La parola viva. Commento teologico alla costituzione Dei verbum
(Teologia. Saggi)EAN 9788830809536
Tra i documenti del Concilio Vaticano II, la DV, di cui si sono da poco celebrati i 40 anni con una serie di eventi e pubblicazioni, rimane un testo tra i più belli e importanti, riferimento certo per ogni teologia della rivelazione ed esempio indicativo della svolta conciliare della chiesa, tanto da determinare, secondo Congar, la fine della controriforma. Del resto il testo rappresentò anche un banco di prova, «la vera e propria cartina di tornasole di un complesso lavoro teologico che diede alla luce quella che comunemente viene riconosciuta come la novità del Vaticano II» (p. 14). La peculiarità del volume di Testaferri è nel nuovo approccio nel commento della costituzione. Convinto che la ricerca sui testi «non può fermarsi allo studio del testo finale, ma è necessario che si immerga nei meandri della formazione del testo stesso, riportando alla luce uno dopo l’altro i fondamenti che sono invece celati in profondità» (p. 7), l’a. propone un approccio “stratigrafico”-redazionale che analizza il testo tenendo conto, oltre che della redazione finale, anche dell’iter della sua formazione. Dopo un primo capitolo (“L’importanza della Dei Verbum”) introduttivo, il volume nel secondo capitolo (“Un iter lungo quanto il Concilio”) ricostruisce la storia complessa del documento a partire dallo schema De deposito fidei pure custodiendo, al De fontibus revelationis fino alle critiche espresse dall’aula nei diversi periodi dell’assise conciliare e all’approvazione solenne nella congregazione del 18 novembre 1965. Con il cap. 3 inizia il commento numero per numero. All’inizio è posto il testo italiano e latino del numero, anche se una collocazione in forma sinottica forse l’avrebbe reso più utile per cogliere la traduzione. Il commento più lungo è dedicato al n. 2, di cui si ricostruisce la storia, che rappresenta la parte davvero più ricca e indicativa della costituzione, marcando il definitivo abbandono di una concezione intellettualistica della rivelazione (ancora troppo caratterizzante la Dei Filius e il Vaticano I) e un approccio scolastico e apologetico. Commentando DV 2 l’a. scrive: «sostanzialmente questa è la novità della teologia della Dei Verbum: la rivelazione non viene descritta come un atto estrinseco con il quale due entità separate entrano miracolosamente in contatto superando un’infinita distanza, ma come l’evento comunicativo mediante il quale l’uomo viene reso capace di partecipare a Dio e diventare consorte della Trinità. Proprio qui si gioca lo specifico della rivelazione cristiana a differenza di altre concezioni religiose» (p. 64). Commentando il n. 3 l’a. precisa alcuni aspetti del rapporto tra rivelazione cosmica e rivelazione storica; egli ribadisce che non si tratta di due rivelazioni ma che la rivelazione è una sola, quella storica, la cui accoglienza può essere favorita dalla testimonianza naturale che come tale è piuttosto praeparatio. Il cristocentrismo del n. 4 supera definitivamente l’impianto apologetico manualistico del De Christo legato divino e l’estrinsecismo connesso, poiché viene presentato uno schema storicosalvifico in cui l’autenticità del Cristo è determinata dall’essere non solo il messaggero credibile ma anche il messaggio. Il rinnovamento del concetto di rivelazione non poteva non riguardare anche il superamento delle formulazioni concernenti la fede, che nello schema elaborato dalla commissione mista veniva trattata dal punto di vista formale della possibilità dell’atto di fede. In particolare l’espressione “homo se totum libere Dei committit” proposta dal card. Döpfner e confluita nel testo finale, permise una considerazione della fede come “atto umano integrale” (cf. pp. 86-87) che fece oltrepassare l’idea di fede solo come accoglienza del contenuto della rivelazione in direzione di una fede come atto personale di consegna e di corrispondenza a Dio incontrato, come “dono e assenso” (De Lubac). Anche l’a. riconosce che il n. 6 è un “colpo mal assestato” e, al pari di altri commentatori, vede in esso un passo indietro rispetto alla parte restante della costituzione (cf. p. 95). Il cap. 9 ricostruisce la storia dell’attuale cap. II della DV, il più laborioso e discusso capitolo di tutti i documenti approvati. L’assise conciliare si mostrò chiaramente contraria alla teoria delle due fonti che lo schema Tromp-Garofalo sanciva ignorando tutto il rinnovamento teologico del sec. XX, il quale aveva abbandonato il partim partim della teologia posttridentina. Così da un lato la tradizione veniva intesa in termini dinamici e vivi e allo stesso tempo si ribadiva che la Scrittura e la Tradizione sono di ordini diversi, né era sostenibile una insufficienza materiale della Scrittura. Segue così il commento dei diversi numeri: necessità, natura e oggetto della tradizione (n. 7); ecclesialità della tradizione, ovvero suo perpetuarsi nell’oggi della fede (n. 8); circa i rapporti tra tradizione e scrittura (n. 9) l’a. interpreta l’espressione “la Scrittura è locutio Dei la tradizione trasmette il verbum Dei”, sottolineando che «mentre la Scrittura coincide con il mandare per iscritto le parole proferite da Dio, la tradizione è la dinamica mediante la quale tutta la rivelazione viene trasmessa », ovvero: «mentre la Scrittura rappresenta la solidificazione del parlare di Dio, la tradizione è una modalità intrinseca della rivelazione stessa. Detto altrimenti: le due realtà stanno in rapporto reciproco come la parte e il tutto» (p. 125). Infine il n. 10 che andrebbe letto in controluce rispetto alla LG. Gli ultimi sei capitoli del volume commentano i restanti numeri della costituzione, i quali, come viene fatto notare dall’a., si pongono al momento terminale di tutte le ricerche e polemiche iniziate dalla fine del sec. XIX fino a Pio XII circa l’utilizzo per l’esegesi del metodo storico-critico e la questione della traduzione in lingua corrente del testo sacro. Il n. 11, sull’ispirazione e la verità della scrittura, fu un testo abbastanza tormentato fino alla fine perché affrontava due questioni molto “sensibili”: da un lato l’inerranza della Scrittura che, nel contesto della teologia della scuola, rendeva il testo sacro privo di qualsiasi errore, dall’altro il problema dell’autore del testo sacro che veniva fino ad allora espresso con la terminologia tomista della causa principale (Dio) e delle cause strumentali (gli agiografi), con il chiaro rischio di sminuire il ruolo di quest’ultimi come autori. Su questo secondo aspetto il Concilio rifiutò tanto l’attributo “principale” riferito a Dio quanto l’idea di strumenti, sostenendo invece che anche gli uomini sono da considerare veri autori in una perfetta sinergia con Dio. Quanto alla prima questione la decisione di inserire l’espressione “nostrae salutis causa” fu l’ultimo atto fra chi propendeva per l’uso di “veritas” senza attributi e chi invece aveva proposto di affiancare l’aggettivo “salutaris”. Anche in questo caso il Concilio registrò le diverse sensibilità che si fronteggiavano, con l’ala conservatrice e quella più aperta e sensibile alle acquisizioni che provenivano dal rinnovamento biblico e teologico di quei decenni. Le scelte circa le due questioni ora indicate si riflettono nel n. 12 sull’interpretazione della Scrittura, un’esposizione, secondo l’a., di rara intensità (cf. p. 156), condotta sul ritmo binario Dio-autore sacro a partire dalla natura composita umano-divina del testo rivelato. In sede conclusiva Testaferri riassume i tre aspetti fondamentali della DV: l’aver trattato il tema della rivelazione divina in prospettiva sacramentale; il nuovo modo di presentare la tradizione, non più in senso materiale e quantitativo ma come “vita” (la tradizione era difatti il vero problema avvertito da teologia e padri durante i lavori di redazione testuale); infine la verità, l’interpretazione della Bibbia e la comprensione della sua unità interna. Senza dubbio la scelta nel commento di un approccio centrato essenzialmente sul lavoro redazionale della DV si rivela molto utile e costituisce il pregio di questo volume la cui lettura si raccomanda per avere un’idea chiara sia del lavoro imponente di limatura, mediazione e confronto avvenuto al concilio, sia anche per entrare nel merito delle questioni che stavano a monte e che animavano non solo la ricerca teologica ma la vita della Chiesa.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 2/2009
(http://www.pul.it)
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