Le perle del Corano. Testo arabo a fronte
(Classici)EAN 9788817173285
«Il Corano è un mare profondo e contiene ogni genere di perle e di pietre preziose […] è come un immenso oceano da cui proviene tutto il sapere degli antichi e dei moderni […] Ti guiderò allora a cagione della fratellanza sincera che ci lega… a bagnarti e tuffarti [in esso]» (p. 79). Questo il proposito della breve ma densa operetta qui presentata, seconda edizione di un volume originariamente uscito da Rizzoli nel 2002. Su questa stessa rivista ho già avuto l’occasione di recensire opere di Abu Hamid al-Ghazali, il «S. Tommaso dell’islam», di cui l’editoria italiana aveva anni addietro già proposto larghe parti e spesso interi libri della monumentale Ihya’ ‘ulum al-din (Il ravvivamento delle scienze religiose), una vera summa del sapere teologico del medioevo islamico in cui l’Autore riesce a «ravvivare» la talora arida materia dell’immenso trattato con il soffio ardente del suo misticismo. Di origini iraniche, Abu Hamid al-Ghazali (l’Algazel delle traduzioni latine medievali) diventa ben presto nella Baghdad del XI-XII secolo un rinomato professore di diritto (fiqh) e teologia (kalam) islamiche presso la Nizamiyya, una celebre università religiosa che il mondo musulmano rivendica orgogliosamente come la prima istituzione universitaria della storia umana. Fondata dal potente visir selgiuchide Nizam al-Mulk, autore di un trattato sull’arte della politica che «pianifica» la difesa dell’ortodossia sunnita contro gli attacchi di eretici e nemici del califfato (gli sciiti estremisti in primis, e in particolare la setta degli Ismailiti), questo genere di istituzione sarà presto replicata altrove, andando a formare l’ossatura istituzionale del sistema formativo superiore delle scienze religiose e filosofiche dell’epoca. Qui insegnerà appunto al-Ghazali fino al momento in cui, intorno al 1195 - non si sa se colto da una crisi mistica o disgustato dalle mene di corte o timoroso forse dei nemici personali (forse in realtà un po’ per tutte queste ragioni) - abbandonerà la cattedra per affrontare un periodo di viaggi e pellegrinaggi (anche alla Mecca) e probabilmente per trarre un bilancio della propria esistenza e della propria opera. Ritornato all’insegnamento per poco tempo nella Nizamiyya di Nishapur (nell’attuale Iran nord-orientale), al-Ghazali completa il suo capolavoro, la summa citata, e muore nel 1111. L’ottimo Curatore ci informa abbondantemente sui momenti cruciali della terrena biografia dell’A., certamente un «intellettuale organico» al potere del sultanato selgiuchide e uno dei protagonisti della lucida politica di «difesa sannita» del predetto energico visir che, particolare non secondario, perirà in un attentato organizzato proprio dai menzionati «eretici» Ismailiti. Opportunamente viene ricordato nell’introduzione che, al contrario di quanto si potrebbe dedurre da certe stereotipate rappresentazioni del sufismo, Abu Hamid al-Ghazali è un ortodosso, un sunnita convinto, per il quale il sufismo rappresenta una sensibilità particolare attraverso cui interpretare la Legge e il messaggio del profeta, non certo una visione alternativa dell’Islam. Smentendo nella sua stessa biografia il pregiudizio della reciproca insanabile ostilità tra sufi e dottori (ulema), Abu Hamid al-Ghazali si presenta proprio come un dottore che ha pienamente accolto alcune istanze di rinnovamento spirituale e di approfondimento o interiorizzazione della Legge poste dal sufismo, facendone in sostanza uno strumento di rafforzamento o meglio «ravvivamento» (ma il termine originale si può rendere anche con «rinascita») della esperienza religiosa, oltre che delle ‘ulum al-din («scienze religiose»). La formazione da giurista di al-Ghazali emerge da quasi ogni pagina anche del presente piccolo trattato, in cui il gusto di distinguere e sceverare, di ordinare e classificare e a volte magari di cavillare, rivelano l’imprinting dottorale tradizionale della sua formazione. La via maestra della salvezza passa sempre e comunque attraverso la scrupolosa osservanza dei precetti e dei divieti posti dalla Legge, pur se questa non si riduce mai a vieto formalismo o ad arido o ipocrita iper-legalismo (le tipiche accuse che certi sufi facevano agli ulema) ma si coniuga sempre, in al-Ghazali, con la profonda e intima gioia di colui che nell’osservare scrupolosamente la Legge sa e sente di conformarsi alla volontà dell’Amato, ai desideri di Dio. L’amore di Dio è notoriamente un altro grande tema posto dal sufismo - sin dai detti di sufi famosi come Rabi’a e Hallaj, devotamente tramandati dai discepoli - che, invece di un Dio signore e padrone che si rivolge imperioso ai suoi servi, preferisce parlare di un Dio-Amato che si offre all’amore dei suoi mistici amanti. E non a caso al-Ghazali dedica uno dei libri più densi della citata «summa» proprio all’amore di Dio, senza il quale la Legge gli doveva apparire uno strumento insufficiente. Forse non è stato mai adeguatamente indagato il rapporto di Abu Hamid al-Ghazali con il fratello minore, Ahmad Ghazali (m. 1126), un mistico e predicatore ammiratissimo, ma anche un carattere completamente diverso: portato all’intuizione brillante, piuttosto che all’argomentazione sistematica, versato più per gli aforismi e i detti fulminanti che non per i trattati e i cavilli giuridici. Mentre Abu Hamid componeva un trattato dietro l’altro sulla shari’a e la retta via dei credenti o su Dio e i suoi attributi, il fratello Ahmad magnificava in prediche infuocate Iblis (il Satana coranico) indicandolo inopinatamente quanto scandalosamente come modello dell’amore mistico… Mentre Abu Hamid magnificava le «perle del Corano», ossia i suoi versetti sulla cui meditazione si formeranno tutte le generazioni dei pii musulmani sino a nostri giorni, Ahmad volgeva la sua attenzione al tema dell’amore disquisendo brillantemente a proposito «delle occasioni amorose» (tr. it. Carocci, Roma 2007), titolo di una celeberrima operetta che è un po’ il manifesto di tutta una corrente «ebbra» del misticismo islamico che si svilupperà anche in India (confraternita chistiyya). Sappiamo che Ahmad successe a Abu Hamid, dopo l’abbandono, nella cattedra a Baghdad e sappiamo pure che rese (o riassunse) in prosa persiana alcune opere dell’augusto fratello redatte in arabo: insomma Ahmad Ghazali fu certamente vicino per larghi tratti dell’esistenza al più celebre fratello e teologo, i due condivisero verosimilmente la frequentazione delle alte sfere della Baghdad califfale e godettero entrambi della protezione del menzionato gran visir. Difficile pensare che Ahmad «il mistico» non abbia giocato un ruolo significativo nell’evoluzione di Abu Hamid «il teologo», se non nell’innescare forse quantomeno nell’accelerare la crisi spirituale di cui s’è detto che porterà al suo successivo vistoso accostamento alla mistica sufi.
Il volumetto qui presentato rivela certo, quasi a ogni pagina, la persistenza del giurista-teologo ma la sensibilità non è quella del dottore più tradizionale, quanto piuttosto dell’uomo spirituale per il quale la parola shari’a, prima che «legge» ovvero complesso di norme, ha il significato profondo (che corrisponde peraltro al suo etimo) di «strada» o «via» che porta a Dio. Ovvero la norma, il precetto, il divieto sono parte essenziale della «via» (shari’a), ma non la esauriscono affatto. Lo stesso Corano, per usare la metafora che dà il titolo al trattatello, appare ad al-Ghazali un libro di parabole, ma l’uomo di fede si accorge che esse sono solo «scorza esteriore e conchiglia dei significati spirituali» (p. 135) ossia un involucro che racchiude le «perle» autentiche che non tutti però sanno cogliere. È questo un punto centrale della ermeneutica di al-Ghazali: a un livello esteriore del dettato divino (la conchiglia), corrisponde sempre un livello interno o interiore (le perle). Il fondamentalista, volendo un po’ attualizzare il suo discorso, si ferma alla conchiglia, pretendendo l’interpretazione letterale della parola coranica, l’applicazione inflessibile delle sue talora severissime norme; l’uomo di fede sincera, risponderebbe al-Ghazali, si sforza di vedere la perla nascosta nella conchiglia… Più in generale questa ermeneutica che si basa su una dialettica dei significati esteriori/interiori (zahir/batin), si allarga in al-Ghazali - che in questo è erede della tipica sensibilità dell’islam gnostico ovvero del c.d. ‘irfan - all’intero «libro del Mondo», perché esiste «una relazione segreta tra il mondo sensibile e il mondo celeste», che si esprime attraverso simboli e metafore. Sottostante è l’idea che occorra per l’uomo di fede saper decifrare correttamente i «segni di Dio» (ayat Allah) sparsi ovunque - come insiste a più riprese il Corano (XLV, 3-8 e passim) volgendosi all’uomo «che sano ragiona» - nel creato e nella storia. Questa doppia ermeneutica, del libro sacro e del mondo, non è concessa a chicchessia. E qui emerge un altro aspetto tipico dello stile intellettuale di al-Ghazali che lo avvicina molto al clima esoterizzante della mistica sufi: le scienze religiose (‘ulum al-din) non sono per tutti, e anzi si legge la (per noi) sorprendente dichiarazione: «Faccio perciò divieto a chi prende in mano il mio libro [sulla Rinascita delle scienze religiose] di propalarlo, eccetto a chi possiede le buone qualità che ho elencato» (p. 119). Se andiamo poi a vedere queste qualità scopriamo che identificano qualcuno che non solo ha un buon curriculum studiorum nelle «scienze esteriori», ma soprattutto «si sforza di mortificare le qualità negative dell’anima, percorre la strada della lotta interiore (jihad) fino a che l’anima non sia ben esercitata, e persevera sulla medesima strada; a costui nulla resta di legame con il mondo, né altro desiderio che la verità» (ibidem). È, come si vede, il ritratto di qualcuno che somiglia molto a un asceta, a un sufi, insomma di qualcuno che unisce alla ricerca della verità una lotta estenuante per la propria mortificazione e la purificazione interiore. Sarà appena il caso di osservare che, in questo, al-Ghazali come del resto altri innumerevoli «sapienti» dell’islam medievale, si rivela degnissimo erede dell’ideale della filosofia classica che - da Platone agli stoici e oltre - non concepisce l’esercizio della filosofia separato da una ricerca morale, da una condotta rigorosamente ispirata alla purificazione dai vizi e dalle passioni.
Ma il vero argomento di questo trattatello è una vasta riflessione sullo statuto delle ‘ulum al-din, ovvero il complesso delle «scienze religiose» cui al-Ghazali darà la definitiva organica sistemazione nell’opus magnum sopra citato. Questa vena classificatoria, tassonomica, interessantissima per chi si accinge a studiare la struttura dell’episteme dell’islam medievale, riemerge prepotente già all’inizio di questo trattatello. La citazione iniziale, che invitiamo a rileggere, sembra porre il Corano alle origini non solo di ogni scienza religiosa ma, si direbbe, di ogni scienza tout-court. Con scrupolo tassonomico nel cap. IV, al-Ghazali pone una prima fondamentale suddivisione tra le «scienze della conchiglia» (o anche della «scorza», o della «buccia») e le «scienze del nocciolo». Le prime vengono così elencate: la scienza della lingua araba (la lingua del Corano, ovvero della parola stessa di Allah) che comprende la grammatica l’etimologia e la lessicografia; la scienza della recitazione/salmodiazione (che avviene secondo regole e tecniche complesse, che richiedono la frequentazione di un corso paragonabile a una nostrana scuola di canto presso un conservatorio musicale); la scienza dell’interpretazione letterale (tafsir) del Corano ovvero del commentario alle scritture sacre; la scienza dei trasmettitori di tradizioni profetiche (hadith), che costituiscono il fondamento dello stesso tafsir in quanto nel hadith è la parola del profeta stesso che si fa primo commento alla parola di Allah contenuta nel Corano; la scienza della biografia, che indaga «storicamente» sulla vita e le qualità morali dei trasmettitori di hadith per stabilirne il grado di serietà e attendibilità. Come si vede, dallo studio del Corano si diramano scienze linguistiche, ermeneutiche, storiche e persino musicali ovvero le «scienze esteriori». Passando alle «scienze del nocciolo», esse comprendono almeno tre livelli. Al primo livello si situa la «conoscenza dei racconti del Corano e delle storie che riguardano i Profeti, i negatori e i nemici di Dio. Narratori (qussas), Predicatori (wu‘‘az) e Trasmettitori di tradizioni (muhaddithin) se ne sono fatti garanti» (p. 109). Il livello successivo, sempre delle «scienze del nocciolo», è quello costituito deal Kalam (la teologia) che consiste nella «disputa e nella contestazione dei miscredenti» e il cui fine è «la difesa delle opinioni religiose ortodosse dalle insinuazioni degli eretici innovatori» (ibidem) benché di per sé questa scienza -precisazione importantissima, come vedremo più avanti - «non ha alcuna attitudine a svelare le verità più segrete» del Corano. Allo stesso livello si pone la scienza del Fiqh (diritto) ovvero lo studio della Legge che si interessa soprattutto dei «problemi che riguardano la proprietà e le donne, onde servir a preservare l’individuo e la prole, e questa è la scienza di cui si occupano i giurisperiti» e ancora «la necessità di questa scienza è universale in relazione in primo luogo al bene del mondo terreno e, in secondo luogo, a quello del mondo ultraterreno» (p. 111). Segue una osservazione autocritica, quasi una presa di distanza in cui si coglie forse già un sintomo chiaro di quella crisi spirituale e professionale di cui s’è detto perché al-Ghazali, il «dottore» della Legge, non esita a ammettere che «questa scienza s’è nutrita di un numero infinito di inutili ricerche e di prolisse disquisizioni, cosicché le opere di diritto si sono moltiplicate, in specie sui cavilli più controversi. In realtà le differenze poi sono minime e l’errore si distingue di un pelo dalla verità» e «in esse abbiamo ecceduto anche troppo nelle distinzioni e nelle sottigliezze…» (pp. 111-113). Si sarà osservato che fin qui la tassonomia ha evidenziato precise figure professionali nelle «scienze del nocciolo»: i narratori, predicatori, i trasmettitori di tradizioni (primo livello), i teologi e i giurisperiti (secondo livello), che nel loro complesso formano anche una gerarchia in ordine crescente di importanza in cui risulta caratteristica - e tipica dell’islam medievale - una certa implicita preminenza assegnata ai giurisperiti ovvero ai dottori della Legge perché, se è vero che «i livelli del giurista e del teologo sono pressoché identici tra loro», occorre però ammettere che «il ruolo del giurista sia comunemente più necessario e quello del teologo più complesso e difficile». Il terzo e più elevato livello delle «scienze del nocciolo» comprende pur esso due dimensioni o livelli: «la scienza di Dio e dell’Ultimo Giorno, che è la scienza di ciò che è il fine, al di sotto della quale vi è la scienza della retta via (sirat mustaqim) e del modo di percorrerla (tariqat al-suluk)» (p. 115). Si tratta qui di una definizione di portata capitale per comprendere l’orizzonte epistemologico di al-Ghazali. Questo terzo livello delle «scienze del nocciolo» comprende apparentemente materia da teologi (Dio e l’Ultimo Giorno), che viene ulteriormente specificata in quattro grandi temi: l’«essenza» (dhat) di Dio, i suoi «attributi» (sifat), i suoi «atti» (af’al), cui si aggiunge la scienza dell’Ultimo Giorno (resurrezione, giudizio e retribuzioni ultraterrene). Ma come s’è visto poc’anzi i teologi, per al-Ghazali, si occupano di dispute con gli eretici e di contestazioni dei miscredenti in chiave apologetica, non molto di più, si situano insomma nella piramide delle scienze religiose a un livello inferiore, in compagnia dei giurisperiti… Fondamentale diviene allora comprendere il senso della seconda parte dell’ultima citazione che qui il Curatore, se m’è consentita una critica, ha tradotto in modo corretto ma non così trasparente da rendere la pregnanza semantica dell’originale. L’espressione originale tariqat al-suluk è formata in effetti da due termini centrali nell’esperienza e nel gergo dei sufi: tariqa (via, strada, modo/modalità, ma anche più tardi: confraternita) e il quasi sinonimo suluk con significati analoghi. Qui, attraverso questo gergo, al-Ghazali ci rivela che le «scienze del nocciolo» al più alto grado non appartengono ai teologi bensì ai mistici «viandanti» (salik, participio attivo con la stessa radice di suluk) coloro che si sono avviati lungo la via spirituale (tariqa o suluk). E infatti, passando a spiegare che cosa significhi percorrere la via della conoscenza di Dio, egli spiega: «La conoscenza più alta e più nobile è quella di Dio Altissimo, e tutte le altre scienze sono ricercate per essa e a causa sua, mentre la conoscenza di Dio non è voluta che per se stessa. Il modo di progredire è di elevarsi dagli atti agli attributi, quindi dagli attributi all’essenza [di Dio]. Dunque tre livelli, il più sublime dei quali è l’essenza, un livello di cui poco si può comprendere. Perciò è stato detto agli uomini: ‘Riflettete sulla creazione di Dio, non sull’essenza di Dio’» (p. 117). Sono si badi bene non i teologi (men che mai i dottori della legge o giurisperiti) coloro che attingono questi sommi e «nobili» gradi delle scienze religiose, bensì quell’elite spirituale che accompagna alle «scienze esteriori» quella condotta informata alla mortificazione e all’auto-purificazione costanti - ovvero alle «buone qualità» su accennate - che si identifica proprio con i seguaci della tariqat al-suluk, insomma della mistica sufi, cui al-Ghazali stesso doveva come abbiamo visto approdare. Ma l’ultima citazione si presta anche ad altre considerazioni che ci riportano all’episteme dell’islam medievale, per un verso, e al mondo contemporaneo per un altro. Essa ci fa comprendere per esempio una delle ragioni profonde della legittimazione delle scienze in generale, e di quelle naturali in particolare, nel mondo islamico medievale: il loro dichiarato e direi costitutivo «statuto teologico». Studiare la natura significava studiare la creazione di Dio (ovvero i suoi atti), cosparsa dei suoi infiniti signa (ayat allah, v. sopra), per cui lo scienziato naturale era (si sentiva) un «teologo»! Le scienze naturali (la «filosofia» in senso lato) sono insomma, in questo islam, una branca della teologia e non a caso fanno parte dei curricula studiorum delle università religiose; esse non si pongono strutturalmente in un rapporto antagonistico o concorrenziale con la teologia o la fede, bensì, anche in omaggio al precetto coranico di «ragionare» sui «segni di Dio» sparsi nel creato (v. sopra, peraltro rafforzato da un celebre hadith in cui Maometto dice: «Cercate la scienza, doveste recarvi anche in Cina!»), sono percepite come opera di somma pietas, di obbedienza a un precetto divino. Diremo di più, le scienze naturali in quanto studio degli atti del Dio Creatore, sembrerebbero situarsi nella piramide delle scienze disegnata da al-Ghazali, al disopra delle stesse scienze dei teologi e dei dottori della Legge! Per altro aspetto, il detto profetico sopra ricordato da al-Ghazali («Riflettete sulla creazione di Dio, non sull’essenza di Dio») verrà non a caso ripreso e sbandierato come uno slogan dai riformisti e modernisti musulmani a cavallo tra ’800 e ’900, nella loro lotta per promuovere lo studio delle moderne scienze e delle tecniche importate dall’Occidente «infedele e colonialista», fortemente osteggiato dagli ulema più conservatori che vi vedevano una minaccia alla cultura e alla stessa identità islamica. Questo e un altro loro slogan famoso («Il Corano non contraddice la scienza») diverranno le parole d’ordine di un vasto profondo processo di rinnovamento delle strutture educative e degli orizzonti culturali, dai territori dell’impero ottomano fino a quelli dell’India moghul e poi britannica. Processo che, pur contrastato da forze retrograde, è ancora vigorosamente in atto nonostante debba fare i conti ancor oggi con il fondamentalismo di marca più recente impegnato nella sua sanguinosa «romantica» battaglia di retroguardia; e che ci mostra, per altro verso, come l’insegnamento di al-Ghazali sia ancora vivo e capace, se rettamente interpretato e attualizzato, di «ravvivare» e promuovere un rinnovamento del mondo musulmano.
Tratto dalla Rivista Studia Patavina 2011 n. 1
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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