La tradizione religiosa. Saggio storico-sociologico
(Prospettive di sociol. della religione)EAN 9788826313351
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DETTAGLI DI «La tradizione religiosa. Saggio storico-sociologico»
Tipo
Libro
Titolo
La tradizione religiosa. Saggio storico-sociologico
Autore
Prandi Carlo
Editore
Borla Edizioni
EAN
9788826313351
Pagine
144
Data
2000
Peso
154 grammi
Dimensioni
12 x 21 cm
Collana
Prospettive di sociol. della religione
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Recensione di Enzo Pace della rivista Studia Patavina
Carlo Prandi ha recentemente pubblicato due lavori, agili, rigorosi e ricchi d’informazione, su due temi apparentemente diversi: il primo sulla nozione di tradizione religiosa, il secondo in tema di religione popolare. In realtà sono molteplici i collegamenti fra l’uno e l’altro. Non solo per la coerenza con cui l’autore da tempo cerca di condurre l’analisi sociologica senza abbandonare il punto di vista storico dei fenomeni studiati, ma anche perché la questione della tradizione può essere ritenuta, a giusto titolo, la matrice concettuale della nozione stessa di religione popolare. Infatti, le pratiche socio-religiose, che convenzionalmente etichettiamo come “popolari”, formano l’oggetto di conflitti, tensioni, compromessi e transazioni fra sistemi di credenza costituiti e l’ambiente sociale più vasto, molteplice e vario che, teoricamente, rappresenta la complessità della vita vissuta rispetto alla definizione delle dottrine e delle norme oggetto del sapere e del potere religioso, in generale, appannaggio degli esperti in cose sacre e delle autorità riconosciute in campo religioso. Attraverso la storia dei conflitti e delle transazioni fra sistema e ambiente della credenza complessivamente considerata e riferita agli universi simbolico-religiosi uno scienziato sociale, come Prandi ci mostrato più volte nei suoi lavori sui santuari e gli ex-voto, è possibile studiare come si costruisce storicamente un’istituzione di salvezza che della tutela e della riproduzione della tradizione fa oggetto di costante investimento simbolico e come nel costruirsi essa si rappresenta, definendo di volta i voltai confini simbolici del sistema di credenza che intende preservare da incursioni troppo invadenti e contaminanti, provenienti dall’ambiente esterno. In tal modo, studiando la religione popolare si impara a capire come pensano le istituzioni di salvezza, parafrasando un celebre titolo di un lavoro ormai classico dell’antropologa Mary Douglas.
Nel primo libro, dopo aver ricostruito la vicenda del termine stesso tradizione, dalla polemica illuministica alle nuove forme del tradizionalismo religioso contemporaneo, Prandi affronta la questione di definire la natura della tradizione. La sua tesi è suggestiva: occorre distinguere, egli afferma, la forma dai contenuti. Una cosa è parlare della tradizione come meccanismo sociale di fondazione e rifondazione diacronica della memoria collettiva, un’altra è individuare, di volta in volta, di quali contenuti essa si riempia. In altre parole, una società determinata tende ad identificarsi, accumulando un sapere simbolico che, consciamente o inconsciamente, per imposizione d’autorità o spontaneamente nelle pratiche sociali, consente agli individui di riconoscersi come parte di un tutto, che allora appare come se fosse in possesso di un marchio d origine credibile. La tradizione è il modo con cui crediamo di possedere radici comuni, simboli condivisi, appartenenze lontane. Tutto ciò, nota Prandi, è facilmente dimostrabile nel caso delle religioni etniche (prive di un fondatore ben identificato). In esse appare, infatti, naturale (in realtà, entro regole del gioco sociale ben precise, fissate e presidiate dal corpo degli specialisti del sacro) la fungibilità dei valori religiosi nei valori culturali, che caratterizzano l’ethnos di un popolo o di una civilizzazione (come nel caso dello hinduismo o della “via” dei sikh, ad esempio). Il problema, allora, non è tanto capire come si creino, si conservino o si reinventino i contenuti specifici di una determinata tradizione religiosa: l’analisi storica ci offre esempi a iosa di conflitti fra linee ermeneutiche del nucleo originario del messaggio religioso. Il conflitto diviene, spesso, in ambienti storici diversi, la grammatica generativa di linee diverse dalle quali si dipartano vere e proprie nuove ramificazioni. A volte con una moltiplicazione di tante sub-tradizioni all’interno di un sistema di credenza unitario all’origine quante sono le micro-chiese o le molte sette che si succedono nel tempo, teoricamente senza “por limite alla Provvidenza”; altre volte, con la formazione di vere e proprie tradizioni alternative, anche se nominalmente riconducibili a dun comune ceppo di credenza (come nel caso del sunnismo e dello sciismo nel mondo musulmano).
Il tema della religione popolare, di cui si parla nel secondo libro di cui stiamo rendendo conto, può essere considerato, una controprova della tesi argomentata fin qui dall’autore. Infatti, per Prandi, la religione popolare non costituisce un relitto del passato in balia delle onde del tempo. Essa, invece, appare in grado di riproporsi anche nella società della tarda modernità. L’autore lo sostiene con lucidità quando scrive:
“la rivalorizzazione della religione popolare partecipa sovente di una volontà di manifestare la condivisione di esperienze concrete comuni, ‘il vissuto insieme’, ciò che Baudrillard ha chiamato la logica simbolica, che insiste sulla relazione affettiva verso gli altri, contrapposta a quella che lo stesso autore chiama la logica del segno che sottolinea le differenze in quanto si fondano su delle relazioni astratte, staccate dal vissuto” (p. 7).
Si potrebbe affermare che la religione popolare è l’equivalente della nozione sociologica di localismo: una credenza collettiva che ha messo radici in un luogo, in un territorio, in una comunità locale appunto, credenza che perciò, vitalmente, riesce a riprodursi nel tempo e che facilmente valica i confini istituzionali che dividono il sacro dal profano, l’ordinario dallo straordinario, la tradizione autorevole dalle pratiche tradizionali, popolari appunto. Nella società moderna e della tarda modernità queste pratiche non sono più confinate all’ambiente contadino (che spesso non esiste più, grazie ai profondi rivolgimenti tecnologici e produttivi avvenuto nel lavoro dei campi) o a quelli che Gramsci chiamava i ceti subalterni (essendosi ridotti di molto i confini fra i ceti tradizionali nella moderna società dei consumi di massa, che tende a livellare i gusti e gli stili di vita di tutti coloro che ingrossano, invece, al centro la gaussiana della stratificazione sociale). Esse vengono riscoperte e appropriate da diversi attori sociali, perché, ed è questa la tesi centrale del libro di Prandi, la religione popolare non ha a più a che fare con le divisioni di classe, ma piuttosto con le funzioni che essa assolve in una situazione sociale esposta al rischio (per riprendere una categoria cara al sociologo tedesco Ulrich Beck), com’è quella della società contemporanea. Si tratta, in particolare, della “modalità antropologica di copertura delle zone in cui il rapporto tra coscienza, individuale o collettiva, e mondo o non possiede un quadro di autofondazione, oppure, essendo questo entrato in crisi, appare inadeguato a garantire l’identità socioculturale – l’ubi consistam – del gruppo” (p. 21). Perciò Prandi preferisce parlare, a questo proposito, di metapopolare per marcare una distinzione concettuale netta con la nozione corrente di religione popolare. Quest’ultima, nelle sue varie espressioni, è sempre stata ambivalente: forma di credenza non istituzionale, che spesso però si è lasciata docilmente ricondurre “all’ovile”; pressione dal basso di domande di senso e di produzione di simboli non sempre facilmente riconducibili ai sistemi di credenza codificati (basti pensare alla dialettica conflittuale fra culto dei santi e primato della Legge nell’islam ortodosso); involucro riempito di volta in volta di significati legati a culti locali preesistenti, vanamente sottoposti al processo di purificazione e convalida da parte di un’istituzione religiosa e così via.
La tensione fra tradizione alta e accumulo di pratiche tradizionali locali attraversa la storia stessa della religione popolare, come Prandi del resto descrive nei primi densi capitoli dedicati del volume. Il metapopolare è qualcosa di diverso. L’autore lo sottolinea quando accenna al fatto che spesso la ripresa di fenomeni che apparivano in disuso o in crisi (le feste o sagre di paese e di quartiere, l’aumento dei flussi di pellegrini verso i santuari, l’uso diffuso di pratiche neo-magiche spesso canalizzate dai grandi mezzi di comunicazione di massa) cela un bisogno da parte d’ampi strati della società d’identificazione e d’ancoraggio ad un passato di cui si avverte ormai il rischio della perdita irreparabile (quanto reale essa sia è un’altra cosa). Si potrebbe andare ancora più lontano nel ragionamento: il metapopolare diventa un sub-sistema di simboli che non ha più bisogno di un soggetto sociale, nel senso che esso può funzionare sia all’interno di una tradizione religiosa consolidata sia in una società complessa come un’autonoma provincia di significato, dove circolano beni simbolici che liberamente possono essere appropriati da soggetti in carne e ossa così come da gruppi e movimenti di credenti in proprio. Non veicola conflitti, ma solo moltiplica la domanda di senso nell’ambiente sociale che contorna una tradizione o un’istituzione religiose consolidate, che appaiono non sempre a loro agio nel ricondurre i fenomeni religioso-popolari moderni entro regole di compatibilità con il sistema di credenza. E soprattutto produce simboli che possono entrare liberamente in circolo nella società di massa per essere manipolati e mercificati da altre agenzie diverse da quelle, appunto, tradizionalmente insediate nel campo religioso.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Nel primo libro, dopo aver ricostruito la vicenda del termine stesso tradizione, dalla polemica illuministica alle nuove forme del tradizionalismo religioso contemporaneo, Prandi affronta la questione di definire la natura della tradizione. La sua tesi è suggestiva: occorre distinguere, egli afferma, la forma dai contenuti. Una cosa è parlare della tradizione come meccanismo sociale di fondazione e rifondazione diacronica della memoria collettiva, un’altra è individuare, di volta in volta, di quali contenuti essa si riempia. In altre parole, una società determinata tende ad identificarsi, accumulando un sapere simbolico che, consciamente o inconsciamente, per imposizione d’autorità o spontaneamente nelle pratiche sociali, consente agli individui di riconoscersi come parte di un tutto, che allora appare come se fosse in possesso di un marchio d origine credibile. La tradizione è il modo con cui crediamo di possedere radici comuni, simboli condivisi, appartenenze lontane. Tutto ciò, nota Prandi, è facilmente dimostrabile nel caso delle religioni etniche (prive di un fondatore ben identificato). In esse appare, infatti, naturale (in realtà, entro regole del gioco sociale ben precise, fissate e presidiate dal corpo degli specialisti del sacro) la fungibilità dei valori religiosi nei valori culturali, che caratterizzano l’ethnos di un popolo o di una civilizzazione (come nel caso dello hinduismo o della “via” dei sikh, ad esempio). Il problema, allora, non è tanto capire come si creino, si conservino o si reinventino i contenuti specifici di una determinata tradizione religiosa: l’analisi storica ci offre esempi a iosa di conflitti fra linee ermeneutiche del nucleo originario del messaggio religioso. Il conflitto diviene, spesso, in ambienti storici diversi, la grammatica generativa di linee diverse dalle quali si dipartano vere e proprie nuove ramificazioni. A volte con una moltiplicazione di tante sub-tradizioni all’interno di un sistema di credenza unitario all’origine quante sono le micro-chiese o le molte sette che si succedono nel tempo, teoricamente senza “por limite alla Provvidenza”; altre volte, con la formazione di vere e proprie tradizioni alternative, anche se nominalmente riconducibili a dun comune ceppo di credenza (come nel caso del sunnismo e dello sciismo nel mondo musulmano).
Il tema della religione popolare, di cui si parla nel secondo libro di cui stiamo rendendo conto, può essere considerato, una controprova della tesi argomentata fin qui dall’autore. Infatti, per Prandi, la religione popolare non costituisce un relitto del passato in balia delle onde del tempo. Essa, invece, appare in grado di riproporsi anche nella società della tarda modernità. L’autore lo sostiene con lucidità quando scrive:
“la rivalorizzazione della religione popolare partecipa sovente di una volontà di manifestare la condivisione di esperienze concrete comuni, ‘il vissuto insieme’, ciò che Baudrillard ha chiamato la logica simbolica, che insiste sulla relazione affettiva verso gli altri, contrapposta a quella che lo stesso autore chiama la logica del segno che sottolinea le differenze in quanto si fondano su delle relazioni astratte, staccate dal vissuto” (p. 7).
Si potrebbe affermare che la religione popolare è l’equivalente della nozione sociologica di localismo: una credenza collettiva che ha messo radici in un luogo, in un territorio, in una comunità locale appunto, credenza che perciò, vitalmente, riesce a riprodursi nel tempo e che facilmente valica i confini istituzionali che dividono il sacro dal profano, l’ordinario dallo straordinario, la tradizione autorevole dalle pratiche tradizionali, popolari appunto. Nella società moderna e della tarda modernità queste pratiche non sono più confinate all’ambiente contadino (che spesso non esiste più, grazie ai profondi rivolgimenti tecnologici e produttivi avvenuto nel lavoro dei campi) o a quelli che Gramsci chiamava i ceti subalterni (essendosi ridotti di molto i confini fra i ceti tradizionali nella moderna società dei consumi di massa, che tende a livellare i gusti e gli stili di vita di tutti coloro che ingrossano, invece, al centro la gaussiana della stratificazione sociale). Esse vengono riscoperte e appropriate da diversi attori sociali, perché, ed è questa la tesi centrale del libro di Prandi, la religione popolare non ha a più a che fare con le divisioni di classe, ma piuttosto con le funzioni che essa assolve in una situazione sociale esposta al rischio (per riprendere una categoria cara al sociologo tedesco Ulrich Beck), com’è quella della società contemporanea. Si tratta, in particolare, della “modalità antropologica di copertura delle zone in cui il rapporto tra coscienza, individuale o collettiva, e mondo o non possiede un quadro di autofondazione, oppure, essendo questo entrato in crisi, appare inadeguato a garantire l’identità socioculturale – l’ubi consistam – del gruppo” (p. 21). Perciò Prandi preferisce parlare, a questo proposito, di metapopolare per marcare una distinzione concettuale netta con la nozione corrente di religione popolare. Quest’ultima, nelle sue varie espressioni, è sempre stata ambivalente: forma di credenza non istituzionale, che spesso però si è lasciata docilmente ricondurre “all’ovile”; pressione dal basso di domande di senso e di produzione di simboli non sempre facilmente riconducibili ai sistemi di credenza codificati (basti pensare alla dialettica conflittuale fra culto dei santi e primato della Legge nell’islam ortodosso); involucro riempito di volta in volta di significati legati a culti locali preesistenti, vanamente sottoposti al processo di purificazione e convalida da parte di un’istituzione religiosa e così via.
La tensione fra tradizione alta e accumulo di pratiche tradizionali locali attraversa la storia stessa della religione popolare, come Prandi del resto descrive nei primi densi capitoli dedicati del volume. Il metapopolare è qualcosa di diverso. L’autore lo sottolinea quando accenna al fatto che spesso la ripresa di fenomeni che apparivano in disuso o in crisi (le feste o sagre di paese e di quartiere, l’aumento dei flussi di pellegrini verso i santuari, l’uso diffuso di pratiche neo-magiche spesso canalizzate dai grandi mezzi di comunicazione di massa) cela un bisogno da parte d’ampi strati della società d’identificazione e d’ancoraggio ad un passato di cui si avverte ormai il rischio della perdita irreparabile (quanto reale essa sia è un’altra cosa). Si potrebbe andare ancora più lontano nel ragionamento: il metapopolare diventa un sub-sistema di simboli che non ha più bisogno di un soggetto sociale, nel senso che esso può funzionare sia all’interno di una tradizione religiosa consolidata sia in una società complessa come un’autonoma provincia di significato, dove circolano beni simbolici che liberamente possono essere appropriati da soggetti in carne e ossa così come da gruppi e movimenti di credenti in proprio. Non veicola conflitti, ma solo moltiplica la domanda di senso nell’ambiente sociale che contorna una tradizione o un’istituzione religiose consolidate, che appaiono non sempre a loro agio nel ricondurre i fenomeni religioso-popolari moderni entro regole di compatibilità con il sistema di credenza. E soprattutto produce simboli che possono entrare liberamente in circolo nella società di massa per essere manipolati e mercificati da altre agenzie diverse da quelle, appunto, tradizionalmente insediate nel campo religioso.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2003, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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