Chiamati da chi?
-Chiamati a che cosa?
(Gestis Verbisque)EAN 9788830815834
La teologia si nutre di domande, alla ricerca di orizzonti che offrano senso al cammino umano. E, proprio con due domande si presenta questo volume, collezione dei contributi del VI Seminario specialistico di teologia sacramentaria, promosso dall’Istituto Teologico Marchigiano e svoltosi a Fabriano (Ancona) dal 31 agosto al 2 settembre 2016: Chiamati da chi? Chiamati a che cosa? Il focus del confronto è la concezione della vocazione nella storia della chiesa e nel tempo attuale, tema piuttosto recente nella teologia e nella relativa disciplina del sacramento dell’ordine.
Chiamati da chi? La vocazione è frutto della libera iniziativa del Signore Gesù che interpella chi vuole (cf. Mc 3,13) e suscita nel cuore di chi è chiamato la tensione verso una vita totalmente spesa al servizio della chiesa. Ma chi si fa garante del suo corretto discernimento? È esattamente la chiesa a proporsi come interprete autorevole e autentica della chiamata divina, e ciò avviene nella persona del vescovo. È quanto viene chiarito nel volume, presentando la disputa tra il superiore del Seminario d’Orléans, Louis Branchereau, e il canonico Lahitton. Il primo sosteneva che la chiamata al presbiterato fosse frutto di un’attrazione e che quindi l’ultima istanza del discernimento fosse prerogativa del direttore spirituale, relegando così la vocazione al sacerdozio nell’intimità del soggetto. Il secondo – a cui la Santa Sede ha poi dato ragione – riconduceva invece la vocazione a una chiamata mediata dalla chiesa, investendo così il vescovo del ruolo di interprete autorevole dell’idoneità del candidato, e sottolineando la dimensione ecclesiale del ministero. È vero, infatti, che la vocazione viene “comunicata” direttamente da Dio all’eletto, ma questo non esclude, anzi esige, la mediazione della chiesa. Essa sa bene che dietro a una chiamata – percepita prevalentemente, se non esclusivamente, in modo interiore – possono nascondersi ragioni assai diverse dalla volontà di Dio.
In questa linea, proprio il Rito di ordinazione si offre come parametro di autenticità, poiché in esso emerge con chiarezza come non sia il candidato a proporsi, ma sia la chiesa a chiamare. Grazie a questo si rende evidente nella ritualità dell’elezione come la soggettività della vocazione non abbia spazio: la persona del ministro è meno importante del ministero (diakonía). La chiesa si offre, dunque, come garante di quella relazione che è essenzialmente la chiamata. Ogni vocazione ha un’indole relazionale, che porta in sé l’esigenza della trascendenza, ossia la necessità di accogliere chi chiama per ciò che realmente è, nella sua libertà e identità.
Chiamati a che cosa? Chiamati alla comunione. Il ministro ordinato è invitato a crescere in due direzioni relazionali. In una relazione verticale – fonte della vocazione – con il Dio trinitario, fonte della chiamata, per imparare sempre più a conoscerlo nella verità e amarlo nell’autenticità, così che plasmi la vita interiore; e in una relazione orizzontale – banco di prova costante –, con il popolo che si è chiamati a servire nell’annuncio del Vangelo. Infatti, come ogni vocazione cristiana, anche quella presbiterale ha una precisa finalità, una missione. In una connessione indissolubile tra vocazione e missione, il presbitero vive a servizio dei fedeli. Per maturare sapientemente in questa dimensione ministeriale, sfuggendo a forme autoreferenziali, il ministro ordinato è invitato costantemente a crescere in un ben preciso stile relazionale, come opportunamente sottolinea la Pastores dabo vobis. Si tratta di uno stile maturo e sereno, capace di costruire relazioni sane e libere, rispettando determinati confini, anche nelle circostanze in cui cresce l’intimità come, per esempio, nella direzione spirituale o nella confessione.
Il volume non ignora né minimizza il complesso contesto socio-culturale attuale, in cui il presbitero è sottoposto a diverse forme di pressione. Tra questi, si individuano: la scarsità di vocazioni e l’esigenza spesso angosciante di rispondere a diversi bisogni (rally del prete), lo stress da contesti esterni e lo svuotamento interiore, l’emergere di una “mentalità abusante” (abuso di leadership, di immagine sociale, della stessa maturità umana e spirituale), la problematicità del rapporto tra cura animarum e cura sui. In questo scenario, complesso e sfidante, diventa sempre più urgente ripensare le modalità con cui si esercita il ministero ordinato, chiamato a una nuova stagione dell’evangelizzazione, secondo quanto indica papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Quest’annuncio del Vangelo acquista una dimensione fortemente comunitaria per il contributo anche di laici, uomini e donne, e ciò implica un nuovo ardore, nuovi metodi e una nuova espressione per l’annuncio e la testimonianza. Ciò esige dei sacerdoti radicalmente e integralmente immersi nel mistero di Cristo e capaci di realizzare un nuovo stile di vita pastorale, segnato dalla profonda comunione con il papa, i vescovi e tra di loro, e da una feconda collaborazione con i fedeli laici, nel rispetto e nella promozione dei diversi ruoli, carismi e ministeri all’interno della comunità ecclesiale (cf. Pastores dabo vobis 18).
Un itinerario storico-teologico. La chiamata al sacerdozio ministeriale non è, però, diversa, per dignità e orizzonte, dalle altre chiamate, tutte contrassegnate dal tratto della radicalità nella sequela, che consiste nel «cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). La vocazione al ministero ordinato si colloca dunque nell’universale vocazione alla santità. E ne condivide il vocabolario. Nel Nuovo Testamento è assente, infatti, una terminologia specifica: quando dopo la pasqua si parla di “chiamata”, al di là del caso di Paolo (Rm 1,1; 1Cor 1,1), i soggetti non sono i ministri, ma quanti sono venuti alla fede, i membri della comunità. Forse Ef 4,11-16 potrebbe ipotizzare un quadro vocazionale al ministero specifico, quando dice che «Cristo diede alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per preparare i santi all’opera della diakonía, per l’edificazione del corpo di Cristo». Ma questo sembra davvero troppo poco per provare che nei primi tempi della chiesa si sia consolidato un vocabolario specifico capace di rimandare all’idea di una vocazione al ministero. Alla fine dell’età apostolica i termini della questione non cambiano. La vocazione è alla vita cristiana, alla santità.
Con sant’Agostino l’idea della vocazione è andata pian piano collegandosi al ministero sacerdotale. Prima dell’ordinazione presbiterale, a Ippona, Agostino aveva già fondato una piccola comunità monastica, che continuerà anche dopo la sua elezione a vescovo. Tale comunità è una comunità di elezione, che viene a configurarsi sulla base della scelta personale di ogni membro, il quale abbraccia liberamente una forma di vita alla quale si sente chiamato. Qui si può parlare di vocazione alla vita monastica. Lo sviluppo del monachesimo e la conseguente clericalizzazione degli ordini mendicanti permette di vedere uno sviluppo terminologico verso l’idea della vocazione al ministero ordinato. In questa linea si è collocato il Concilio di Trento con i suoi Decreta. Il vocabolario è andato gradualmente modificandosi, fino a indicare la chiamata allo stato clericale, e non solo alla sequela Christi nella fede.
In conclusione. La teologia della vocazione al ministero ordinato, erede della sua storia, fa tesoro della rivelazione biblica del Nuovo Testamento e del comune orizzonte della santità della chiesa. Colloca, dunque, il ministero ordinato tra i doni di Cristo alla sua chiesa, al pari di ogni altro dono che viene dall’alto. Riconosce alla chiesa – e non al singolo – il compito di disporne in obbedienza al suo Signore, prolungando nella storia la sua missione salvifica.
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 2-4/2017
(http://www.pftim.it)
Il presente volume, il numero 17 della collana Gestis verbisque, raccoglie gli atti del VI seminario specialistico di teologia sacramentaria promosso dall’Istituto Teologico Marchigiano e svoltosi a Fabriano dal 13 agosto al 2 settembre 2016. L’idea principale della miscellanea, e anche di questo testo, è la riflessione sulla concezione della vocazione nella storia della Chiesa e nel tempo attuale analizzando alcuni elementi che spingono al ripensamento della visione della stessa. Il primo passaggio storico da cui muove il testo si coglie dalla svolta costantiniana che principalmente non solo ha modificato il rapporto tra la Chiesa, lo Stato e le istituzioni civili, ma ha creato le premesse per un’enorme trasformazione della concezione del ministero che inizia a essere interpretato come una sorta di “funzionariato” pubblico. Il secondo passaggio del testo si concentra sul fenomeno della progressiva sacralizzazione del ministero che altera dall’interno lo stesso itinerario vocazionale relegato alle funzioni sacerdotali del culto. La terza fase chiama in causa l’Occidente e le Chiese di Europa sulla necessità che si fa presente negli anni settanta di confrontarsi con una crisi quantitativa che ha fatto abbassare nelle Diocesi il nutrito numero delle vocazioni fino ad arrivare a una carente presenza. Questi tre passaggi servono alla riflessione contemporanea sulla vocazione perché essenzialmente imprescindibili ai fini di un’indagine sulla stessa.
La proposta teologica del testo muove dal rito perché – a detta del curatore un corretto studio della vocazione non è riducibile a una semplice ipotesi di lavoro. Enrico Brancozzi riprendendo una lezione di Annibale Maria Triacca afferma che l’approccio alla liturgia è la parola di Dio celebrata, celebrata perché creduta, creduta perché compresa. Il testo si articola di due saggi, dodici interventi e una conclusione. Si apre con il primo saggio di Tullio Citrini dal titolo Per una teologia della vocazione presbiterale (13-27), in cui le prospettive dalle quali parte l’autore sono chiaramente teologiche: dopo aver evidenziato che la vocazione è inserita nella predestinazione di Cristo che chiama ciascuna persona, si confronta con il pensiero di P. Branchereau – letto come un modernista – per il quale la vocazione è un’attrazione al presbiterato, e con quello del canonico Lahitton che la riconduce alla chiamata autorevole della Chiesa. Citrini appoggia quest’ultima interpretazione ritenendo che – al di là del riferimento all’autorità del Vescovo – una vocazione è impensabile se non in relazione a una Chiesa al presbiterio poiché ogni vocazione ha indole relazionale. In questa direzione egli colloca la chiamata innanzitutto come un prendersi carico nel qui e ora dell’Eucaristia, della Chiesa come Eucaristia perché la prima nasce dalla seconda. Di qui ne scaturisce un’immediata riflessione sul presbiterio come luogo per un ministero condiviso, giungendo a riflettere sulla vocazione all’episcopato e all’età della chiamata. Segue il secondo saggio, quello di Cesare Giraudo dal titolo L’identità del presbitero alla luce della preghiera di ordinazione. Teologia e spiritualità di un ministero (29-45), nel quale l’autore lavorando sul Sacramentario veronese approfondisce teologicamente la preghiera di ordinazione presbiterale – lex orandi – soprattutto per ciò che concerne i tria munera. La grande novità che offre in quest’intervento è l’approfondimento dello statuto di doctores fidei di secondo grado che viene elargito ai presbiteri in quanto chiamati a svolgere, in comunione con il Vescovo, un vero e proprio magistero in tutti i vari ambiti nei quali operano, ma soprattutto nell’omelia liturgica. Si prosegue con l’intervento di Carlo Bresciani dal titolo «In generale tutte le vocazioni hanno una dimensione di relazionalità, ma con strutture molto diverse» (49-54), l’originalità di questo testo pare essere la dimensione verticale della relazione plasmante con il Dio trinitario (il “da chi?”) per arrivare a quella orizzontale (del “a che cosa”?) evitando la deriva di crearsi un Dio-fai-da-te a propria misura e a propria conferma. Nazareno Marconi in Fenomenologia odierna della vocazione al presbiterato (55-59), si sofferma sul rapporto con il ministero ordinato ponendo in maniera diversificata presbiteri diocesani e religiosi. In questi ultimi – afferma l’autore – la condizione esistenziale si configura nel progetto di vita ideale di un carisma specifico in cui la persona realizza se stessa nell’assunzione vitale di questa prerogativa nella quale si sente compresa, accolta e coinvolta e in cui il primato del carisma è fondamentale rispetto alla ricezione del sacramento dell’ordine sacro, diversamente dal presbitero diocesano in cui il primato spetta al sacramento.
Maria Battista Boggero in Vocazione e tradizione monostatica (61-65), tematizza sulla distinzione tra una vocazione battesimale e un’eventuale assunzione di un compito, un ministero nella e per la comunità. Il taglio del contributo è prettamente teologico-morale: la Parola accolta come personalmente rivolta abilita a una conformità radicale di essa sull’esempio di Benedetto da Norcia che riconoscendo la benedizione di Dio per lui si mette in cammino verso il Regno. E. Brancozzi in Spunti di riflessione per un ripensamento del ministero in chiave attuale (67-76), rende ragione di due tesi: la prima è la concezione del ministero in Italia che continua a essere più o meno invariata da cinquanta o cento anni, e la seconda concerne la diminuzione quantitativa del clero. Una delle possibili disaffezioni verso il cristianesimo l’autore la sintetizza così: la Chiesa italiana anziché adeguare le strutture ai numeri tenta di adeguare i numeri delle strutture. In secondo luogo i vescovi sono immersi in una profonda solitudine, la scarsa collegialità strutturale delle diocesi, “il rally del prete” in una gara contro il tempo, la promozione di una religiosità da campanile legata al proprio comune di appartenenza, talvolta addirittura al proprio quartiere o frazione abitativa, una religiosità fondamentalmente disinteressata rispetto alle dinamiche. Per E. Brancozzi la Chiesa non sembra affrontare in modo maturo il problema né tantomeno presentare soluzioni efficaci per arginare questi disagi. Anche le stesse unità pastorali non si traducono in scelte comunionali e lo stile di vita individuale non sembra essere considerato parte integrante del ministero. Rossano Buccini in Agio e disagio nella condizione presbiterale (77-94), al centro del suo intervento rileva il cosiddetto “rischio professione”, cioè il burnout che si caratterizza per l’entrata in simbiosi con le proprie competenze da cui ne consegue stanchezza fisica, stress spirituale, sensazione di fallimento, pragmatismo, atteggiamenti rinunciatari, scissione di personalità, perdita di passione, cinismo, disinteresse per le forme dell’umano. Un ulteriore fattore che innesca il fenomeno del burnout nasce da errori istituzionali che a causa della scarsità di vocazioni creano l’esigenza – spesso angosciante – di rispondere ai bisogni di una Diocesi assillando il prete ed esponendolo a un’ulteriore vulnerabilità.
Roberto Cecconi in Riflessioni sul ministero ordinato in Mc 1,16-20, pone in rilievo gli elementi essenziali della vocazione al ministero ordinato attraverso il brano che narra la chiamata di Simone, Giacomo e Giovanni: lo stare con Lui (cf.Mc 3,14) precede l’invito a seguirlo (cf.Mc 1,17). Con quest’articolo presenta in maniera rapida i tratti della sequela Christi intesa soprattutto come una disponibilità a lasciare, che è un rinnegare se stessi consentendo al Signore di decidere in quale posto fare sedere e quale ruolo occupare nella compagine ecclesiale, poiché solo restringendo il proprio io si può contribuire in maniera indicativa alla creazione dello spazio di cui necessita l’edificazione di quel noi che racchiude in sé la dimensione della koinonia di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni. Mario Florio nel suo contributo Iniziazione cristiana e ministero ordinato (107-118), mette alla prova le acquisizioni raccolte sul piano del metodo verificandone l’attendibilità e la portata euristica nel contesto specifico del settenario, facendo dialogare l’intero sapere teologico (cristologia, pneumatologia, ecclesiologia, morale e teologia spirituale) all’interno della lex orandi. Giovanni Frausini in Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Chiamate! (119-135), si domanda come e quando si è chiamati a essere vescovi, preti e diaconi, partendo dalla preghiera di consacrazione episcopale, presbiterale e diaconale (lex orandi) e concludendo rilevando le condizioni di idoneità che permettono al Vescovo di chiamare i candidati. La chiamata infatti pone seri problemi alla Chiesa per il debole statuto teologico. Il modo della chiamata all’ordine sacro poggia su tre assi: la necessità della Chiesa, i criteri di discernimento e infine la chiamata interiore del soggetto. La chiamata di Mattia a ricoprire il posto di Giuda fa porre l’attenzione sulla necessità della Chiesa. Solo più tardi si arriverà a considerare la chiamata al ministero ordinato come una scelta personale ritenendolo anche una via di santificazione personale. Il Vaticano II ha fatto cadere l’attenzione sull’aspetto della santificazione personale come la ragione fondamentale del ministero che dev’essere chiaramente destinato all’edificazione della Chiesa, e non alla realizzazione di un sogno o progetto personale. Lucia Panzini in Chiamati da chi? Chiamati a che cosa? Considerazioni giuridiche sulla vocazione (137-147), pone due interrogativi come premessa al suo intervento: chi è colui che chiama e a che cosa chiama. L’autrice sostanzialmente risponde affermando che all’origine di ogni vocazione c’è il prioritario, decisivo e gratuito intervento di Dio in un incontro tra la grazia e la libertà divina e umana inserita sacramentalmente nella comunione con il Vescovo. La volontà e l’impegno sono due presupposti basilari giacché una risposta scevra da con sapevolezza non produce un atto di scelta. La scrittrice fonda la dimensione della scelta vocazionale del candidato come motivo canonicamente invalidante la recezione degli ordini sacri qualora il candidato ne fosse stato sprovvisto al momento della scelta. Anche l’esercizio stesso dei tria numera privato delle condizioni minimali psichiche renderebbe impraticabile qualsiasi esercizio. Gian Luca Pelliccioni in La vocazione al ministero e la liturgia di ordinazione: quale rapporto? (149-152), analizzando il numero 70 della Pastores Debo Vobis afferma che la celebrazione del rito liturgico di ordinazione non è un mero mezzo del “vieni e seguimi” di Gesù ma l’inizio in cui si radica e prende vita ogni istante di tutta l’esistenza ministeriale. Valter Pierini in Il sacerdozio ministeriale nella tradizione ortodossa e protestante (153-159), evidenzia che il sacerdozio ministeriale può essere colto adeguatamente soltanto nel quadro di una tipica ecclesiologia, pneumatologica, comunionale ed eucaristica. Della tradizione ortodossa evidenzia che innanzi al popolo cristiano i sacerdoti tengono il posto di Cristo nella divina liturgia, anche se non lo sono né essi né il Papa perché Cristo è ritenuto presente nell’assemblea ecclesiale attraverso la sua Parola e il suo Spirito. In merito alla tradizione protestante nega che Cristo abbia stabilito una speciale promessa di grazia (cioè un sacramento) legato all’ordinazione ministeriale.
Il vero motivo per negare la sacramentalità del ministero ordinato è quello della mancanza di un’esplicita istituzione da parte di Cristo nei Vangeli. Il ministero ordinato diventa così solo una differente e particolare forma concreta dell’esercizio di Cristo. Il sacerdozio non consiste nell’offrire il sacrificio di Cristo, compiuto e già da Lui offerto una sola volta, ma nell’offrire durante la Santa Cena sacrifici spirituali di ascolto della Parola, lode, ringraziamento e offerta di sé stessi. Questo è il motivo per cui nella tradizione protestante anche un semplice fedele è ritenuto capace in via straordinaria di presiedere il culto della Santa Cena e guidare l’offerta dei sacrifici spirituali. Emilio Rocchi in Una formazione adeguata all’oggi (161-173), si sofferma sulla visione di Persona nella teologia trinitaria intesa non solamente come individuo ma inserita nello specifico cristiano della missione dello Spirito Santo che elargisce doni gerarchici e carismatici chiamando i battezzati a essere partecipi della vita divina (cf.2Pt 1,1-11; 1Pt 1,22). Segue l’intervento conclusivo di Dario Vitali dal titolo Chiamati da chi? Chiamati a che cosa? Teologia della vocazione al ministero ordinato (177-272), che rapidamente riassume tutti i contributi rilevando che il cammino di una Chiesa è di per sé vocazionale, in essa fioriscono le scelte di vita innestate sull’unica vocazione cristiana alla sequela Christi di tipo ecclesiale, giacché ogni battezzato è costituito membro della Chiesa alla vita teologale che Dio comunica e che abilita a compiere in pienezza il comandamento dell’amore.
Il leitmotiv che segna l’originalità del volume è la metodologia ermeneutica di una costante attenzione a muovere dal rito liturgico per ritus et preces (lex orandi) per giungere alla successiva riflessione attorno alla vocazione (lex credendi), essendo la liturgia la migliore cattedra di insegnamento per cogliere e approfondire adeguatamente il valore della vocazione. Sembra che nel contributo gli sforzi siano finalizzati a rilevare che la considerazione sulla fonte liturgica è il luogo in cui trovare i dinamismi che comprovano la nascita e la veridicità di una vocazione. In pratica l’autore pare voler dire che se una riflessione non partisse da un’analisi dei testi eucologici, pur nella densità teologica e spirituale, rimarrebbe sempre inadeguata a cogliere la ricchezza, il terreno fecondo da cui nasce ogni meditazione sulla vocazione. Rimane certamente ferma la proposta di Brancozzi del rapporto circolare tra la lex orandi, la lex credendi e la lex vivendi: l’eucologia dei libri liturgici non aiuta semplicemente a leggere una ponderazione della vocazione ma diviene anche lo strumento su cui potenziare la radice del presbiterato, dell’episcopato e del laicato.
Tratto dalla rivista Lateranum n.2/2018
(http://www.pul.it)
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