Saggi di architettura e di iconografia dello spazio sacro
EAN 9788825024326
È un volume pesante: di peso (la grammatura della carta e la sua stessa superficie lucida lo appesantiscono molto), ma anche per la concentrazione di una varietà molteplice e differenziata di contributi tutti dell’Autore, docente di Teologia della liturgia presso l’Istituto di liturgia pastorale «S. Giustina» di Padova. E l’ultima specificità di peso è anche per le ben due introduzioni (di G. Santi e A.R. Burelli) e una postfazione (di A. Cornoldi)!
Il digest di questa pubblicazione si compone di tre parti: saggi diversi di riflessioni sull’architettura e sul’iconografia dello spazio sacro (pp. 23-373), l’esposizione dei progetti di nuove chiese alle quali l’Autore ha «collaborato in qualità di liturgista» (pp. 374-422) e alcune esemplificazioni di «adeguamento di spazi sacri» (pp. 423-467). La preoccupazione sul versante epistemologico dei linguaggi del rito e la particolare attenzione alla dimensione estetica dell’esperienza religiosa emergono tutte nella trama della scrittura e anche nella sua sintassi; si «tramano » periodi ipotattici complicati, che si sforzano di essere complessi e di dare almeno significati alla scrittura. Un esempio: il saggio che dà inizio alla prima parte ha per titolo: Il corpo come spazio teologico incomincia così: «Il titolo legge il corpo sotto il segno della spazialità, che diventa cifra del mistero dell’incarnazione. L’uomo è creato a immagine di Dio in quanto ha un corpo, ovvero perché è esposto sulla differenza» (p. 23). E poi paragrafi come «il naturalismo scientifico del corpo», «il naturalismo liberalizzato», «il chiasmo toccante-toccato nella fenomenologia trascendentale del corpo proprio di Husserl e di Merleau-Ponty» e poi «incarnazione come autodonazione » e «teologia della creazione e dell’incarnazione».
E ancora il cap. II: Corpo, spazio, architettura e religione, e così di seguito. Sarebbe interessante un dibattito sul cap. VII (Eterotopia dello spazio sacro) soprattutto quando l’Autore precisa l’adottato termine di «eterotopia», nella versione di M. Foucault, come «antiutopia» e aggiunge: «Mentre l’utopia è una speranza [forse non ancora] senza luogo, l’eterotopia è una dis-locazione in un altro gioco linguistico, un’eccedenza di realizzazione, un luogo dell’attraversamento, una soglia, uno spazio di crisi e di condensazione di esperienza. Lo spazio sacro è caratterizzato da questo taglio che rende l’abitare una disabitazione e il luogo un non-luogo, anzi un luogo diverso eccedente di realtà, dove l’uomo può fare un’esperienza dell’indomabile, dell’altro che si sottrarre, che ama nascondersi» (p. 113).
Di che cosa stiamo parlando? Stupisce l’assenza di citazioni di altri colleghi liturgisti; stupisce l’assenza di citazioni bibliche e liturgiche; stupisce l’eccesso di epistemologie liturgistiche… È una scrittura che lascia in un deserto senza nemmeno il ricordo delle esperienze di una terra fertile, con un ombrello di te stesso per ripararti dalla pioggia (più che dal sole)! Sono pagine dense di parole che saltellano alla ricerca di un pudore e di un’architettura, di una fisiologia della spiegazione che pur ospita le anatomie della liturgia, di una casa in cui abitare in comunione tra di loro. È una scrittura che si fa teatro di se stessa ma che poco (o forse ne siamo analfabeti) aggiunge, amplifica, addensa, penetra il mistero di cui la liturgia è esperienza condivisa. Espressioni di una semplificazione che rivelano altro e che meriterebbe discutere: «La comunione che il rito permette con l’evento fondante attraverso il meccanismo della ripetizione, trova un ulteriore spazio di indagine sul versante semiogenetico del Codice scritturistico» (pp. 199-200). Ma anche espressioni passeggere e superficiali come «l’attualizzazione omiletica è la trascrizione della sacra Scrittura nell’oggi della Chiesa ed è essa stessa parola di Dio» (p. 201). Lo stupore non insorge dal non ritrovare la pedanteria che affligge talvolta alcuni liturgisti di ieri e di oggi… ma nella sorpresa che qualcosa si vuole dire senza farsi intendere, immediatamente, semplicemente, «liturgicamente».
Di per sé la pubblicazione non intende essere un saggio di liturgia ma di architettura e di iconografia dello spazio sacro, quindi una fenomenologia di quest’ultimo? Così come si può evincere anche dalle dense 13 pagine di bibliografia (di cui molta non citata nel testo). Un libro di fenomenologie ed epistemologie del sacro nelle sue espressioni comunicative spaziali (il tempo non è mai considerato, se non come anagrafico e cronologico). Eppure poi nel cap. VIII lo spazio architettonico e lo spazio sacro sono nella performance liturgica. E il cap. XI è quello dal classico e semplificato titolo Arte e liturgia (pp. 183ss), capitolo che si apre con tre citazioni filosofiche (J. Lacan, F. Bacon e F. Nietzsche), dove si parla del «confronto tra arte e liturgia che fa esplodere la “nuova questione liturgica” riconducibile al problema del rito nella liturgia» (p. 188). E poi della «fenomenologia della liturgia come ripetizione rituale» (quest’ultimo paragrafo si apre con un’ammissione ritenuta ovvia: «Nessuno più oggi contesta che la celebrazione liturgica sia rito cristiano», p. 192).
Chi non ha mai letto un libro di liturgia o meglio ancora non ha mai fatto un’esperienza liturgica (che non equivale a non essere mai andato in chiesa, almeno per… un funerale!), nel farsi strada faticosamente tra queste pagine (nel caso ne fosse costretto) potrà immaginarsi la liturgia come una sinassi di forme, di pensieri, di riflessioni, di fenomenologie… non certo di mistagogie. Ma la liturgia può essere anche quella intesa dall’Autore, purché dichiari che sono riflessioni fenomenologiche, epistemologiche sul sacro e sul liturgico come spazio e iconografia del sacro. E non ci si induca a intendere una portata di menu come se fosse una tavola imbandita perché gli ospiti sono arrivati per mangiare insieme parlando e non per parlare a digiuno. Queste pagine sono roboanti di quel vetero linguaggio di accademia filosofica che esibisce il proprio dire e complica il quid o il quis di cui avremo dovuto onorarci di esser esegeti o almeno narratori.
Peccato che coinvolge quanto di architettonico e di iconografico si intende relazionabile al sacro e, per esemplificazione occasionale, al liturgico. Comunque, quanto scritto a recensione critica di questa voluminosa pubblicazione non ha alcun valore nel caso l’Autore avesse voluto scrivere un libro di fenomenologia della liturgia. Mentre l’abbiamo recensito come se fosse un libro di/sulla liturgia. In questo caso – per parafrasare un linguaggio dell’Autore – il nostro corpo, contro o in conformità a ogni naturalismo scientifico o a quello liberalizzato, si propone come mediazione a un’immediata espiazione, come punto zero per la correlazione non avvertita tra la liturgia e queste pagine.
Tratto da "Rivista Liturgica" n. 4/2012
(http://www.rivistaliturgica.it)
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