Il Dio dei mafiosi
(Attualità e storia)EAN 9788821565021
Il nazismo è nato e si è sviluppato all’interno di quel mondo che è stato sempre considerato cristiano. Certo, il nazismo o le ideologie simili a esso sono l’antitesi della visione cristiana della storia e dell’uomo. Tuttavia non possiamo sottrarci, nella nostra riflessione, dal dover constatare che, comunque, queste tragiche ideologie hanno trovato terreno fertile proprio là dove la presenza della Chiesa e dei cristiani era piuttosto rilevante». Se la genesi del nazismo in terra cristiana ha posto e pone interrogativi scomodi, possiamo evitare analoghe domande a proposito delle mafie? Questo libro vuole rispondere, essenzialmente, a una questione: come è possibile che una società cristiana – a stragrande maggioranza cattolica – partorisca Cosa nostra e stidde, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita? E le partorisca non come aborti mostruosi irriconoscibili, ma come associazioni in cui «tutti hanno una Bibbia. E tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino. O un’immagine di un Cristo, di una Madonna. Sono religiosissimi. E ostentano la loro devozione»? «“Tutti noi uomini d’onore pensiamo di essere cattolici, Cosa nostra si vuole farla risalire all’apostolo Pietro”, spiega il pentito Leonardo Messina. Benedetto Santapaola è il capo della famiglia di Catania, studia presso l’Istituto salesiano di San Gregorio, frequenta l’oratorio di Santa Maria delle Salette, sogna di fare il sacerdote e poi sceglie di fare l’assassino. Calogero Vizzini, il patriarca di Cosa nostra, quando nel 1943 gli americani sbarcano in Sicilia ha due fratelli preti: don Giovanni e don Salvatore. E un cugino parroco, don Angelo ». Nonché uno zio vescovo di Muro Lucano e un cugino vescovo di Noto. È intuitivo prevedere che un interrogativo del genere ne coinvolge, a valanga, molti altri. Impegnativi e impertinenti. E questo potrebbe spiegare perché lo si è posto assai raramente. Infatti, proprio in analogia con quanto avvenuto a proposito del nazismo, tentare di rispondervi costringe a mettere spietatamente a confronto la teologia delle Chiese cristiane e la teologia delle organizzazioni criminali: sono distanti, anzi inconciliabili, o in molti punti si rispecchiano in maniera preoccupante? Nel caso, poi, che si scoprissero effettive somiglianze fra le due, si profilerebbe un’ipotesi sconcertante: nel Meridione italiano si è andata configurando, almeno dal XVI al XXI secolo, una teologia che ha – se non promosso – almeno reso possibile un fenomeno criminale di così vasta portata e di così lunga durata. E, a questo punto, sarebbe moralmente e intellettualmente doveroso mettere in discussione, con coraggio, tale teologia tuttora dominante nel cattolicesimo mediterraneo. Ma qui si trova il nodo davvero gordiano della questione: mettere in discussione una visione di Dio, dell’uomo e della storia così inveterata e venerata non è esattamente un gioco da ragazzi. Non lo è stato nel passato, quando un Giordano Bruno poteva finire arso sul rogo; non lo è – dopo la breve parentesi. «liberale» coincidente sostanzialmente con il pontificato di Paolo VI – nel presente, anche se (per fortuna) i meccanismi sanzionatori nei confronti degli «eretici» funzionano con modalità molto più soft. Risultato: chi avrebbe le competenze per criticare la teologia cattolica tradizionale non lo fa, e chi lo fa spesso non ha le competenze adeguate. Infatti: chi ha quel tanto di preparazione teologica per aprire certi «fascicoli», raramente si ritrova nelle condizioni ecclesiali adatte (a meno di rischiare la cattedra o la possibilità di esercitare il ministero presbiterale), mentre chi ha tutta la libertà di parlare, quasi mai possiede gli strumenti culturali specifici per imbarcarsi nell’impresa (e riduce la questione più o meno a un gossip nei confronti di preti e monaci). Così, nella migliore delle ipotesi, ci si occupa dei rapporti storici fra le Chiese (cattolica e protestante) e le organizzazioni mafiose senza risalire dai rivoli alla sorgente: dai dati empirici, fenomenici, delle collusioni – o anche solo delle distrazioni – ecclesiali alla loro radice prima, teologica. Desidero precisarlo subito, a scanso di uno dei molteplici equivoci a cui questo libro potrebbe malauguratamente prestarsi: gli studi dedicati al rapporto fra Chiese e mafie – o, per lo meno, fra alcuni uomini di Chiesa e alcuni uomini di mafia – non sono per nulla da sottovalutare. Io stesso, nel 1994, ho raccolto in due volumi antologici quanto di più interessante era stato prodotto, sino a quella data, sull’argomento da storici e sociologi, da teologi e pastori, da protagonisti del movimento antimafia e da familiari di vittime della mafia. Sono pervenuto alla conclusione, come mi è capitato di sintetizzare più recentemente a proposito della Chiesa di gran lunga maggioritaria, che «i rapporti fra mondo cattolico e ambienti mafiosi ci sono stati e non senza conseguenze di rilievo. In alcuni casi si è trattato di rapporti di vera e propria complicità: preti e monaci – quando non sono stati essi stessi autori di crimini, di estorsioni, di ricatti – hanno, comunque, coltivato relazioni pericolose con parenti e amici di mafiosi. (...) In qualche altro caso, al contrario, si ha notizia di preti che, schierandosi dalla parte dei braccianti agricoli o comunque facendo azione sociale in contesti depressi, sono andati incontro alla vendetta mafiosa. (...) I preti-boss e i preti-martiri costituiscono comunque, nella loro atipicità, un’eccezione. La norma è stata, invece, una sorta di indifferenza disincantata delle Chiese cristiane – e in particolare della Chiesa cattolica – rispetto a una questione considerata, a torto, di competenza dello stato. E, per giunta, di uno stato “liberale”: vissuto, per molti decenni dall’unificazione nazionale, come esterno ed estraneo». Successivamente sono stati pubblicati altri saggi, più o meno pregevoli, tra i quali vanno ricordati almeno La Chiesa di fronte alla mafia, Le sagrestie di Cosa nostra e La mafia devota. I saggi, in buona sostanza, confermano l’autorevole opinione di uno storico di formazione marxista: nel ventennio fra il 1950 e il 1970 la cosa più grave era che i cattolici della Democrazia cristiana, allora maggioranza governativa sia in Italia sia in Sicilia, avevano dimenticato quanto aveva scritto Luigi Sturzo nel lontano 1900 sul giornale La Croce di Costantino: ossia che «la mafia oggi serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma atterra anche a Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini, creduti fior d’onestà, ad atti disonoranti e violenti». Questi studi però, in coerenza d’altronde con le competenze disciplinari degli autori, non si propongono di analizzare e, per così dire, sottoporre a processo l’idea che i mafiosi – da una parte – e i cattolici – dall’altra – hanno di Dio, del Cristo, della Chiesa, della dogmatica, della spiritualità e della morale. Solo una volta un magistrato molto impegnato sul fronte antimafia sembrò voler tematizzare il «cuore» dell’impostazione teologica della criminalità organizzata, mettendola a confronto con l’ortodossia cattolica, ma chiunque, sfogliando quelle pagine non certo prive per altro d’interesse, si rende conto che non mantengono quanto il titolo –«Il Dio dei mafiosi» – promette. Mi domando: ci riescono, invece, le pagine che seguono, in cui riprendo ed esplicito considerazioni suggeritemi proprio dalla lettura dell’ampio articolo di rivista dal titolo davvero suggestivo? Non le avrei scritte, se non avessi sperato in una risposta affermativa. Ciò di cui mi sento sicuro è che affrontano una questione inquietante per i credenti nel Vangelo e che riguarda anche osservatori «laici» esterni ed estranei rispetto alle Chiese cristiane, perché tocca aspetti simbolici di un fenomeno complesso come la mafia: chiarificare tale questione potrebbe rivelarsi istruttivo sia per ampliare il punto di vista dell’analisi scientifica, sia per affinare le attuali strategie operative di prevenzione e di contrasto.
Tratto dalla rivista Il Regno n. 2/2010
(htto://www.ilregno.it)
«Come mai Filippo Marchese - prima di torturare, strangolare e sciogliere nell’acido una vittima, spesso a lui del tutto ignota sino a cinque minuti prima - invocava la benedizione di Dio, facendosi il segno della croce?» (218). Questa domanda, formulata nel post scriptum del volume, rappresenta l’interrogativo di fondo, come spiega Cavadi, da cui ha preso le mosse la scrittura del libro. È noto, infatti, che i mafiosi, salvo poche eccezioni, si dichiarano cattolici e praticanti, sostengono o gestiscono manifestazioni religiose come le processioni; si sa che nei covi dei latitanti sono state rinvenute Bibbie e altri libri religiosi.
La religiosità dei mafiosi è un fenomeno che si è imposto all’attenzione del pubblico per il risalto mediatico che ad essa è stato dato - ad esempio in occasione della cattura di uomini di mafia come Bernardo Provenzano con la sua Bibbia cifrata - ma non solo. Su di essa, infatti, si è acceso anche un dibattito culturale e diverse pubblicazioni si occupano dell’argomento, sebbene lo facciano da differenti prospettive: sociologica, storica, antropologica. Tra le più recenti vanno richiama te quelle di V. Ceruso (Le sagrestie di Cosa Nostra. Inchiesta su preti e mafiosi, Newton Compton, Roma 2007); A. Dino (La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Laterza, Roma-Bari 2008) e l’ancora più recente testo di I. Sales (I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e chiesa cattolica, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010). Rispetto a questi studi, il libro di Cavadi prova ad affrontare la questione da un’ulteriore prospettiva, quella teologica. Egli cerca di indagare la concezione religiosa della mafia, che considera al pari di una teologia.
Il precedente a cui si richiama è un articolo, di cui riprende il titolo, del magistrato R. Scarpinato («Il Dio dei mafiosi», in Micromega [1998/1] 45-68) che, però, a giudizio di Cavadi, non mantiene ciò che promette. Il libro si articola, grosso modo, in due sezioni. Nella prima viene presa in esame la transcultura mafiosa e i suoi legami con la teologia mafiosa, mentre nella seconda vengono discussi gli aspetti specifici di una teologia incompatibile con quella mafiosa. Secondo Cavadi la mentalità mafiosa mostra delle contiguità con una certa mentalit à cattolica o, per meglio dire, con alcuni atteggiamenti ecclesiastici verificatisi nel corso della storia. Ad esempio, il rifiuto della giustizia civile e la rivendicazione da parte della mafia di un’amministrazione in proprio della giustizia, vengono accostati al fenomeno delle storiche immunità ecclesiastiche; o ancora l’omertà mafiosa viene posta in relazione con la segretezza ecclesiastica. Tra gli aspetti comuni alle due mentalità Cavadi segnala il «dogmatismo cognitivo» e il «fondamentalismo identitario» (80).
La teologia mafiosa sarebbe, però, una teologia profondamente atea. Scrive l’A.: «[.] l’ateismo di alcuni esplicita, svela, la .verità. nascosta dietro le menzogne, autoingannatrici, degli altri, perché la religione dei mafiosi è una delle tante versioni in cui si configura l’atteggiamento più sostanzialmente irreligioso che l’uomo possa nutrire » (93). Cavadi delinea le caratteristiche di questa teologia atea dei mafiosi e in questa parte del volume sviluppa confronti con l’articolo di Scarpinato. In realtà non si tratta di «una teologia consapevole e meditata, organicamente articolata» (98), ma di «una teologia irriflessa e approssimativa, anche se interiorizzata e praticata » (99). Questa teologia enfatizza alcuni aspetti della teologia cattolica mutilandone altri. Ad esempio, propone un’immagine di Dio caratterizzata da «onnipotenza senza misericordia» (101); da «trascendenza senza immanenza» (105); si tratta di un Dio «garante dell’ordine cosmico e sociale» (109) a cui si deve obbedienza cieca così come se ne deve ai capi di Cosa Nostra. Inoltre la mafia tiene in gran conto la mediazione dei santi, la cui funzione di intercessori li caratterizza come veri e propri "padrini" celesti, secondo un modello di religione eminentemente clientelare.
Particolarmente pericolosa si è rivelata, secondo Cavadi, la teologia della soddisfazione vicaria: se Dio sacrifica il suo unico Figlio, allora è legittimata e giustificata ogni vendetta anche attraverso la morte di parenti innocenti di pentiti e traditori a vario titolo. Insomma, emerge «un’idea .tribale. di Dio» e «un’ecclesiologia altrettanto .tribale.» (121). Si tratta poi di una teologia dal «registro lugubre » (132) in cui è esaltata la passione e la morte e omessa la risurrezione. Ma questa teologia, che definirei caricaturale, in che rapporto sta con la teologia cattolica? Si tratta di una deviazione e di una deformazione o in qualche modo essa dipende da una teologia cattolica che ne ha favorito lo sviluppo? Secondo l’A., se «la teologia cattolica non produce la mafia» (142), essa però «contribuisce alla concreta configurazione di questa mafia» (143). In particolare la commistione è da ricondursi a quella particolare teologia che egli definisce cattolico-mediterranea, frutto di un intreccio piuttosto complesso di componenti che non sono solo di natura religiosa. Infatti, «in Sicilia la mentalità cattolica è anche un po. borghese e un po. mafiosa, la mentalità mafiosa è anche un po' borghese e un po' cattolica» (152).
Ne consegue, secondo Cavadi, che non è sufficiente demistificare, da parte della teologia cattolica, la cultura mafiosa: bisogna anche demistificarne gli aspetti borghesi e capitalistici e quelli cattolico-mediterranei. I tratti caratterizzanti una teologia incompatibile con la mentalità religiosa della mafia sono quelli di una teologia negativa e non trionfalistica, né antropomorfa, che sappia indicare le vie della liberazione e della misericordia di Dio annunciate da Gesù; una teologia capace di animare una prassi credente, che dà vita a una spiritualit à che l’A. delinea come incarnata, sobria, conviviale, sovversiva, non violenta e gioiosa. Figure di martiri come don Pino Puglisi . la cui testimonianza è più volte richiamata nel testo . incarnano questo modello. Si potrebbe osservare che questa teologia e la spiritualità e la prassi che la esprimono, producono martiri. Solo una testimonianza evangelica diffusa, una teologia condivisa e tradotta in pratica non da parte di singoli ma a livello ecclesiale può marcare veramente la distanza con la mafia e sottrarle terreno: come ricorda Cavadi, i martiri della mafia sono martiri anche della solitudine in cui vengono a trovarsi e della singolarità della loro testimonianza.
Complessivamente il testo è ricco di spunti e induce a riflettere sulla zona di confine tra la teologia speculativa e i suoi risvolti pratici; una zona magmatica in cui possono generarsi ambiguità e allignare pericolose connivenze: un rischio storicamente sottovalutato o addirittura negato anche da uomini di Chiesa e rispetto al quale si vanno finalmente delineando chiare prese di posizione, come quelle contenute nel recente documento della Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 3/2011
(www.rassegnaditeologia.it)
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Sarah Reali il 29 gennaio 2021 alle 19:59 ha scritto:
Questo libro è davvero interessante perché esplora il legame dei mafiosi con la religione, una religione che essi piegano ai loro fini, snaturandola, ma allo stesso tempo vivendola con convinzione. Un libro per capire che la vera fede è contro la mafia, ma che la questione non è così semplice come sembra. Molto stimolante.