Ereditare in povertà. Le successioni a favore dei frati minori e la scienza giuridica nell'età avignonese (1309-1376)
EAN 9788824318020
L’interesse verso i meccanismi ideati e praticati dai mendicanti francescani per seguire san Francesco sulla via della povertà gode di una notevole fortuna bibliografica, della quale possiamo avere una prima contezza negli studi di Giacomo Todeschini (Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna 2004). Dal canto suo, ancor più recentemente, Paolo Prodi aveva a dipingere la «sistematizzazione istituzionale» della povertà nei suoi aspetti costruttivi, per cui «questa controversia [sulla povertà], ha certamente grandi riflessi sul piano dottrinale, nelle discussioni universitarie con l’affinamento della distinzione dei concetti di dominio, proprietà e uso delle cose» (Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna 2009, p. 60). Qui l’attenzione si dirige principalmente all’impatto sociale nella seconda metà del Duecento, mediante il contributo al tema del mercato, tema che sarebbe stato «captato particolarmente dai francescani sia per la loro partecipazione alla vita cittadina, sia per l’impostazione di separare il diritto di proprietà dall’uso delle cose, sia per la loro attenzione alla prassi concreta e quotidiana di vita più che alle teorie astratte» (ivi, p. 61).
Il volume qui recensito si pone sul versante tecnico-giuridico, si direbbe ad intra, nello studio del fenomeno successorio a favore dei Minori. Ciò non toglie che l’analisi dei temi classici della povertà, della distinzione tra proprietà e uso delle cose, della costruzione di meccanismi che preservino un’identità originaria, non faccia trasparire le esigenze vitali derivanti dalla dialettica propria del già e non ancora.
I testi ideali fondativi ci sono noti: cf. la voce pauvreté all’indice analitico in François d’Assise, Écrits, ed. T. Desbonnets, J.-F. Godet, T. Matura, D. Vorreux, Parigi 1997 (SC, 285). Giovanni Tarello ricostruì gli sviluppi successivi, dovuti a interventi papali ed elaborazioni dottrinali, che conducevano a concepire la povertà come assenza di proprietà (Profili giuridici della questione della povertà nel Francescanesimo prima di Ockham, Milano 1964); e di Bonaventura basti qui citare quel passo dell’Apologia pauperum dove, commentando la bolla Quo elongati di Gregorio IX (in Bullarium Franciscanum, ed. J.H. Sbaraleae, I, pp. 68-70), egli nota la sapienza del papa che «proprietatem separavit ab usu, illam sibi et Ecclesiae retinens, hunc autem Fratrum necessitati concedens, sancte quidem, sapienter et pie» (XI, 6, in Opere di san Bonaventura, ed. C. Del Zotto, XIV/2, p. 368). Peraltro il contesto generale della bolla gregoriana, la sua datazione (28 settembre 1230) e il suo contenuto reale, ci sono noti da Hefele-Leclercq (VI/II, p. 700), mentre nel 1961 H. Grundmann ne proponeva e ne commentava un testo purificato «mendis, quibusdam non levibus» (H. Grundmann, Die Bulle «Quo elongati» Papst Gregors IX, in «Archivum Franciscanum Historicum», 54 [1961], pp. 3-25).
In effetti, con la Quo elongati la proprietà rimaneva nei donatori (ivi; anche P. Etzi, Iuridica franciscana, Padova 2005, p. 68). Innocenzo IV, con la bolla Ordinem vestrum (14 novembre 1245, in Bullarium Franciscanum, cit., pp. 400-402) compirà poi il passo ulteriore: i beni spettano alla Sede Apostolica, salvo quelli eccepiti dai donatori «expresse» (ivi, p. 401; Etzi, Iuridica franciscana, cit., p. 70). Dopo tre decenni Nicolò III promulgherà la Exiit qui seminat (14 agosto 1279, in VI,3,5,12 [Friedberg II, coll. 1109-1121]; e anche in Bullarium Franciscanum, ed. cit., III, pp. 404-417), che stabilizzava la distinzione tra proprietà, possesso, usufrutto, diritto d’uso e uso semplice (Etzi, Iuridica franciscana, cit., p. 71); di questa decretale, la successiva Exivi de paradiso viene definita in Hefele-Leclercq come «complemento» (loc. cit., p. 701).
Il volume di Andrea Bartocci si compone di due parti, di cui la prima dedicata all’inquadramento storico delle fonti, autoritative e dottrinali (pp. 3-183). L’attenzione alla Exivi de paradiso – fissata in concistoro segreto il 5 maggio 1312 e promulgata il giorno dopo (Hefele-Leclercq, VI/II, p. 699), da Clemente V, tra le costituzioni del concilio di Vienne (COD, ed. 1991, pp. 392-401 e in Bullarium Franciscanum, ed. C. Eubel, V, pp. 80-86) –, ai suoi prodromi, alla sua pubblicazione nelle Clementine (Clem. 1,5,11, in Friedberg II, coll. 1193-1200) è naturale. A questa si aggiunge l’interessante considerazione del fenomeno della circolazione separata della bolla (pp. 60-68). Di cotesta circolazione si offre un censimento che, forse, è anche testimonianza di ciò che ecclesiologicamente si chiama receptio. Tuttavia la successiva esposizione sulle Clementine e sui relativi commenti (capitolo quarto, pp. 69-94) è la storia di un sostanziale silenzio sulla bolla Exivi, già evidenziata (p. 71, nota 9) e qui confermata.
I capitoli quinto, sesto e settimo spostano l’attenzione su tre scritti relativi alla capacità successoria dei Minori, come singoli e come universi. Del Liber minoricarum decisionum di Bartolo, già fatto oggetto di analisi da Arturo Carlo Jemolo (Scritti vari di storia religiosa e civile, a cura di F. Margiotta Broglio, Milano 1965, pp. 31-74), viene giustamente sottolineata la fortuna (pp. 95ss.) e la sua dottrina viene ripresa dall’Autore nel capitolo primo della seconda parte (pp. 187ss.). Non inutilmente, in appendice, vengono trascritte le Additiones al Liber minoritarum decisionum di Giovanni Calderini (pp. 387-389).
Il sesto capitolo si concentra sullo scritto di Giovanni da Legnano. Di questo capitolo va segnalata la funzione d’aggiornamento informativo rispetto alla data di comparizione della meritoria edizione di Francesco Margiotta Broglio (in Studia Gratiana, XIV [1967], pp. 396-436).
Infine il capitolo settimo tratta de «l’opuscolo di Bonifacio Ammannati», mettendone in rilievo le divergenze dottrinali, rispetto a Bartolo, circa l’incapacità successoria derivante dalla Exivi de paradiso (pp. 172ss.).
La seconda parte del volume (pp. 187-372), composta di sei capitoli, entra nel vivo della disamina dottrinale delle singole quaestiones attinenti allo stato personale-patrimoniale dei Minori, nell’ambito della capacità di succedere mortis causa. Una scorsa ai paragrafi fa percepire una chiara sistematica in relazione a temi che poi sarebbero diventati classici nella letteratura successiva (cfr. ancora A.C. Jemolo, Saggio su l’ordinamento patrimoniale dei Minori osservanti nei secoli XVI-XVII, in Scritti vari, cit., pp. 77-134). Forse, leggere il presente volume alla luce di una qualche elaborazione post-tridentina potrebbe contribuire a coglierne la densità nell’esame delle questioni tecniche, dietro le quali stanno esigenze spirituali successivamente sviluppate come tali. Se, al pari di Jemolo, prendiamo in mano un trattato settecentesco (di ambito cappuccino) come le Lezioni sopra la Regola dei frati minori di san Francesco esposte... da fra’ Bernardo da Bologna, Venezia 1753, troveremo una lezione (la XXII) dedicata alle eredità e ai legati. Qui l’incapacità dei Minori circa l’eredità è assoluta, né è sufficiente, per ovviarla, il ricorrere al trasferimento della proprietà alla Sede Apostolica, «altrimenti non vi sarà cosa in tal maniera, che non possa essere lecita ai Frati, nel mentre che pur professano povertà altissima». Ragion per cui «se le eredità sono in ogni modo contrarie alla Regola... quel dominio trasferito nella Santa Sede servirà bensì di motivo per servirsi dei privilegi, ma non già per osservar bene la Regola». L’autorità di Clemente V viene invocata per ricordare che «non occorre studiare ripieghi o frodi... per farsi colare in mano quasi copertamente l’eredità» (p. 308).
Sulla capacità a succedere delle chiese o delle sagrestie (da Andrea Bartocci esaminata alle pp. 228-235), le Lezioni sopra la Regola, cit., hanno reminiscenza della «largiore» posizione bartoliana: è questo «ricoperto pretesto» per ereditare nella sostanza salvando la forma? Sì lo è, perché la posizione di Bartolo «dice e pruova di troppo» (ivi). Egualmente debbono essere condannate le «eredità coperte», ossia quelle in cui il testatore dispone perché si venda e il prezzo sia conferito ai frati per le proprie necessità. Ma «anche qui vi sono di quelli, i quali con Bartolo vi condiscendono» (ivi, p. 309). Esclusi i fedecommessi (da Bartocci esaminati alle pp. 222-224) neppure sono ammissibili le deroghe bartoliane: «...abbia pure Bartolo nelle Leggi la stima come si vuole, che certo in questo ha meglio intesa e spiegata la Regola Clemente V» (Lezioni sopra la Regola, cit., p. 310).
Nel volume di Andrea Bartocci la trattazione dei legati a favore dei Minori risulta tecnicamente appagante (pp. 247-293). Le Lezioni sopra la Regola, cit., c’informeranno dettagliatamente del meccanismo, prima dovuto all’uso, della «protesta circa i legati», da farsi all’erede o all’esecutore. Anzi l’uso sarà canonizzato dalla Curia romana con una formula approvata: «...Si tamen Haeres aut Executor testamentarius dictam quantitatem per modum simplicis elemosynae, omni obligatione dominio et proprietate penitus cessantibus, nobis libere conferre voluerit, illam simpliciter accipiemus, et piae Testatoris voluntati, quantum in nobis fuerit, plene et fideliter satisfaciemus» (ivi, p. 320). Ma la raccomandazione spirituale va in un altro senso: si schivino i legati, si accettino quando non si può fare diversamente, «ma non si facciano l’ordinario capitale su cui si mantengano regolarmente i Conventi e vivano i Frati» (ivi, pp. 321-322).
L’esposizione circa i procuratori dei Minori occupa l’Autore alle pagine 295-330. L’istituto, così tipico ma anche così controverso, fu oggetto di quello che viene definito da Bartocci «stillicidio dei privilegi» da parte di Roma (p. 298). Né, sulla base dell’elaborazione del Tarello, è ingiustificata l’osservazione per cui «la contropartita di questi vantaggi, come fu subito evidente, era costituita però dalla circostanza che la Santa Sede avrebbe potuto appropriarsi dei beni francescani in ogni momento, escludendo l’Ordine, giacché l’uso, non essendo un diritto, non è tutelato ed è rimesso all’arbitrio del proprietario» (p. 301). Attenzione specifica meriterebbe poi la figura dei «sindici o depositari del convento» (pp. 326-330). I dubbi su funzioni e legittimità originaria di questi persisteranno ben dopo Trento; ne abbiamo testimonianza nella controversistica successiva. In pieno Settecento si discuterà De peculiari pecuniae fratrum minorum observantium apud syndicos deposito (Anonimo, Venezia 1750), dove si contesterà la tesi onde il Minore possa, attraverso il sindico, disporre di denaro separato dalla cassa comune. Lo impedisce, ancora una volta, un’osservanza della Regola «pure et sine glossa» (ivi, p. 94).
Il volume si chiude con tre appendici riproducenti i testi di Giovanni Calderini, Giovanni da Legnano e Bonifacio Ammannati nonché con una quarta appendice enumerante i manoscritti del Liber di Bartolo (pp. 387-481).
L’opera di Andrea Bartocci si segnala per la capacità di trattare con distaccata acribia un tema tutt’interno all’ordinamento canonico che, proprio perché tale, di questo ordinamento riflette peculiarità intrinseche e forse irrinunciabili. Bartocci ne dà testimonianza, nelle conclusioni, là dove nota come «le soluzioni prospettate nel Liber confermano la convinzione espressa da Bartolo per la quale i principi della teologia morale e dell’etica devono informare l’interpretazione delle norme giuridiche» (p. 374).
Leggendone il testo, più volte ci si è sforzati di identificare la categoria canonica di appartenenza di una costruzione nella quale foro esterno e foro interno (qui inteso al modo tridentino di foro della coscienza) si compenetrano in una disciplina unitaria, valevole giuridicamente in una societas unitaria non ancora secolarizzata. Il rapporto analogico, se non di identità, con la fictio canonica è sembrato evidente. Ben consapevolmente il Dictionnaire de droit canonique, nel 1953, riteneva di dedicare un’apposita voce alla fictio canonica, e il suo autore, Raoul Naz, insegnava come «les dispositions légales fondées sur una fiction sont justes, parce qu’elles sont inspirées par l’équité naturelle. Elles obligent donc toujours au for interne et au for externe» (vol. V, col. 846). Un canonista più recente, a sua volta, aveva modo di occuparsi da vicino dell’«applicazione del canone “finzionale” al discorso canonico», in una valutazione profondamente rispettosa delle «dinamiche del “come se” tra diritto sacro e diritto profano» (cf. E. Dieni, Finzioni canoniche, Milano 2004, spec. pp. 183-344).
La secolarizzazione dell’esperienza giuridica e l’estromissione dal diritto statuale di limitazioni che incidano sulla capacità patrimoniale del civis-christifidelis per motivi squisitamente confessionali come quello della professione – oltre che la concezione tipicamente napoleonica della natura indivisibile della proprietà –, hanno inevitabilmente favorito il superamento di meccanismi che pur rivelavano una significativa tensione tra storia e metastoria.
Tratto dalla Rivista "Il Santo. Rivista francescana di storia dottrina arte" L, 2010, fasc. 1
(http://www.centrostudiantoniani.it)
Con Ereditare in povertà, Andrea Bartocci si presenta come uno dei giovani più promettenti nel settore storico-giuridico ad indirizzo medievistico: un ambito disciplinare che, già fiorente in Italia fino ad alcuni decenni or sono, oggi sembra purtroppo restringersi ad un manipolo di cultori. I motivi di questa rarefazione vanno cercati in più di una direzione, a cominciare dal declino degli studi classici e dalla tendenza a ritenere che, nelle facoltà di Giurisprudenza, la sopravvivenza degli studi storico-giuridici sia meglio tutelata proponendo ricerche più vicine all’età nostra, che mostrino gli antecedenti prossimi del diritto vigente. Ora, non può essere certo questa la sede per dilungarsi su un dibattito già avviato all’interno della disciplina con la consueta varietà di opinioni a favore di una tesi o dell’altra.
È mio fermo convincimento, tuttavia, che ove siano proposti temi di alto rilievo storiografico, sorretti da un metodo di ricerca adeguato, la distanza nel tempo degli argomenti trattati non abbia alcun peso. Resistono le opere dell’antichità classica e medievale, mentre il giornale di ieri è già carta da buttare. Bartocci ci propone dunque una estesa, documentata riflessione su un dibattito lontano, intorno all’osservanza della povertà imposta da San Francesco ai suoi seguaci ma presto mitigata all’interno di un ordine religioso, i Minori, che andò clericalizzandosi sotto la spinta di molteplici fattori. Di qui, com’è noto, si originò la dura contesa tra Spirituali e Conventuali sulla quale furono chiamati a pronunciarsi i pontefici – prima romani, poi avignonesi – e i grandi giuristi della scuola del commento, Bartolo da Sassoferrato su tutti. Ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare che il dibattito, allora sollevato, si configuri per noi, oggi, come oggetto di mera erudizione, bega clericale ormai sopita per sempre. Le cose stanno, viceversa, in ben altra maniera. Studi recenti – puntualmente riferiti dall’autore – hanno posto in risalto le decisive ripercussioni di quel grande confronto ideale, dal quale affiorarono convinzioni, progetti, indirizzi scientifici e politici dei quali è ancora debitrice l’età moderna.
Concetti quali quelli di diritto soggettivo e di persona giuridica cominciarono a prendere forma sotto la spinta del pensiero nominalista; altri – quelli di libertà, di sovranità, di proprietà, di mandato – furono riplasmati e nuovamente configurati nell’urgenza di fermenti spirituali e materiali non prima avvertibili. Nel vortice delle accuse e delle recriminazioni si sollevano altri dubbi, altri gravissimi problemi: la revocabilità delle decretali emanate da precedenti pontefici e addirittura l’accusa di eresia rivolta al vicario di Cristo. Innanzi alle stragi apportate dalla peste nera muta poi, in Italia e in Europa, la percezione di sé e della morte, del proprio destino terreno ed ultraterreno: elementi che si riflettono in una miriade di testamenti dettati a favore dell’ordine minoritico, ma di incertissima efficacia. Su tali spinose questioni sono chiamati a pronunciarsi i giuristi. Bartocci ne esamina la produzione scientifica, consultando una moltitudine di opere per lo più inedite.
A seguito di questo sforzo – davvero impressionante per estensione ed acutezza di indagine – egli ci propone un quadro attendibile delle tendenze e degli orientamenti dottrinali diffusi tra i commentatori trecenteschi. Dall’esame degli scritti di Giovanni d’Andrea, Giovanni Calderini, Bartolo da Sassoferrato, Federico Petrucci, Giovanni da Legnano, Bonifacio Ammannati – per limitarci solo ai maggiori – il giovane studioso romano riesce nell’intento di scolpire l’orizzonte culturale dei singoli interpreti: quasi una anticipazione di quella che potrebbe divenire, in futuro, una storia della letteratura giuridica finalmente orientata a restituirci la personalità intellettuale e morale di tanti giuristi per lo più noti (nel migliore dei casi) solo ‘dall’esterno’, in sintetiche – seppur preziose – schede biografiche e bio-bibliografiche. Sotto questo profilo è di tutta evidenza il ritardo accumulato dalla storia giuridica rispetto ad altre discipline: penso, in particolare, alla storia della letteratura in prosa o in versi, della filosofia, delle arti figurative, laddove – per esempio – riesce da tempo agevole distinguere le posizioni di Dante rispetto a quelle di Petrarca o Boccaccio, di Tommaso d’Aquino, per un verso, da quelle di Bonaventura da Bagnoregio per l’altro, l’ispirazione di Cimabue a confronto di quella che guidò la mano di Giotto. Certo, la mole delle opere prodotte dai giuristi medievali e la loro imperfetta conoscenza ci prospettano ancora lontano un tale obiettivo: ma la direzione intrapresa da Bartocci è quella giusta.
A questo proposito è possibile evidenziare già un dato di notevole interesse, laddove si legge, nel testo, a p. 374: «le soluzioni prospettate nel Liber confermano la convinzione espressa da Bartolo per il quale i principi della teologia morale e dell’etica debbono informare l’interpretazione delle norme giuridiche». È d’altronde evidente al lettore che ognuno dei giuristi presi in esame – tutti ugualmente preoccupati delle sorti dell’ordine minoritico e della Chiesa – sono guidati in limine da un progetto di riforma che, ponendo fine alle laceranti contese, contemperi le esigenze dello spirito francescano da un lato, le mutate esigenze dei tempi e le nuove incombenze istituzionali dall’altro. Le proposte inevitabilmente divergono, guidando di conseguenza la scelta delle norme giuridiche (canonistiche e civilistiche) invocate a supporto delle proprie tesi.
Il dato di partenza non è pertanto rappresentato dal diritto positivo, ma da un elemento metagiuridico, da aspirazioni e convincimenti irrinunciabili. Se lo storico del diritto vuole essere innanzitutto uno storico, non può rifuggire, dunque, dal cimentarsi con la complessità della vita, cui vanamente si tenta – da alcuni – di sovrapporre opzioni schematiche, desunte dagli ordinamenti disciplinari dell’accademia. Fare storia costringe sempre, dal più al meno, sfidando gli inevitabili rischi, ad aggirarsi su terre di confine: ciò che Bartocci dimostra di sapere fare con intelligenza e misura. Allo stesso modo, il giovane studioso è stato capace di sfuggire a quella fallace alternativa che oppone filologia e ricostruzione storica, quasi che l’una via precluda il percorso all’altra. Se è vero – ciò di cui sono fermamente persuaso – che la storia del diritto si risolve sempre, in ultima analisi, in storia del pensiero (perché anche il dato materiale perviene a sollecitare una risposta che scaturisce dallo spirito) erudizione e filologia costituiscono strumenti essenziali, imprescindibili a stabilire la verità dei fatti, la genesi delle idee, la loro diffusione in tempi ed ambiti spaziali ben determinati. Anche di questo – ed è merito non piccolo – Bartocci ha saputo dare una prova convincente.
Tratto dalla rivista "Studia et Documenta" n. 1/2010
(http://e-lup.com)