Platone e le «ragioni» dell'immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti
(Università/Filosofia)EAN 9788834313947
Ogni libro può essere pensato come un viaggio. Questo libro ci propone un viaggio affascinante nel concetto antico di éidolon, di immagine, che prende le mosse dalla filosofia e, passando attraverso la letteratura arcaica e classica, ritorna alla filosofia. La Napolitano stessa (che si è già occupata dell’uso greco e platonico di metafore visive, per esempio in Lo sguardo nel buio. Metafore visive e forme grecoantiche della razionalità, Laterza, Roma-Bari 1994) struttura il volume come un vero e proprio percorso diviso in capitoli e indica due deviazioni dalla strada maestra che sono funzionali ad arricchire e a raccordare il già vastissimo quadro che queste pagine offrono. Nei primi due capitoli (intitolati rispettivamente «percorso 1» e «deviazione 1») la Napolitano analizza il mito platonico della caverna; il terzo capitolo («percorso 2») tratta dell’immagine della visione speculare e frontale, affrontando alcuni miti greci come quelli di Dioniso e Narciso; nel quarto capitolo («deviazione 2») si analizza il concetto di doppio tramite una lettura ragionata di alcuni brani dell’Elena di Euripide; nel quinto, infine («percorso 3») si tematizza l’immagine dell’autoconsapevolezza, riprendendo l’Elena di Euripide e analizzando alcuni dialoghi platonici.
Il particolare punto di vista assunto come chiave di lettura permette all’autrice – che accentra appunto il suo esame sulle immagini e sul guardare – di interpretare sotto una luce nuova molti famosissimi brani dell’opera platonica e della letteratura greca e di illustrare così sostanzialmente tre complessi scenari, nei quali l’éidolon gioca un ruolo ogni volta diverso: l’immagine è vista, infatti, in connessione con (1) l’inganno, (2) il concetto di doppio, (3) l’idea della visione frontale e del rispecchiamento e, dunque, anche dell’auto-conoscenza. Il filone argomentativo che considera il nesso éidolon-inganno è aperto da un’originale rilettura del mito della caverna che viene proposta a partire da un’attenta analisi del tipo di ombre (e quindi di immagini) riflesse sul fondo della caverna. Il racconto platonico sembra infatti far riferimento a un’antica tecnica pittorica, quella della skiagraphía, cioè la pittura delle ombre portate: si tratta «della prima tecnica storicamente impiegata per realizzare, attraverso la proiezione a distanza delle ombre e il disegno del loro contorno, una pittura prospettica, che cioè rispetti e segnali le distanze intercorrenti fra gli oggetti di visione e fra essi e l’osservatore» (p. 12). È, dunque, una tecnica pittorica che tiene conto delle proporzioni adatte per ingannare la vista dello spettatore.
Le ombre che vede il prigioniero della caverna sono, dunque, doppiamente ingannevoli, perché non si tratta di ombre effettivamente congiunte all’oggetto, ma di ombre portate, cioè proiettate (come accadeva nella skiagraphía). Da ciò si trae la conseguenza che il portatore di statue, che proietta le ombre sul muro, deve effettivamente avere la volontà di ingannare. Quindi, può vedersi in quest’immagine il ritratto di un sofista che consapevolmente inganna. Coerentemente con tale ottica, la tematica dell’immagine come strumento di inganno viene approfondita dalla studiosa nel quarto capitolo, tramite l’analisi del Sofista di Platone. In questo dialogo il filosofo teorizza il concetto di immagine e lo critica appunto perché comporta l’inganno. Il sofista viene qui descritto come un produttore di immagini e un ingannatore, perché, per esempio, sembra sapiente, ma non lo è effettivamente. Dunque, quella dei sofisti è una simulazione di sapere. Ora, in greco «simulazione» è eironéia e l’ironia viene tipicamente attribuita a Socrate, ma l’autrice ha cura di distinguere, a questo proposito, l’ironia di Socrate dall’agire sofistico: infatti, se la simulazione (eironéia) dei sofisti è operata sul loro stesso sapere e a loro vantaggio, «l’ironia di Socrate non riguarda il proprio sapere, ma quello dell’interlocutore, e ha uno scopo preciso che va a vantaggio non di Socrate stesso, ma dell’interlocutore, poiché vuole liberarlo dalla presunzione di sapere» (p. 176). Un’altra declinazione dell’éidolon è quella che intende l’immagine come doppio. Anche questa figura ha una storia molto antica – che passa per i kolossoí funerari (statuette funerarie che potevano essere conficcate al suolo o collocate nel sepolcro) e per la psyché omerica: l’anima intesa, cioè, come un’immagine sostitutiva del vivente, reale, dunque, ma non vera, tanto che è evanescente e non la si può abbracciare.
È proprio questo che accade, infatti, nell’incontro tra Odisseo e la sua defunta madre, Anticlea (cfr. Odissea XI, 204-224) o tra Achille e Patroclo, dopo la morte del giovane (cfr. Iliade XXIII, 57-107). L’analisi del concetto di doppio è veicolata dall’esame dell’Elena di Euripide: il drammaturgo immagina che la vera responsabile di tutte le rovine dei Greci e della guerra di Troia non sia la “vera” Elena, moglie fedele di Menelao rifugiata in Egitto, ma una sua immagine, un suo doppio. In quanto doppio, tale éidolon, pur non essendo vero, è comunque tristemente reale e si presenta come un «opposto morale» (p. 147) rispetto alla vera Elena (il che rende chiaro che siamo di fronte a due realtà oggettive distinte), anche se ne è la copia fisica esatta. L’éidolon come doppio, dunque, mostra come il reale possa sporgere sul vero (cfr. p. 138) e porta comunque con sé l’idea di inganno e di mancanza di verità. L’ultimo scenario descritto dalla Napolitano riguarda il nesso tra éidolon e frontalità/rispecchiamento che risulta essere più complesso e ricco dei precedenti, perché la visione speculare e frontale può produrre immagini ingannevoli e false (come quelle incontrate finora), ma può anche essere un mezzo per giungere alla conoscenza di se stessi. Il particolare punto di osservazione, scelto dalla studiosa la porta a considerare tale nesso anche nell’analisi del mito della caverna. Infatti, se si riflette sul «ruolo antropologico e relazionale» (p. 50) di questo mito (come l’autrice fa nel secondo capitolo) ci si accorge del fatto che i prigionieri non possono girarsi e quindi non possono guardarsi in faccia l’un l’altro, perché sono legati al collo e costretti a guardare dritto avanti a loro.
Questo significa che nella caverna è possibile soltanto una relazionalità «limitata e distorta, impoverita e malata» (p. 56). Se si pensa all’importanza che acquista in Platone l’idea del rispecchiamento negli occhi dell’altro (Alcibiade I ) o del proprio innamorato (Fedro), è evidente che Platone sta dipingendo una condizione in cui gli uomini non hanno neanche piena e reale coscienza di loro stessi. Il nostro percorso ci ha dunque portato, dalla visione ingannevole dell’ombra, a prendere in considerazione la visione speculare e frontale che l’autrice vuole ripercorrere tramite brani notissimi, ma letti da una prospettiva che evidenzi «legami e differenze fra le due immagini della visione speculare e frontale» (p. 85). «Horôn horônta è espressione che, associando proprio in una frontalizzazione le forme nominativa e accusativa del participio presente di horáo – di solito la traduciamo “sguardo a sguardo”, “faccia a faccia” – segnala in modo icastico il legame (spesso inquietante e distruttivo) fra visuale, speculare e frontale» (p. 85). Su questa linea di pensiero, la Napolitano analizza un brano delle Baccanti di Euripide nel quale Dioniso crea il mondo tramite la riflessione in uno specchio, cioè con un gioco di pura illusione. È poi la volta del mito di Narciso che è invece simbolo dell’illusione di se stesso: infatti, la propria immagine stessa, riflessa sull’acqua, lo inganna e lo illude. La Gorgone rappresenta invece una visione frontale (ma negativa) e viene contrapposta al mito degli androgini del Simposio che propone l’esempio di una frontalità positiva: infatti, questi – al contrario del prigioniero della caverna – potevano guardare in ogni direzione, ma non potevano vedersi l’un l’altro: «fra tali opposti si porrebbe secondo natura la capacità visiva (conoscitiva) propria dell’uomo stesso.
Essa [...] dovrà, per poter operare, recuperare ciò che all’incatenato come all’essere umano primordiale era del pari precluso, la visione, horôn horônta, del volto e dell’occhio di chi gli sta più vicino, cioè di fronte» (p. 111). In questo quadro torna l’analisi dell’Elena di Euripide, che viene proposta come esempio della possibilità di conoscere se stessi tramite il confronto dialogico con altri, diversi da noi e che pensano di noi cose diverse da quelle che noi pensiamo di noi stessi. Nell’incontro con l’altro, Elena può quindi ridefinire la sua autoconsapevolezza, perché viene a conoscenza di altre immagini di se stessa. Anche in questo caso, la tragedia è funzionale a traghettare il lettore fino a Platone, perché la Napolitano prende poi in esame la tematica del rispecchiamento in Platone, individuando due distinti tipi di rispecchiamento che variano al variare della superficie di riflessione: (1) il rispecchiamento in una superficie speculare reale e (2) quello nella pupilla dell’occhio altrui. Il primo tipo di rispecchiamento è usato da Platone, in senso metaforico, nella Repubblica e nel Sofista e segnala il ruolo illusorio e ingannevole che lo specchio gioca in mano ai sofisti che possono produrvi il mondo soltanto come immagine. Siamo quindi di fronte a una conoscenza falsa e apparente. Con il rispecchiamento nella pupilla, invece, Platone rinnova la visione dello specchio: «Quest’uso sarebbe infatti nuovo e dunque originale dello stesso Platone [...] il rispecchiamento nell’occhio altrui giunge ad essere per Platone, come già sappiamo, immagine della ricerca filosofica condotta con altri per via di dialogo» (pp. 238-239). L’Alcibiade I e il Fedro, come già detto, sono esempi di questo tipo di rispecchiamento foriero di conoscenza vera, di autoconsapevolezza. Proprio sull’autoconsapevolezza, infine, si chiude questo percorso letterariofilosofico: il sentiero tracciato da Socrate per l’autoconsapevolezza, e la conseguente felicità, è individuato nell’aporêin.
Si tratta di una strada dolorosa (Platone la tratteggia così in più occasioni), ma anche del tutto naturale e necessaria per il raggiungimento della verità: la Napolitano precisa, infatti, che «esso [l’aporêin] par anzi far parte in modo strutturale dell’apparato cognitivo del quale, secondo Platone, siamo dotati per affrontare il mondo, del modo e delle facoltà con i quali possiamo misurarci rispetto alla sua verità» (p. 256). Come spesso scrive l’autrice, procedendo «éidolon per éidolon, immagine per immagine» si giunge quindi alla fine di un viaggio davvero particolare perché l’argomento, così circostanziato e originale, permette di attraversare i testi cogliendo elementi nuovi e, in alcuni casi, come si è visto, arricchendo anche l’esegesi di brani molto noti. Risulta poi coinvolgente questo andare e venire dalla letteratura arcaica e classica alla filosofia, da Omero a Euripide fino a Platone. Sul piano esegetico, si coglie tutta la potenzialità di una tale operazione, perché i testi si danno luce a vicenda, ricomponendo un orizzonte unitario di voci e tematiche che nell’antichità così operavano e che fortunatamente sono giunte fino a noi.
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (3/2010) 516-519
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)