Teologia, politica e diritto tra XVI e XVII secolo
(Dabar)EAN 9788821167973
Nella monografia – ancora attuale nel cinquantenario del Vaticano II – l’attenzione è puntata soprattutto sul sapere teologico fiorito dopo il Concilio di Trento, elaborato per reagire agli attacchi della Riforma protestante e per rispondere alle novità del momento, in particolare ai problemi legati alla scoperta, conquista ed evangelizzazione del Nuovo Mondo. In tale contesto rinnovato, si riproposero con intensità gli interrogativi sulla libertà e sulla grazia, sulla comune natura di tutti gli uomini, sul significato e sul valore dei costumi, delle leggi e delle istituzioni di popoli diversi da quelli noti fino ad allora, sulle ragioni originarie della vita umana associata e la sua legittimità, sulla necessità e i limiti del potere politico.
Al tempo stesso, in ambito europeo, si intensificarono i conflitti tra le diverse confessioni religiose cristiane, per altro sempre più protese a creare un fronte comune di resistenza contro il pericolo turco, e si pose, in modo più o meno esplicito, il problema ormai inevitabile della tolleranza, che travalicava la questione privata della libertà di coscienza, per invocare soluzioni che consentissero la pubblica convivenza di confessioni e organizzazioni ecclesiali diverse. Su questi ultimi temi il pensiero di Lipsio, fortemente intriso di classicismo, rappresenta un’alternativa all’aristotelismo imperante. Egli, infatti, si presentò come non teologo e costruì una personale tesi di mediazione tra stoicismo e cristianesimo, che incontrò notevole fortuna.
Potremmo dividere il volume in quattro sezioni: la Scolastica barocca; il tema della guerra nella seconda Scolastica; la tolleranza religiosa come problema politico; il connubio tra società e politica nei maggiori esponenti della seconda Scolastica. La Scolastica barocca, ovvero la seconda Scolastica, implica una teologia che si è sviluppata dalla Spagna, proprio durante quel siglo de oro che vide fiorire nella penisola iberica lo stile barocco in varie manifestazioni letterarie e artistiche. Infatti, la teologia barocca, in primis, volle essere una proclamazione della gloria di Dio; in secondo luogo, la strumentazione filosofica della teologia barocca non allontanò il protestantesimo dalla cultura cattolica, ma riuscì a persuaderlo ad aprirsi a una visione logico-metafisica della realtà, dalla quale avrebbero tratto profitto la sua stessa posizione teologica e il dialogo con il mondo scientifico moderno; in terzo luogo, fu proprio la teologia barocca a offrire gli strumenti per la costituzione, sebbene in parte, del mondo moderno.
Essa ebbe successo grazie a due importanti novità: la Riforma protestante, a cui Trento aveva già dato la risposta ufficiale del mondo cattolico romano, riportando alla ribalta la questione del metodo teologico, del rapporto, pieno di mistero, che regola la libertà dell’uomo rispetto alla volontà di Dio e alla sua grazia; infine, la costituzione ontologica della chiesa e la tematica di Cristo redentore. In questo periodo risulta introdotta nelle scuole, ad opera dei domenicani, la Summa theologiae di san Tommaso, la quale offrì indicazioni per risolvere problemi di attualità che allora si presentavano. In tale contesto, quindi, emerge una ripresa metodologica dell’indirizzo tomista; infatti, se Trento aveva reagito al principio protestante sola scriptura, affermando che la divina rivelazione è contenuta in libris scriptis et sine scripto traditionibus, la teologia posteriore s’impegnò a chiarire l’interpretazione di questo rapporto, dando luogo alla cosiddetta teoria delle due fonti: Scrittura e tradizione.
Giova notare, nella ripresa del linguaggio di san Tommaso, la connessione, che risulta stretta, tra locus e auctoritas, evidenziando che ogni argomentare gode di una particolare autorevolezza e che ogni particolare autorevolezza si configura in un determinato modo di argomentare, tanto nel caso in cui l’argomentazione risulti probante, in quanto si fonda sulla Scrittura, quanto nel caso in cui l’argomentazione di per sé non risulti probante. San Tommaso elenca i vari tipi di auctoritates: le affermazioni tratte dai libri della Sacra Scrittura sono argomentazioni assolutamente “proprie”; quelle tratte dalla dottrina dei padri e dei dottori sono certo “proprie”, ma solo probabili; godono, invece, dignità di argomenti “esterni” e solo “probabili” gli insegnamenti dei filosofi e le proposizioni meramente razionali. Un tema toccato dal Concilio di Trento, ma non approfondito, riguardava l’affermazione della libertà umana, la quale, secondo la concezione cattolica, non sarebbe persa del tutto in seguito al peccato originale.
Al libero arbitrio il Tridentino aveva riconosciuto la capacità sia di cooperare con Dio all’opera della grazia, sia di rifiutare l’aiuto divino. Oltre a questo non aveva aggiunto altro. A questo punto, l’autore si chiede: come si rapportano e si conciliano reciprocamente grazia di Dio e libero arbitrio nel dibattito della Scolastica moderna? Secondo Molina, la grazia di Dio e la libertà dell’uomo concorrono simultaneamente al conseguimento di un unico risultato, che è la piena salvezza dell’uomo, vale a dire la vita eterna, che risulta così essere insieme “donata da Dio” e “conseguita dall’uomo”. Dio conosce anche le cose future contingenti, che dipendono dalla libertà dell’uomo. Egli sa già dall’eternità quale sarà la risposta libera, che, in determinate circostanze, quest’uomo darà al suo intervento di grazia.
Tale sua prescienza non predetermina, tuttavia, la risposta dell’uomo, che rimane comunque libera. Dio, però, decide di dare la sua grazia a coloro che risponderanno liberamente in modo positivo alla sua offerta di grazia in determinate circostanze. Secondo Molina, al di là del concorso generale con cui Dio conserva tutte le cose, l’uomo rimane libero e, quindi, può decidere di agire e di non agire. Pertanto, tra grazia sufficiente e grazia efficace, non esiste altra differenza, se non quella che vi pone la libertà dell’uomo, la quale con il suo consenso alla grazia, permette che l’auxilium sufficiens diventi efficax. Ma ciò significa far dipendere l’efficacia della grazia di Dio dall’arbitrio e, dunque, dall’iniziativa dell’uomo. Secondo Bañez, invece, l’uomo tanto meno gode di libertà perfetta, quanto meno è determinato al proprio fine e all’oggetto della sua volontà. Insomma, nel caso della libertà creata, l’uso della libertà è tanto più perfettamente libero, quanto più la libertà sceglie infallibilmente il bene. Del resto, la creatura è tanto più perfetta, quanto più assomiglia a Dio.
Ne consegue che coloro che sono confermati nella grazia sono assai più perfettamente liberi rispetto a coloro che non lo sono, in quanto il loro libero arbitrio, ad opera della grazia, è stabilito e determinato al bene, a somiglianza di Dio. Bañez sostiene che l’aiuto di Dio non è semplicemente morale, ma efficace e reale. Egli critica la scientia media di Molina, mediante la quale Dio conoscerebbe le circostanze e le predisporrebbe, affinché l’uomo, a partire dall’aiuto della grazia sufficiente, si apra o si chiuda liberamente al consenso. Dunque, Molina con il termine “morale” si riferisce alle circostanze predisposte da Dio in modo favorevole alla scelta dell’uomo di aderire alla volontà soprannaturale. Invece Bañez sostiene che l’intervento di Dio dev’essere inteso come fisico, reale ed efficace. Philips evidenzia che le due dottrine hanno un rischio in comune: concepire l’uomo e Dio come se fossero due concorrenti, in modo tale che, quanto più si attribuisce a Dio, tanto più si sottrae all’uomo e viceversa.
Al contrario, Philips evidenzia che la libertà creata dall’uomo non fa altro che esaltare la gloria di Dio, mentre l’onnipotente trascendenza di Dio rende effettivamente possibile il concreto e pieno esercizio della libertà umana. Un altro tema che viene affrontato dall’autore e che non ebbe fortuna nel Concilio di Trento è la questione di Gesù Cristo e dell’esistenza di un unico ordine soprannaturale in lui incentrato. Autori come de Soto e Bellarmino sono convinti che esistano due ordini distinti: uno naturale e un altro soprannaturale, unificati dall’unico fine soprannaturale. Per Suarez, invece, la beatitudine naturale si configura come una realtà effettivamente praticabile dall’uomo naturale, anche se, in questo ordine di provvidenza, il suo raggiungimento è ostacolato da circostanze sfavorevoli. Non manca la riflessione sul tema della guerra che, secondo sant’Agostino, per essere giusta, deve avere una giusta causa, ovvero un’ingiustizia oppure una violazione del diritto da parte del nemico.
In breve, la guerra deve comunque mirare alla pace, e, quindi, si configura come giusta solo se interviene come extrema ratio. Infine, occorre che essa sia dichiarata dall’autorità competente. Per autorità competente, secondo Buzzi, non s’intende solo l’imperatore, ma le autorità legittimamente costituite. Secondo san Tommaso, che resta l’autore di riferimento, affinché la guerra sia giusta occorre che vengano rispettate tre condizioni: a) un’autorità competente, alla quale sia stato assegnato il compito di difendere i cittadini dai malfattori interni e dai nemici esterni; b) una giusta causa, rinvenibile in un’ingiustizia colpevolmente inferta dal nemico; c) il fine dev’essere buono: si tratta di promuovere il bene e di evitare il male, ovvero di contenere i danni dei cattivi e facilitare i buoni nel compimento del bene. Secondo Lutero, l’imperatore deve eseguire il comando che Dio ha dato all’autorità secolare di proteggere le persone a essa affidate, di conseguenza i sudditi sono tenuti a obbedire all’autorità che dichiara la guerra, perché essa è stabilita da Dio (all’autorità civile viene riconosciuto un intervento limitato e passivo, semplicemente volto a impedire che la vita della società degeneri nel caos totale). In un mondo creato da Dio, ogni ceto ha il proprio posto, il proprio senso e il proprio scopo, finalizzato al buon andamento della società nel suo complesso. Secondo Lutero, Dio ha creato i diversi ceti e ha affidato a essi compiti precisi e diversi per il bene della società. Su queste basi, osserva nella sua disamina l’autore, non è corretto che il contadino voglia diventare borghese, che il borghese voglia diventare nobile (questo significherebbe disobbedire al Creatore e trascurare di servire il prossimo).
Per Lutero, in sintesi, Dio ha istituito l’autorità secolare, a cui è stata affidata la spada, per “punire i malvagi e proteggere i pii”, per mantenere l’ordine sociale voluto da Dio. Per quanto riguarda la tolleranza religiosa come problema politico, Lipsio sostiene che il principe non abbia la facoltà piena o incondizionata di intervento in materia religiosa. Secondo Lipsio, la religione svolge una funzione essenziale che consiste nel creare un forte vincolo sociale tra i cittadini. Ma perché questo accada, cioè perché la religione possa svolgere correttamente la propria funzione sociale, che consiste nel mantenere ben amalgamati i cittadini, è necessario che essa sia conservata in tutta la sua purezza, nella sua immutabilità. Secondo Lipsio, il bene e la sicurezza dello stato si garantiscono con l’unità di comando e con l’unità di religione, quale forza di coesione sociale.
Il principe, secondo Lipsio, deve garantire l’osservanza pubblica di un unico rito o di un culto legato a un’unica confessione, spingendosi fino a misure proporzionalmente repressive, quando tale intervento fosse richiesto da pubbliche minacce all’unità di religione e, quindi, al bene dello stato. Dunque, lo stato difende la religione per difendere o garantire se stesso. In altre parole, lo stato descritto da Lipsio è aconfessionale, nel senso che l’appoggio da esso ancora garantito alla religione non riguarda per nulla il merito o la verità della medesima.
Della religione vera e propria, rimangono solo le impalcature esterne, ossia istituzionali, che vengono utilizzate per il bene della società civile. Lipsio costruì, come si diceva, una personale tesi storico-cristiana, sostenendo che si potrebbe anche affermare che Dio obbedisce al destino, non perché c’è una certa insufficienza in lui o perché il fato domini su di lui, ma perché è da Dio attenersi a quanto egli stesso ha deciso, in quanto egli non può aver deciso altro che il meglio. Dunque, il fato non è qualcosa di disdicevole o di repellente: la necessità è figlia della Provvidenza, è cioè decisione di Dio, il quale è onnipotente, intelligente e buono. Egli non può cambiare la sua decisione, poiché essa corrisponde alla sua natura immutabile. Per quanto riguarda l’ultima sezione del volume, si legge che, secondo de Vitoria, la società è di diritto naturale e, come tale, è pure di diritto divino, in quanto Dio stesso è l’artefice della natura; dunque, è Dio stesso la “causa efficiente” della società; mentre la “causa materiale” è la stessa repubblica o società civile e politica.
De Soto, a sua volta, appartiene alla stessa corrente di de Vitoria, ribadendo che i cittadini e lo stato sono legati da un mutuo rapporto di diritti e doveri naturali, cioè fondati nella natura stessa della società. I cittadini non possono, per un motivo qualsiasi, per esempio, spogliare il re dal suo regno; e il re non può fare ciò che vuole. Molina afferma che il potere politico viene affidato allo stato da Dio, il quale istituisce la natura umana in modo che vi sia insito il bisogno degli uomini a convergere in unum per formare un unico corpo sociale. Pertanto, tale convergenza degli uomini a formare un solo corpo non è ciò che, di per sé, crea il potere politico, ma è la semplice conditio sine qua non di quel potere politico che viene propriamente e immediatamente da Dio.
Della stessa corrente di pensiero è Bellarmino, il quale sottolinea che titolare del potere politico è la comunità di persone che eleggono, quale rappresentante del popolo, una persona scelta tra loro. Appartiene al medesimo filo conduttore Suarez, il quale fa una distinzione tra il potere che, iure naturali et ex Deo, è affidato come tale alla comunità, e le diverse forme di governo che iure humano vengono decise dalla libertà degli uomini mediante il trasferimento del potere a uno o più governanti. Dio, continua Suarez, affida il potere alla società civile, pertanto esiste una forma quasi naturale di democrazia, in quanto il potere appartiene a tutto il popolo, il quale iure naturae costituisce una società perfetta che ha il potere in sé e su di sé.
Quando, per esempio, il potere viene affidato dalla comunità a un principe, questi, secondo Suarez, deve rispettare la legge naturale e divina, deve mirare con il suo operato al conseguimento del bene comune e il suo comportamento non deve degenerare in un comportamento tirannico. Se il principe non dovesse rispettare le seguenti condizioni, sottolinea Buzzi, il popolo è legittimato a riprendersi il potere. In conclusione, secondo l’autore di questo interessante saggio, il Cinquecento e il Seicento sono stati due secoli molto fecondi per la riflessione teologica sul potere politico. In particolare, l’esserci stesso della società viene giustificato ricorrendo sostanzialmente alla riflessione politico-giuridica elaborata sulla scorta del pensiero aristotelico, come è possibile osservare in Francesco Suarez.
L’integrazione del pensiero politico-giuridico, nella prospettiva teologica, avvenne grazie alla tesi della creazione della natura da parte di Dio, sulla scorta del principio tomistico generale: il Vangelo, ovvero l’ordine della grazia, non toglie, ma perfeziona tutto ciò che è stato posto da Dio nell’ordine della creazione. In modo conforme a tale principio – che tuttavia non si riscontra ad litteram negli scritti tomani –, è stato inteso anche il principio gratia/ius naturae.
Così le questioni relative alla struttura politica della società entrano a far parte di quell’ordine naturale che, pur rimanendo subordinato all’ordine soprannaturale, tenderà, in epoca moderna, a staccarsi dalla rivelazione cristiana. In definitiva, la seconda Scolastica diede l’avallo e favorì la nascita del pensiero giuridico-politico laico.
Tratto dalla rivista "Asprenas" n. 1-4/2012
(http://www.pftim.it)
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