Le lettere pastorali raccontano
-Le loro storia, la loro composizione, il loro messaggio
(Commenti biblici)EAN 9788826317601
Potrebbe apparire fuori luogo una recensione su un saggio di natura squisitamente biblico-teologica, qual è il lavoro di C. Marcheselli-Casale, maestro affermato proprio nel commento delle Lettere Pastorali e della Lettera agli Ebrei. Infatti, è supposto il suo più noto commentario: Le Lettere Pastorali. Le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito (EDB, Bologna 1995), la cui bibliografia viene aggiornata fino al 2010.
La prima parte si attarda su un’Introduzione storico/critica, sul tempo della redazione e sul loro autore, sul carattere e profilo letterario, sui pastori destinatari, sulle loro comunità, rivelandone quei problemi che appaiono in continuità con l’oggi liturgico e salvifico della storia della Chiesa. In questa sua proposta, però, l’Autore si sporge oltre l’esegesi e propone un tracciato teologico che ha nella liturgia la chiave non solo sorgiva della sua redazione, ma anche il luogo in cui la Parola si fa evento sacramentale nella celebrazione stessa. Il filo rosso che attraversa l’opera è proprio la narrazione della comunità come in permanente assemblea liturgica sì che lo stesso Autore in forma lapidaria e sintetica può affermare: «Sta tuttavia di fatto che il valore centrale della celebrazione battesimale e pasquale (Tt 2,11-14), il ruolo centrale della Scrittura e della catechesi (2Tm 3,14-16), il momento centrale del culto liturgico (1Tm 2,1-7.8-10) sono talmente valori primari e non declassificabili, da costituire il vero movente di tutta l’ortoprassi delle Pastorali» (p. 89).
Viene messo a tema il dialogo promosso tra carisma e istituzione, in una rivisitazione del delicato passaggio tra la figura dell’apostolo e la continuità dell’autorità apostolica in coloro che apostoli non sono: episkopoi, presbyteroi e diakonoi, proprio delle Pastorali. Si tratta di una vera e propria ripresa di una comunità liturgica in azione, che dimostra come le Pastorali, se non adottano il vocabolario sacerdotale, ne visualizzano l’azione squisitamente liturgica e aprono sulla stessa presenza femminile un orizzonte diverso da quello che comunemente si insinua di una misoginia liturgico/pastorale. L’Autore propone pure una lettura liturgica delle doti che identifica la figura dei diaconi, virtù che l’Autore non interpreta in senso morale ma prima di tutto come patrimonio antropologico, solido e imprescindibile fondamento di quelle esigenze propriamente cultuali proprie dell’esercizio del ministero liturgico diaconale (p. 271; contesto pp. 269-282).
La visione della Chiesa delle Lettere Pastorali viene tutta racchiusa nella categoria biblica di «popolo di sua conquista», convocato e costituito tale dalla Parola per la lettura della Scrittura. Altrettanto centrale è la «liturgia pasquale», che potrebbe essere raccontata ma anche ripresa nell’evento della celebrazione stessa, in un connubio genetico profondo e reciproco tra la genesi della Parola e la celebrazione misterica, che permette alla comunità credente di autocomprendersi e definirsi nella sua peculiarità, quasi in una manifestazione audiovisiva della sua origine divina e della sua destinazione di novità di vita. Sembra qui di risentire la traduzione che ne fa Sacrosanctum concilium al n. 2: «La liturgia, infatti, mediante la quale, specialmente nel divino sacrificio dell’Eucaristia, “si attua l’opera della nostra redenzione”, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa».
Descrizione che non intellettualizza la liturgia, ma descrive proprio la realtà della comunità cristiana della prima ora. Infatti, la liturgia, specie la celebrazione pasquale e la celebrazione battesimale, come narrata nelle/dalle Lettere Pastorali, diviene il luogo sorgivo ed evenemenziale dell’autocomprensione ecclesiale sia nel suo essere che nel suo agire pastorale, come nella sua radice etica e testimoniale. In questo quadro, vanno sottolineate particolarmente le pagine sulla «preghiera universale», che viene squisitamente e sinteticamente riproposta nella sua origine tipicamente biblica e cristiana; vengono offerti quei criteri biblici da conoscere per un’autentica preghiera cristiana e far luce all’obiezione che la preghiera cristiana per i re e le persone in posizione eminente sia segno di un cristianesimo borghese.
La stessa preghiera per i defunti viene riproposta con densità anche ecumenica (pp. 179-180). Proprio da quest’ambito proviene un impulso specie dalle Chiese evangelico-luterane, che si rifanno a un orientamento calibrato di Lutero. Particolare fisionomia assume la continuità tra la tradizione ebraica e quella cristiana, che si specifica con quell’elemento eucaristico proprio dell’uomo biblico. Tale carattere fa pensare a un’interpretazione squisitamente eucaristica di qualche testo delle Lettere Pastorali, come 1Tm 2,1. In continuità con la preghiera del pio israelita, Paolo (e la tradizione che da lui prende il nome) sa bene che essa non è legata a nessun luogo di culto unico e preciso.
Si poteva pregare in casa e non solo al tempio e in sinagoga. Ma fuori del luogo di culto, lo sguardo veniva rivolto verso il tempio di Gerusalemme. Eb 10,25 attesta che la preghiera poteva essere svolta in casa. «La casa ebraica si trasforma in piccola sinagoga. Di qui anche la prassi cristiana della Chiesa domestica» (p. 199). Si sottolinea questa continua ricerca tra la prima fase dell’alleanza (Antico Testamento) e la nuova (Nuovo Testamento), che l’Autore persegue in ogni pagina dell’opera per una retta interpretazione della comprensione cristiana della Scrittura contro neo/marcionismi insorgenti. La traduzione che viene posta all’inizio, fedele al testo originario ma con attenzione alla lingua corrente, specie nella proposta del nuovo Messale, può costituire una fonte di confronto positivo. La cosa interessante è che viene assunto il racconto come categoria espositiva. Si tratta di registrare la narrazione di una comunità in preghiera che confessa il mistero della pietàfede di Cristo, il quale, in una sintetica professione di fede che ne assume i tratti salienti dal natale all’ascensione, è l’intera parabola di vita del Signore Gesù morto per tutti (1Tm 2,4.6) che la liturgia non solo evoca ma rende presente quale dono di Dio che educa (charis paideousa: Tt 2,12a).
Come l’Autore stesso riassume: «Non si potrà certo dire che Tt 2,11-14 sia una chiara testimonianza a favore della celebrazione della cena del Signore. Ma non lo si può neppure escludere, né si può ignorare la ricchezza degli elementi pedagogici che sospingono in quella direzione» (pp. 14-149). Sembra di risentire proprio questa presenza in ogni pagina dell’opera, che è come un vero e proprio manuale liturgico che lo Spirito consegna alla Chiesa di ogni tempo per un’attualizzazione della sua vita e per la sua vita.
Tratto da "Rivista Liturgica" n. 4/2012
(http://www.rivistaliturgica.it)