Quod ore cantas corde credas
-Studi in onore di Giacomo Baroffio. Ediz. spagnola
(Monumenta studia instrumenta liturgica)EAN 9788820990633
È stato presentato a Cremona, presso la facoltà di Musicologia, nella sezione staccata dell’Università pavese, poi a Roma presso la Sala della Crociera nella sede del Ministero dei beni culturali – l’antica biblioteca gesuitica del Collegio Romano – il volume, fresco di stampa, in cui sono raccolti gli studi in onore di Giacomo Baroffio Dahnk, raffinatissimo cultore di ricerche paleografico-musicali e liturgiche.
Egli è uno tra i migliori esperti di questi dominii di studio non facili perché bisognosi di una varietà di metodi, di erudizioni, di competenze, soprattutto se condotti con rigore storico-filologico, competenza teologico-spirituale e perfetta tecnica di esecuzione musicale. Doti tanto particolari brillano con chiarezza nella tavolozza dei saggi raccolti dalla curatrice, L. Scappaticci, che è riuscita a mettere in luce, attraverso la scelta dei collaboratori, due caratteri propri delle capacità del suo maestro. Da un lato, vi sono infatti l’ampiezza e la profondità dei contatti intessuti attraverso studi che non riposano sulla perfezione tecnica e sul confronto critico, ma si giocano anche nella relazione umana e spirituale; dall’altro, compare tutta la gamma degli interessi in gioco che, come giustamente la curatrice ha messo in luce chiudendo gli interventi della presentazione romana, intendono far superare alla musicologia medievale il suo status (un po’ isolato) di disciplina di nicchia, mettendola in dialogo con le discipline sorelle in chiave storica: la paleografia, la codicologia, la filologia dei testi liturgici, la catalogazione sistematica dei manoscritti con il miglior apporto delle tecniche informatiche, ma anche di una conoscenza che non si appiattisca sulla tecnologia, ma la guidi con sapienza (cf. anche la Presentazione alle pp. 8-9).
Di questo dialogo, che arricchisce reciprocamente e si approfondisce storicamente, è frutto la silloge che qui si presenta. Se ne percepisce anche quantitativamente il peso scorrendo l’Indice generale (pp. 737- 743), che rivela subito, come ha messo in luce anche Thomas Forrest Kelly nella presentazione romana, la varietà degli interessi, ma anche delle geografie: su trentasette contributi la nazione-lingua prevalente è quella italiana, ma in proporzione ben ridotta rispetto a un panorama vario di lingue e di luoghi, pienamente corrispondente alla tavolozza di interessi di cui sopra si diceva. Si è perciò organizzato l’abbondante materiale secondo una scansione, però non in blocchi di argomenti, ma in otto sezioni, in gran parte intitolati facendo ricorso alla parola iter, per indicare percorsi che si intersecano con gli studi di Baroffio. Un’operazione difficile da abbracciare nella sua complessità; d’altro canto, non dubitiamo che l’abbondante disponibilità di indici aiuterà molto approcci generali e specifici (cf. pp. 693-735).
Perciò si è scelto qui di percorrere non propriamente un tratto di strada o una sezione, ma una sorta di categoria trasversale, comune a tutti, meglio espressa in alcuni saggi, quella della storia, di monaci, di libri, di biblioteche. E la dimensione della storia non può mancare, perché rimanda a un’altra dimensione propria della vita e degli studi, ma anche della musica: il tempo. Se infatti la musica e il canto sono segnati dall’elemento del tempo, lo è anche la liturgia: la dimensione del tempo, se consapevolmente e concretamente accettata, spalanca a quell’assoluto che, desiderato e sperato, diviene donato e incarnato nel tempo. La laus liturgica non è infatti ancora la perennis gloria, ma ne è segno incarnato appunto nella storia, chiamata ad aprirsi ad essa. Così, con questo sguardo di fondo, scorreremo assieme alcuni saggi che alla categoria della storia e del tempo sembrano più fortemente rimandare. Primo tra tutti il testo di Gregorio Penco (Ascesi monastica e cultura tra tardo antico e medioevo, pp. 31-39), che affronta il tema nodale del rapporto tra mondo monastico e cultura in età tardo antica, quando il monachesimo si avviò e si fece strada come esperienza ascetica ed ecclesiale.
L’autore presenta l’avviarsi della dialettica di confronto – che diverrà decisiva nei secoli successivi – tra monachesimo e cultura pagana, giunta allora a esiti raffinatissimi e non banalmente di decadenza. In particolare dal rapporto tra studio e meditazione della Scrittura, da una parte, e la letteratura e filosofia pagana, dall’altra, emergono temi decisivi, ma si scoprono anche figure di sintesi, come Girolamo e Cassiodoro, che anche attraverso la dura esperienza personale sono riusciti a porre in relazione mondi tanto diversi, giungendo alla consapevolezza che si poté dare un dialogo reciproco, ma che esiste ed è possibile elaborare una «cultura monastica», che si sarebbe rivelata decisiva nei tempi successivi (cf. p. 39). La curatrice del volume, L. Scappaticci (Pregare in monastero: appunti per una «architettura» dello spazio liturgico extra ecclesiam, pp. 41-50) offre una raccolta di orazioni inedite che percorrono in senso liturgico e orante i luoghi di un edificio di comunità cenobitica del sec. IX e che saggiamente l’autrice collega con la famosa mappa di San Gallo.
Si ha così non solo l’immagine di un iter di preghiera diffusa in tutti i loca monastici, laddove il tempo è scandito negli spazi del quotidiano, raggiunti dalla preghiera. Fra questi loca dobbiamo prender nota della presenza dello scriptorium (p. 46) e non della bibliotheca, che forse, essendo considerata veramente solo un repositorium librorum, spesso costituito da spazi piccoli e angusti (il libro «viveva» in moltissimi altri ambienti del monastero) non aveva ancora ricevuto uno status di luogo significativo; troviamo invece il pristinum (p. 47), che, se ben capisco, è il mulino per la farina o il luogo dove si faceva il pane, segue infatti nella silloge il granaio e anticipa la cucina: il lemma inoltre va ricollegato a pistrinum (cf. J.F. Niermeyer, Mediae latinitatis lexicon, Leiden - Brill, New York - Köln 1997, 799, ove si attestano il verbo pi strinare nel senso di cuocere il pane e nome pistrinum nel senso di forno o panetteria), e compare qui già in metatesi fonetica, come poi le antiche voci lombarde di pristin, prestiné(e) (cf. F. Cherubini, Vocabolario milanese - italiano, vol. III, Dall’imperial regia tipografia, Milano 1841, 406-407, immortalato nel prestin di scansc nelle avventure del Renzo manzoniano durante la rivolte del pane), per indicare il panettiere o il fornaio. E si aprirebbe qui una riflessione ben più vasta su queste terminologie d’ambiente passate dalla villa antica, al mondo monastico e fino alle lingue popolari delle grandi aree pianeggianti del Nord Italia, bonificate anche dall’impegno monastico e segnate indubbiamente dalla vita e dalla preghiera del monachesimo benedettino.
Termini e parole che così passano e attraversano il tempo, ma anche lo scandiscono. Alla categoria del tempo vanno ancora ascritti due importanti saggi sulla datazione di altrettanti manoscritti liturgici: il liber magistri cap. 65 della Cattedrale di Piacenza e il Collettario Ambrosiano di San Giorgio al Palazzo a Milano, ora Ambrosiano A 2 sup. Davvero metodologicamente efficace e attenta è la trattazione di Mirella Ferrari (Per la datazione del Liber magistri o Codex Magnus di Piacenza [Biblioteca Capitolare della Cattedrale, cod. 65], pp. 189-202), che colloca in modo convincente il manoscritto piacentino tra la fine del XII sec. e l’inizio del XIII (finalmente pubblicando e utilizzando in modo corretto gli obituari ivi riportati). Lo spostamento verso di noi della data non diminuisce affatto il valore testimoniale del codice, anzi lo arricchisce di un nesso più chiaro con gli anni vivissimi delle cattedrali di qua e di là dal Po: anni di importanti riforme scolastiche, liturgiche, pastorali, quelle ad esempio del vescovo Siccardo della vicina Cremona.
Altrettanto accurata la lettura di Marco Navoni (Il manoscritto A 2 inf. della Biblioteca Ambrosiana: analisi di un libro liturgico del secolo XIII, pp. 203-228) su un codice determinante per la liturgia ambrosiana: rispettoso degli studi precedenti, anche di quelli più remoti, ma anche meglio attrezzato rispetto alle anomalie significative di calendario e di uso liturgico riportate nel codice; così l’autore può fare emergere un panorama nuovo rispetto alle eucologie ambrosiane usate nel XIII sec., e legami e connessioni inattese con altri riti e ambienti. Saldamente incastonato nel suo tempo – cioè nella prima metà del Quattrocento – è il saggio di Francesco Trolese (Descrizione quattrocentesca di un paramento acquistato dall’abate Ludovico Barbo per Santa Giustina di Padova [1430], pp. 89-99). L’approccio è solido e, antiquo more, fissa in un tempo preciso tramite la lettura accurata di un atto giuridico di un mutuo, il progetto e la preparazione di un parato liturgico. Ed ecco che, proprio perché fissata nel tempo, la liturgia non si ferma nell’oggettistica né svapora nell’estetizzante, ma si collega qui al maturare della spiritualità monastica tardo-medievale verso la devotio moderna, di cui le figure ricamate sui parati sono un segnale significativo nel più importante percorso di riforma del monachesimo italiano: da qui anche il valore del documento pubblicato e commentato.
Il tempo si coniuga ancora con l’oggi della liturgia e, in particolare, del canto nella liturgia, come argomenta Manlio Sodi in Parola di Dio e canto nella Messa. Tra comunicazione, cultura e animazione, pp. 633-655, posto a significativa conclusione della serie, prima della vastissima bibliografia del dedicatario (Gli scritti di Giacomo Baroffio Dahnk, pp. 657-692). Il saggio di Sodi si vuol porre come contributo al prosieguo di una riforma della vita liturgica e della valorizzazione della musica nella celebrazione delle liturgie, che si ispiri con chiara esattezza ai dettami conciliari, senza facilonerie e senza archeologismi. Tema e trattazione son sembrati belli e ricchi. Ad esempio nell’attenzione all’incarnarsi della Parola nell’oggi della liturgia, che dà occasione al canto di scandire i tempi liturgici. Così questi tempi non risultano spazi da calendarizzare o programmare o, peggio, organizzare, ma luoghi aperti all’ascolto della Parola e dimensioni da vivere in senso completo (non cioè solo emozionale), come singoli e comunità, come presidenza e assemblea in piena armonia di ruoli differenti, in una bellezza composita e non rigidamente unanimista: «Il canto liturgico – (cito da p. 653) – è chiamato a riflettere una cultura – quella biblica – espressa attraverso le forme musicali proprie del tempo e della tradizione» e, aggiungo, realizza la dinamica di trasmettere fedelmente (in senso pregnante di fides e non solo esatto filologicamente) nello spazio temporale di generazioni ciò che si è conservato, secondo il vecchio detto conservata aliis tradere. Da qui la riflessione si estende ai momenti della liturgia per eccellenza, quella eucaristica, e al ruolo della Parola del canto in ciascuno di essi.
Il tempo si fa contingenza e permette in un ultimo sguardo globale di afferrare e conoscere i motivi non solo scientifici, ma anche relazionali e umani della presenza di tanti e tanto vari collaboratori. E ciò emerge sia dai legami esplicitamente dichiarati da moltissimi di loro, sia da uno sguardo alla particolarissima tabella: Albero genealogico della formazione di Giacomo Baroffio, a p. 28. Vi sono registrati nomi di molti formatori e studiosi appartenenti a una generazione che ha percorso con grande frutto il difficile «secolo breve» del Novecento, sapendo trasmette la passione per la ricerca e per le grandi prospettive, non ultima quella dell’apertura alla dimensione della fede in piena connessione con studi rigorosi: O gran bontà dei cavalieri antiqui! commenterebbe l’Ariosto, pur con un sorriso di saggia ironia.
Tratto da "Rivista Liturgica" n. 3/2013
(http://www.rivistaliturgica.it)