Il regime del solitario
-Testo arabo a fronte
(Classici)EAN 9788817127578
Esaurito
CHI HA ACQUISTATO QUESTO PRODOTTO HA SCELTO ANCHE
DETTAGLI DI «Il regime del solitario»
Tipo
Libro
Titolo
Il regime del solitario - Testo arabo a fronte
Autore
Avempace
A cura di
Campanini M., Illuminati A.
Editore
BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
EAN
9788817127578
Pagine
272
Data
2002
Collana
Classici
COMMENTI DEI LETTORI A «Il regime del solitario»
Non ci sono commenti per questo volume.
Lascia un tuo commento sui libri e gli altri prodotti in vendita e guadagna!
Recensioni di riviste specialistiche su «Il regime del solitario»
Recensione di Carlo Saccone della rivista Studia Patavina
Il bel volume che qui presentiamo si inserisce in una ormai cospicua serie di lavori curati da Massimo Campanini e tesa a divulgare, sempre con testo a fronte, alcuni dei testi capitali della filosofia araba conosciuti dal medioevo cristiano e latino. S’era cominciato con un testo di Averroè, Il trattato decisivo sull’accordo della filosofia con la religione (Rizzoli-BUR, 1994), e, sempre di Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi (UTET, 1997); poi il Campanini ha continuato con al-Farabi (La città virtuosa, Rizzoli-BUR 1996), e con un testo del teologo-filosofo al-Ghazali (Le perle del Corano, 2000). Nel lavoro qui presentato egli è affiancato da un grande studioso del problema della trasmissione dei testi della filosofia araba all’occidente latino e cristiano, Augusto Illuminati, professore di storia della filosofia presso l’Università di Urbino. Il quale ha prodotto importanti ricerche soprattutto sull’Averroè latino: Averroè e l’intelletto pubblico (Roma 1996) e Completa beatitudo (Chiaravalle 2000).
Partendo dal suggestivo titolo di quest’ultimo lavoro dell’Illuminati, possiamo agevolmente avvicinare la complessa materia del volume qui presentato. Questa “completa beatitudo” è identificata nella “felicità mentale” attinta dal filosofo che si è congiunto, secondo ben noti paradigmi neo-platonici, all’Intelletto Agente, l’ultima delle celesti intelligenze della divina emanazione, ovvero l’angelo della conoscenza”. Quest’idea di felicità mentale, come ci hanno mostrato i saggi di altri autori (si pensi a Maria Corti che indaga su Dante e gli stilnovisti) è certamente uno dei concetti fondamentali, una chiave insomma, per comprendere molta parte del mondo intellettuale medievale a Occidente come ad Oriente. Tutti i viaggi celesti, gli Himmelsreisen medievali, da quelli di Dante e Brunetto Latini, a quelli dei persiani Sana’i, ‘Attar, a quelli dell’arabo-andaluso Ibn ‘Arabi, possono ricevere il loro più congruo inquadramento filosofico-ideologico. Va da sé che questa ricerca di una superiore ed elitaria “delectatio in intelligibilibus” creò non pochi problemi con l’ortodossia religiosa, sempre sospettosa -forse non a torto al suo punto prospettico- di fronte alle vie solitarie, a quelle vie insomma che prospettano una salvezza individuale a prescindere dalla dimensione comunitaria della fede e soprattutto dalla mediazione dei suoi rappresentanti e codificatori (teologi, “preti” ecc.).
Avempace opera nella Spagna moresca tra il XI e XII secolo (muore nel 1139), ed è un contemporaneo di Averroè e di Mosè Maimonide, dei quali fu direttamente o indirettamente una guida spirituale e intellettuale. Ma il fondamento della sua dottrina sulla “felicità mentale” del filosofo deve essere forse fatto risalire più indietro, a un filosofo arabo di origini turche del X sec., quell’al-Farabi che è autore (v. sopra) del più celebre trattato di filosofia politica del mondo musulmano. Il quale aveva posto i termini del problema chiedendosi, in sostanza, quale fosse lo status della via dei filosofi rispetto a quella dei profeti. La sua risposta, destinata a influire profondamente su tutte le generazioni seguenti di pensatori musulmani, da Avicenna a Averroè e passando per Avempace, era che filosofi e profeti arrivano alla stessa verità, sia pure per vie diverse… L’impegno dei filosofi successivi sarà tutto incentrato sulla riflessione intorno al rapporto tra ragione e rivelazione, sulla legittimazione della filosofia come via autonoma alla verità di fronte alle obiezioni e alle opposizioni di certe correnti teologiche. Come si vede, il tema del rapporto tra fede e ragione non interessò solo l’Occidente latino-cristiano…
Nel testo di Avempace, dicevamo, il tema della felicità mentale è centrale. Ma esso sembra assumere qui un significato diverso da quello che ha tra gli autori, tutti poeti di ispirazione sufi, sopra citati (Sana’i, ‘Attar, Ibn ‘Arabi, ben noti attraverso varie traduzioni, anche al lettore italiano, ma se ne potrebbero citare molti altri). Secondo Avempace, che si volge criticamente alla società maghrebina del suo tempo, il filosofo nella Città Perfetta dovrebbe essere senz’altro incaricato del suo governo. Il fatto è che questo non gli è concesso, perché vive in realtà in una “città imperfetta”, dominata dal disordine degli appetiti e degli egoismi umani. Ne saprà qualcosa il suo allievo Averroè che dovrà precipitosamente abbandonare gli incarichi pubblici e autoesiliarsi a causa di intrighi di palazzo (lo stesso Avicenna, nell’oriente iranico, non ebbe più fortuna di Averroè come ministro di principi locali, e passò metà della vita in fuga inseguito da accuse di eresia…). Che fare dunque? Ecco che la prospettiva un po’ “escapist” della Felicità Mentale, dell’inseguimento individuale e “solitario” di un ideale di perfezione che si stenta a realizzare nella società del tempo (ma oggi, potremmo chiederci, è poi tanto diverso?), diventa un approdo limitato, certo, ma sicuro e gratificante per il filosofo. Una posizione che confina pericolosamente con la tentazione dell’ indifferenza morale di fronte ai rivolgimenti e storture dei tempi, di fronte all’apparente inemendabilità della “imperfetta città” del mondo; un rischio che però, in Avempace, sembra evitato dalla profonda consapevolezza della dimensione comunque sociale dell’operare filosofico. Infatti, certamente il “regime” più corretto in una città imperfetta è quello di chi si tiene in disparte (cap. 12); ma il “solitario” filosofo nella città imperfetta è comunque causa di emendamento e di progresso (cap. 11). E se nella città imperfetta si trovano “scienze erronee” (ahinoi, quanto attuali parole!), il filosofo che solitariamente professa “dottrine vere”, è in essa quale una “pianta” atipica che getta il suo buon seme e (cap. 10), e, pur con la propria individuale ricerca di perfezione, comunque contribuisce al suo miglioramento.
Non ci inoltriamo oltre nella materia di questo splendido volume, materia in cui, non ho difficoltà ad ammetterlo, mi difettano strumenti e preparazione adeguati. Segnaliamo qui di seguito solo alcuni spunti curiosi e degni certamente di attenzione, come ad esempio, nel cap. 7, la affermazione che la Città Perfetta, di evidenti ascendenze platoniche, è caratterizzata secondo Avempace dalla mancanza dell’arte della medicina e della giurisprudenza, perché non vi sarebbero più né “eccessi corporei” né azioni perverse… Ancora, nella Città Perfetta ognuno riceve secondo quanto necessita e merita (cap. 8), anticipazione di un ben noto precetto del futuro “paradiso della classe operaia”…; Infine, idea che apparirà solo nei padri del marxismo e diverrà poi uno dei grandi desiderata di tutto il movimento anarchico ottocentesco, Avempace afferma che il governo è “la medicina” adatta agli imperfetti e conflittuali rapporti sociali tra gli uomini, ma che esso è destinato naturaliter a scomparire nella Città Perfetta.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Partendo dal suggestivo titolo di quest’ultimo lavoro dell’Illuminati, possiamo agevolmente avvicinare la complessa materia del volume qui presentato. Questa “completa beatitudo” è identificata nella “felicità mentale” attinta dal filosofo che si è congiunto, secondo ben noti paradigmi neo-platonici, all’Intelletto Agente, l’ultima delle celesti intelligenze della divina emanazione, ovvero l’angelo della conoscenza”. Quest’idea di felicità mentale, come ci hanno mostrato i saggi di altri autori (si pensi a Maria Corti che indaga su Dante e gli stilnovisti) è certamente uno dei concetti fondamentali, una chiave insomma, per comprendere molta parte del mondo intellettuale medievale a Occidente come ad Oriente. Tutti i viaggi celesti, gli Himmelsreisen medievali, da quelli di Dante e Brunetto Latini, a quelli dei persiani Sana’i, ‘Attar, a quelli dell’arabo-andaluso Ibn ‘Arabi, possono ricevere il loro più congruo inquadramento filosofico-ideologico. Va da sé che questa ricerca di una superiore ed elitaria “delectatio in intelligibilibus” creò non pochi problemi con l’ortodossia religiosa, sempre sospettosa -forse non a torto al suo punto prospettico- di fronte alle vie solitarie, a quelle vie insomma che prospettano una salvezza individuale a prescindere dalla dimensione comunitaria della fede e soprattutto dalla mediazione dei suoi rappresentanti e codificatori (teologi, “preti” ecc.).
Avempace opera nella Spagna moresca tra il XI e XII secolo (muore nel 1139), ed è un contemporaneo di Averroè e di Mosè Maimonide, dei quali fu direttamente o indirettamente una guida spirituale e intellettuale. Ma il fondamento della sua dottrina sulla “felicità mentale” del filosofo deve essere forse fatto risalire più indietro, a un filosofo arabo di origini turche del X sec., quell’al-Farabi che è autore (v. sopra) del più celebre trattato di filosofia politica del mondo musulmano. Il quale aveva posto i termini del problema chiedendosi, in sostanza, quale fosse lo status della via dei filosofi rispetto a quella dei profeti. La sua risposta, destinata a influire profondamente su tutte le generazioni seguenti di pensatori musulmani, da Avicenna a Averroè e passando per Avempace, era che filosofi e profeti arrivano alla stessa verità, sia pure per vie diverse… L’impegno dei filosofi successivi sarà tutto incentrato sulla riflessione intorno al rapporto tra ragione e rivelazione, sulla legittimazione della filosofia come via autonoma alla verità di fronte alle obiezioni e alle opposizioni di certe correnti teologiche. Come si vede, il tema del rapporto tra fede e ragione non interessò solo l’Occidente latino-cristiano…
Nel testo di Avempace, dicevamo, il tema della felicità mentale è centrale. Ma esso sembra assumere qui un significato diverso da quello che ha tra gli autori, tutti poeti di ispirazione sufi, sopra citati (Sana’i, ‘Attar, Ibn ‘Arabi, ben noti attraverso varie traduzioni, anche al lettore italiano, ma se ne potrebbero citare molti altri). Secondo Avempace, che si volge criticamente alla società maghrebina del suo tempo, il filosofo nella Città Perfetta dovrebbe essere senz’altro incaricato del suo governo. Il fatto è che questo non gli è concesso, perché vive in realtà in una “città imperfetta”, dominata dal disordine degli appetiti e degli egoismi umani. Ne saprà qualcosa il suo allievo Averroè che dovrà precipitosamente abbandonare gli incarichi pubblici e autoesiliarsi a causa di intrighi di palazzo (lo stesso Avicenna, nell’oriente iranico, non ebbe più fortuna di Averroè come ministro di principi locali, e passò metà della vita in fuga inseguito da accuse di eresia…). Che fare dunque? Ecco che la prospettiva un po’ “escapist” della Felicità Mentale, dell’inseguimento individuale e “solitario” di un ideale di perfezione che si stenta a realizzare nella società del tempo (ma oggi, potremmo chiederci, è poi tanto diverso?), diventa un approdo limitato, certo, ma sicuro e gratificante per il filosofo. Una posizione che confina pericolosamente con la tentazione dell’ indifferenza morale di fronte ai rivolgimenti e storture dei tempi, di fronte all’apparente inemendabilità della “imperfetta città” del mondo; un rischio che però, in Avempace, sembra evitato dalla profonda consapevolezza della dimensione comunque sociale dell’operare filosofico. Infatti, certamente il “regime” più corretto in una città imperfetta è quello di chi si tiene in disparte (cap. 12); ma il “solitario” filosofo nella città imperfetta è comunque causa di emendamento e di progresso (cap. 11). E se nella città imperfetta si trovano “scienze erronee” (ahinoi, quanto attuali parole!), il filosofo che solitariamente professa “dottrine vere”, è in essa quale una “pianta” atipica che getta il suo buon seme e (cap. 10), e, pur con la propria individuale ricerca di perfezione, comunque contribuisce al suo miglioramento.
Non ci inoltriamo oltre nella materia di questo splendido volume, materia in cui, non ho difficoltà ad ammetterlo, mi difettano strumenti e preparazione adeguati. Segnaliamo qui di seguito solo alcuni spunti curiosi e degni certamente di attenzione, come ad esempio, nel cap. 7, la affermazione che la Città Perfetta, di evidenti ascendenze platoniche, è caratterizzata secondo Avempace dalla mancanza dell’arte della medicina e della giurisprudenza, perché non vi sarebbero più né “eccessi corporei” né azioni perverse… Ancora, nella Città Perfetta ognuno riceve secondo quanto necessita e merita (cap. 8), anticipazione di un ben noto precetto del futuro “paradiso della classe operaia”…; Infine, idea che apparirà solo nei padri del marxismo e diverrà poi uno dei grandi desiderata di tutto il movimento anarchico ottocentesco, Avempace afferma che il governo è “la medicina” adatta agli imperfetti e conflittuali rapporti sociali tra gli uomini, ma che esso è destinato naturaliter a scomparire nella Città Perfetta.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
ALTRI SUGGERIMENTI