Giovanni D’Alessandro è stato definito dall’Avvenire «l’unico, autentico caso letterario italiano degli anni ’90», dopo il successo di Se un Dio pietoso, romanzo ambientato nella Sulmona del Settecento ed incentrato sulla realizzazione di una statua della deposizione per la cattedrale della città abruzzese, che lo impose una dozzina di anni fa all’attenzione del pubblico e della critica.
Cattolico praticante, D’Alessandro ha infuso la propria spiritualità anche nei due romanzi successivi, uno ambientato durante la Guerra Gallica, l’altro durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ora – dopo molti elzeviri sul quotidiano di Pescara Il Centro – affronta il genere del racconto, rielaborando alcuni scritti precedenti e proponendone di nuovi. Il tema affrontato è sempre, al di là delle diverse ambientazioni e dei diversi sfondi (dall’amato Abruzzo contemporaneo alla celtica città di Alesia, cinta d’assedio da Giulio Cesare a sua volta assediato) quello del mistero dell’esistenza. Così l’autore ripropone la parlata gergale di un adolescente, infilatosi quasi per caso in chiesa (lo ha fatto solo perché stufo di aspettare al sole un amico ritardatario all’appuntamento per la partita di pallone all’oratorio), per mostrare come anche un’anima semplice si ponga quesiti esistenziali (sempre che abbia la ventura di entrare in un luogo sacro e di inginocchiarsi di fronte ad un Crocifisso); oppure si lascia andare a ricordi di episodi vissuti personalmente, appartenuti alla sua fanciullezza (struggente quello della bambina povera in Sotto l’ombrello di un antico amore), alla sua gioventù (Un ferragosto spinoso) o alla maturità (Islamabad), in cui il tema della carità (in senso evangelico) si fonde con il profondo spaesamento causato dagli attentati islamici alle Torri Gemelle.
Attraverso i tredici racconti si nota una particolare attenzione riservata agli anziani, testimoni del tempo passato, esempi viventi della Tradizione – culturale, religiosa, morale – del nostro mondo, riferimenti essenziali della vita familiare e sociale. Queste figure sono estremamente varie: è la vecchia mendicante che ascolta la messa di Natale, capace di stupirsi, come se fosse una bambina, di fronte alla semplice bellezza di un presepio; oppure è l’anziana zia, scossa da profonde emozioni nell’entrare in una villa abbandonata e nel rivivere sensazioni della propria gioventù; o ancora è la vecchia fioraia di Budapest (nel racconto che chiude la silloge), attenta a tenere ordinato il proprio banchetto nonostante l’ora tarda e la mancanza di eventuali acquirenti suggerirebbe di abbandonare ogni fatica...
Un amore, quello per il proprio lavoro, che rimanda ad un altro racconto, forse il più bello, Madre delle nebbie di Gerace, diviso in due sezioni, una ambientata nel VI secolo d.C., l’altra ai nostri giorni, che culmina nella visita alla cattedrale romanica della città calabrese: le pagine sono dominate dallo stupore dei visitatori di fronte alla bellezza ed alla grandiosità della basilica, quasi sproporzionata per un borgo piccolo come quello che la ospita. È lo stupore delle menti moderne, traviate da considerazioni utilitaristiche, incapaci di comprendere appieno la grandiosità dello spirito e delle sue opere materiali: i costruttori delle cattedrali lavoravano con la stessa meticolosità che si riserva alla preghiera devota e per questo le loro fatiche – ancorché ci sia ignoto il nome di chi le pose in essere – resistono ai secoli e non cessano di destare in noi stupita ammirazione.
E, come gli scalpellini medioevali (e la modo dello scultore protagonista del suo primo romanzo, attento ai pur minimi particolari della sua statua), D’Alessandro usa la propria penna con estrema attenzione, dosando le parole per evitare di inserire un solo aggettivo inutile, mirando all’essenzialità senza dimenticare la musicalità e la perfetta comprensione: perché anche la scrittura può essere una forma di preghiera.
Tratto dalla rivista Radici Cristiane n. 36 - Luglio 2008
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