nuovi orizzonti di comprensione del pensiero del Filosofo, offrendo al lettore la possibilità di tracciare un suo personale percorso tra i diversi saggi, in quello che si presenta come un affascinante viaggio trasversale nei diversi terreni che il pensiero aristotelico affronta. Si potrebbe così partire dai saggi che trattano il problema del rapporto tra anima e corpo; a questo proposito, Diana Quarantotto (Che cosa fa di una forma un’anima: l’organizzazione anatomo-fisiologica dei viventi e la sede della psiche, pp. 397-411) si concentra su una questione cruciale: si chiede, infatti, come sia possibile, da un lato, intendere l’anima come forma del corpo vivente - e quindi, in quanto tale, uniformemente distribuita in tutto il corpo - e, dall’altro, attribuire all’anima stessa una qualche “sede”. Dopo aver ricostruito il dibattito critico su questo tema e aver ripercorso passi importanti del corpus biologico dello Stagirita, la Quarantotto conclude che il pensiero aristotelico, a questo proposito, è unitario e coerente.
Luciana Repici (Aristotele, l’anima e l’incorruttibilità: Note su De longitudine et brevitate vitae, 1-3, pp. 413-448) propone un commento puntuale di questo testo, mostrando come la trattazione del rapporto tra anima e corpo, qui descritto, sia diversa da quella che Aristotele offre nel De anima: nell’opera in esame, infatti, l’anima è connessa al calore naturale che le fa da sostrato materiale, mentre nel diverso contesto del De anima, è vista come causa formale-finale. Lucchetta (Perché agli ubriaconi piace il sole? (Problemata III 32). Attività vitale, virtù del corpo ed effetti del vino, pp. 209-225), invece, tramite testi poco esplorati dello Stagirita, ci fa accostare ad un aspetto particolare e sorprendente del pensiero di Aristotele, quello, cioè, che si confronta con i casi limite, i più inverosimili che la realtà ci pone di fronte e che la teoria deve saper spiegare: su questa linea, nella XXX sezione dei Problemata, Aristotele accosta sapere e vino. Il vino viene visto, infatti, dallo Stagirita come uno strumento per conoscere il carattere umano ed egli analizza gli effetti del vino sul comportamento umano, tratteggiando la figura dell’individuo melanconico, stereotipo dell’uomo colto che «dopo i momenti di intensa e vibrata contemplazione della perfezione affonda muto nella depressione» (p. 211). Ad allargare l’asse della discussione all’Accademia antica è poi il contributo di Marilisa Cannarsa (Una lacuna platonica. Il problema della relazione anima-corpo nella prima accademia antica, pp. 43-82).
La studiosa ricostruisce, infatti, l’importanza del problema del rapporto tra anima e corpo in Accademia e, a partire dalla tesi di Dillon – il quale sostiene che Platone avrebbe lasciato all’Accademia una “lacuna teorica” rispetto a questo punto – la Cannarsa ricostruisce i diversi filoni di pensiero presenti nell’Accademia per concentrarsi poi sulla soluzione aristotelica che definisce l’anima come una sostanza immobile, incorporea e, tuttavia, immanente a quel corpo che è strumento per essa. Il nostro orizzonte resta allargato su Platone anche nel contributo di Lucia Palpacelli (Aristotele e Platone: un confronto critico intorno all’anima, pp. 285-360) che, tramite i testi, ricostruisce l’intenso dialogo critico tra Platone e Aristotele intorno alle questioni riguardanti l’anima. Ripercorrendo gli snodi problematici più importanti su questo tema (per esempio le parti o le funzioni dell’anima, l’automovimento o l’immobilità dell’anima) si può concludere che, a partire da uno sfondo comune, su ogni questione i due Filosofi si confrontino in un ricchissimo rapporto di concordia discors. Nell’ideale percorso che stiamo tracciando potremmo poi concentrarci su questioni riguardanti più specificamente l’anima in Aristotele: in quest’ottica il contributo di Migliori (L’anima in Aristotele: tra funzione e ontologia. Una concezione polivalente e, al contempo, apiretica, 227-260) offre allora un ampio quadro introduttivo, perché tratteggia l’orizzonte complessivo dei diversi modi nei quali Aristotele “declina” e definisce l’anima nei suoi scritti. Nel De anima l’anima è considerata da un punto di vista fisico-biologico, molto diverso rispetto all’esame che di essa – e in particolare dell’anima razionale - si dà nelle Etiche.
Ancora, nelle opere perdute di Aristotele, come l’Eudemo, si ha prova del fatto che l’anima viene legata al discorso dell’al di là e dell’anima–demone, di cui non si ha traccia nelle opere essoteriche. Questi tre scenari, molto diversi gli uni dagli altri, danno prova della ricchezza del pensiero aristotelico che tenta ogni strada per spiegare una realtà in se stessa multiforme. Fronterotta («Ou mnemoneumen de…» Su Aristotele, De anima G 5, 430 a 23-25, pp. 179-207) si concentra, invece, su un passo famosissimo del De anima nel quale Aristotele distingue l’intelletto attivo dal passivo e, in un inciso, introduce la memoria. Lo studioso legge questo passo come un argomento polemico verso la dottrina platonica della reminiscenza. A concentrarsi sulla definizione stessa di anima in Aristotele è Bos (Potenza e atto dell'anima e delle sue parti in Aristotele, De anima II, 1, pp. 31-41) che propone una rilettura di tale definizione in De anima, II, 1 alla luce di una nuova e più corretta traduzione della formula sôma organikon con «un corpo naturale dotato di organi». Se si assume questa traduzione l’anima risulta definita dunque come “atto primo di un corpo naturale dotato di organi”. In quest’ottica il “corpo strumentale” dell’anima, che si declina diversamente lungo la scala degli esseri viventi, viene a costituire quel particolare “corpo” che risiede all’interno del corpo visibile di un essere vivente e che realizza, nella materia, la forma immateriale di cui l’anima costituisce il “progetto”.
A far da ponte tra l’ambito psichico-biologico e quello etico è il saggio della Cattanei (L’immaginario geometrico dell’uomo che delibera. Schemi di esercizio della phantasia bouleutike in Aristotele, pp. 83-111) che ricostruisce i diversi orizzonti di pensiero (psicologico, etico, antropologico) legati al concetto dell’immaginazione deliberativa. Il retroterra a cui la studiosa si richiama è quello geometrico-matematico, capace di spiegare, tramite schemi metrico-spaziali e logisitico-temporali, come agisca questa funzione dell’anima. Ad introdurci ai temi etici è il contributo di Trabattoni (L'etica di Aristotele è eudemonistica?, 449-468) che si pone una domanda fondamentale nell’ambito del discorso etico aristotelico, domanda che poi costringe lo studioso a ripercorrere alcuni nodi cruciali del discorso etico dello Stagirita. La risposta di Trabattoni è che l’etica di Aristotele non può essere detta “eudemonistica” strictu senso, ma che ha un «carattere eudemonistico solo in modo irregolare e approssimativo» (p. 464). In ambito etico si muove anche la Napolitano (Un passo del ‘Menone’ sulla ‘phrònesis’: verso la scienza pratica aristotelica?, pp. 261-283), partendo da Platone per approdare, o lasciar almeno intravedere, il pensiero di Aristotele. La studiosa individua, infatti, nel Menone una definizione della phronesis come guida all’uso corretto dei beni sia del corpo che dell’anima (88 D 6) e vi vede «un input preistorico alla futura collocazione aristotelica delle virtù rispettivamente nell’anima razionale (le dianoetiche e dunque anche la phrònesis) e nella sensitiva (le etiche)» (p. 269).
La Fermani (Tumulti dell’anima. I possibili nessi tra enkrateia e akrasia, vizio e virtù nelle Etiche di Aristotele, pp. 147-177) propone, invece, una riflessione sulla figura etica della continenza e della virtù in Aristotele. Da questo esame risulta un quadro ricco e composito, in cui i termini in questione vengono caratterizzati in modi divergenti e anche opposti nei diversi contesti nei quali sono collocati. Questo dà prova dell’irriducibile ricchezza del pensiero aristotelico che, per spiegare una realtà mutevole e complessa come la natura umana, non può che muoversi in modo duttile e spostare continuamente il punto di vista della sua osservazione. Maria Letizia Perri (Le pratiche dell’umano nell’Etica nicomachea, pp. 361-396) propone un percorso all’interno dell’Etica Nicomachea volto ad evidenziare come l’etica dello Stagirita possa dirsi uno spazio aperto: il sapere pratico è così esteso che contiene diversi percorsi cognitivi e diversi modi di vivere. La guida di questo percorso è, quindi, fornita dalla «mappa delle differenze» (p. 361) che permette di comprendere come «l’Etica nicomachea… può ritenersi una se non la più fondamentale tra le condizioni che permettono oggi di mutare punto di vista riguardo a questioni di differente contenuto ed intensità che riguardano l’orizzonte dell’umano» (p. 362). Il termine di questo ideale percorso tracciato nel pensiero aristotelico potrebbe essere costituito da un “volo verso l’alto”, quale quello che ci propone il saggio di Silvia Fazzo (Fra atto e potenza: l'eternità del cielo nel libro ‘Lambda’ della ‘Metafisica’, pp. 113-146) che riflette su uno dei luoghi classici della Metafisica di Aristotele, dedicati alla teoria della potenza e dell’atto e che implica, appunto, un riferimento all’eternità del cielo. L’analisi proposta dalla studiosa – che si snoda tra vari passi di Metafisica Lambda e Theta, giunge a mostrare che in Metafisica Lambda 6 non c’è alcun riferimento né a Dio né al primo motore immobile.
In questo capitolo, infatti, Aristotele postula esplicitamente un principio dotato di mutamento e, pertanto, non immobile che serve da premessa per la dimostrazione di un principio immobile. In questo volume, dunque, l’“ascolto” del pensiero di Aristotele ci conduce dalla realtà fragile del corpo fino all’eternità del cielo, in una vertigine che solo un pensiero filosofico desideroso di spiegare e di capire la realtà in tutta la sua ricchezza, qual è quello aristotelico, può contenere.
Tratto dalla rivista Firmana n. 50/2010
(http://www.teologiamarche.it)