Il ritmo dell'essere
-Le Gifford Lectures
(Di fronte attraverso.Opera omnia Panikkar)EAN 9788816411463
In quest’opera, l’ultima scritta da Raimon Panikkar, possiamo ritrovare gli accenti della ricerca sulla realtà e sulla verità che ha animato tutta la vita dello studioso e sacerdote cristiano-hindù-buddhista al tempo stesso, che non ha mai perduto la fede cattolica, come ebbe a dire tornando dal suo primo viaggio in India.
Panikkar intende dare una risposta alle fondamentali domande dell’uomo: la vita e l’essere, portandosi su un punto di prospettiva particolare, quello del divino, nella speranza di sostituire l’attuale visione generale del mondo, almeno occidentale. Pur trattandosi di un’opera di teologia cattolica, Panikkar estende i suoi interessi anche ad altri campi del sapere e ad altre forme di filosofia e teologia, che possano offrirgli spunti di riflessione. Ciò significa che egli attinge dalle opere più antiche dell’umanità (6-8 millenni fa), da molte tradizioni spirituali e filosofiche asiatiche, specialmente indiana e cinese, che possano integrare e allargare il patrimonio culturale dell’Occidente verso l’Oriente, per raggiungere una vera e propria multiculturalità che illumini l’uomo sul mistero del divino e al tempo stesso sul futuro dell’umanità.
Le due parole del titolo, il ritmo e l’essere, stimolano a una riflessione profonda sul tutto e la sua vita. Per Panikkar il “ritmo” è la vita dell’“essere”, la sua esistenza sempre attiva, in movimento, tale da assorbire il tutto in un’unica armonia. Essere è il tutto che si rifrange in ogni frammento di essere, in ciascuno degli esseri: l’essere non è distaccato dalla realtà, ma è la realtà stessa al livello cognitivo e ontologico più alto.
Secondo una parola hindù molto cara a Panikkar, il rapporto tra ritmo ed essere, come quello tra parti e tutto, tra uno e molti, non è conflittuale ma “advaitico”, aggettivo derivato dal sostantivo “advaita” [à-dvàità], traducibile come “non-dualità”. Ciò vuol dire che due elementi possono stare l’uno accanto all’altro percependo la loro relazione senza scatenare alcun conflitto tra di loro. Così il divino e la realtà, Dio e materia non si contraddicono a vicenda, ma si relazionano in maniera tale da permettere a Panikkar di parlare di una visione “cosmoteandrica”, dove l’uomo (-andrica) si trova al punto di confluenza tra l’universo (cosmo-) e Dio (te-). In questa relazione, però, nessuno dei tre è collocato al centro, sostiene Panikkar, per evitare assolutismi simili a quelli esistiti ed esistenti: ogni centro viene eliminato e l’uomo si trova semplicemente “al punto d’incrocio”.
I costituenti della realtà sono, dunque, fondamentalmente tre: il cielo, la terra e l’uomo che vive fra di loro, come microcosmo che ne riflette le caratteristiche. Quanto al fattore “Dio” Panikkar preferisce usare il concetto di “divino”, perché più ampio e incarnato in tutte le culture come una “invariante culturale”, ossia un dato di fatto e un elemento particolare di pensiero presente ovunque. Al contrario, non possiamo parlare di “Dio” come “universale culturale”, elemento onnipresente, perché tale concetto è sviluppato diversamente nelle diverse culture o non è sviluppato affatto.
Il divino, che talvolta è chiamato “Dio”, secondo l’esperienza di Panikkar, non è l’Uno plotiniano né l’Essere supremo/Dio dei vari monoteismi, ma è veramente “Trinità radicale”. Può sembrare strano, ma l’immagine di una triade è presente così profondamente nelle religioni che Panikkar la chiama “mito”, cioè complesso di verità indiscutibili, che sono alla base di una stessa società e ne determinano l’orizzonte epistemologico. Anche oggi, come in passato, l’Occidente ha avuto il suo mythos, perduto da quando la filosofia si è distaccata dalla teologia con esiti funesti, perché il sapere si è specializzato al punto da distinguere e distaccare le varie parti del mito, fino ad allora armonizzate in un unico paradigma.
Oggi l’umanità è alla ricerca di un altro mito e sembra che la globalizzazione e il tecnocentrismo possano diventare il mito del futuro. Per aver luce a questo proposito, Panikkar propone la domanda sull’essere non a monte, ma a valle: quale sarà il futuro, il destino dell’essere? Se tale domanda è lecita, allora bisogna rispondere con un altro concetto, quello di divenire. L’essere vive perché diviene sempre di nuovo essere, in una sorta di creatio continua, dove essere e nulla oscillano ritmicamente dando luogo al ritmo del tempo. Se l’essere non diventasse essere, la vita sarebbe morta e il nulla azzererebbe tutte le cose. Invece l’essere eternamente diviene nel tempo perché eterno e contingente sono in relazione di tempiternità: l’eterno è il compagno del tempo e viceversa, in un rapporto reciproco e continuo.
Per collocarsi su questa linea di pensiero serve uno strumento particolare e un’attitudine precisa: il “terzo occhio” (oltre a quello dei sensi e della ragione), l’occhio spirituale di cui parla Ugo di San Vittore (cf. p. 469) e la purezza del cuore. Sono questi i due requisiti che ci permettono di penetrare nell’essere della realtà, di farcene percepire il ritmo e di offrirci la possibilità di comprendere il tratto triadico/trinitario di tutte le cose. Facendo così noi raggiungiamo una visione “olistica”, globale, della Realtà e di Dio stesso.
Tuttavia, nemmeno il monoteismo, avversario principale di ogni teismo, ci offre le risposte cercate. Panikkar critica il monoteismo perché in esso la fede cerca di trovare espressioni razionali per le sue esigenze, che non giungono mai a essere definitive. In ogni caso, il monoteismo accetta l’apofatismo, ovvero l’assenza di qualsiasi razionalità, il silenzio sulla ragionevolezza della fede. Solo in una “relazione advaitica” Parola e Silenzio si avvicinano senza distruggersi a vicenda. Piuttosto, il tema sul quale il monoteismo è più debole, è quello che riguarda la libertà in relazione al male. Dio è buono, ma accetta il male, facendo solo quello che è bene, perché egli è buono per essenza. Infatti Dio non ha bisogno del libero arbitrio, della scelta: il bene è connaturato a lui.
Altra questione aperta è quella della sostanzialità di Dio, che per Panikkar non è necessaria in sé e per sé, non è rivelata, ma è solo un attributo connessogli dall’esterno, dall’uomo. Dio più che hypostasis (ciò che sta sotto), sostanza, dovrebbe concepirsi come hypokeimenon (sottostante, che sostiene), il sostrato assoluto di tutte le cose.
Quanto all’onniscienza, Panikkar avanza l’ipotesi che nel Reale possa esserci un fondo opaco, un aspetto oscuro che il logos, l’intelletto, non può raggiungere. Potrebbe darsi che non esista ancora un linguaggio capace di portare alla luce della coscienza questo lato che apparterrebbe anche al divino. Infine, nel monoteismo si è confuso l’essere con Dio, facendo della Trinità un Essere supremo. Panikkar invece intende superare i limiti del monoteismo, rivolgendosi alla nozione di “trinità”, che sta ricevendo – a suo dire – molta attenzione dalla cultura odierna. Essa spiega in maniera triadica sia la realtà naturale sia quella umana. Perciò Panikkar si ricollega alla più antica riflessione sul Dio cristiano e ricorda che in principio i teologi diedero molta importanza alla speculazione trinitaria. Panikkar è convinto che tra advaita e Trinità ci sia un legame di stretta somiglianza. Advaita indica una a-dualità, nel senso spiegato di coesistenza di elementi diversi che non collidono fra di loro, perché si relazionano al punto da essere solo relazione, o “interin-dipendenza” reciproca. Inter-in-dipendenza fa riferimento a un regime di elementi tra i quali vige una “ontonomia” specifica, un ordine di ciascuna parte in armonia reciproca, senza cadere in un’“eteronomia” massificante imposta dall’esterno, né in un’“autonomia” individualistica e ribelle che relativizza gli altri. Allo stesso modo all’interno della Trinità cristiana ciò che conta è la relazione reciproca intercorrente fra le tre persone, la perichoresis, la circumincessio, di cui vive l’essere trinitario prima di rivelarsi agli uomini e a prescindere da qualsiasi rivelazione possibile. Rivelarsi non significa degradarsi, ma esporsi alla conoscenza dell’unico essere capace di comprendere una rivelazione, ossia l’uomo. Ecco perché il mistero dell’incarnazione si comprende, per Panikkar, solo entro un orizzonte trinitario piuttosto che in un sistema rigorosamente monoteistico come quello ebraico. «L’intuizione trinitaria vede la realtà non-duale e irriducibile alla sola intelligibilità, perché accanto al principio di intelligibilità, ovvero il Logos, c’è lo Spirito, che in quanto tale non può essere confuso con il Logos. Allo stesso tempo, la realtà non può essere riducibile a un unico Essere in modo che tutto sia lo stesso» (p. 294).
Mondo, uomo e divino sono i tre elementi che strutturano il pensiero triadico universale. Così i corrispondenti Uomo-Cielo-Terra, Uomo-Intelletto-Anima sono “equivalenti omeomorfici”, somiglianze profonde che si ritrovano tra una cultura e l’altra. Panikkar porta gli esempi della riflessione vedica ed egiziana: lo stesso «Brahman è verità, conoscenza, infinità […,] la triade» (p. 298). Anche l’atman (Vita, Respiro, Corpo), il principio di vita, è trinitario. Ma se non si vuole andare troppo lontano e rimanere nell’ambito della cultura occidentale, basta pensare a Platone (Intelletto, Anima e Corpo del mondo), a Plotino (Uno, Intelletto, Anima), a Valentino (Trascendente, Intelletto, Anima o Sostanza), a Filone di Alessandria (che interpreta trinitariamente la visione di Abramo e dei suoi tre visitatori). Allo stesso modo Jung ritiene la Trinità come uno degli archetipi fondamentali dell’uomo, pur riconoscendo la necessità di una “Quaternità”, che offra maggior equilibrio alla psiche umana. Nonostante queste e tante altre testimonianze, Panikkar lamenta il fatto che l’antropologia attuale ha perduto il modello antico tripartito (corpo anima spirito), per accedere a uno dualista (anima e corpo, spirito e materia, uomo e universo), riducendo la realtà a due livelli soltanto, il sensibile e il razionale. Il terzo livello, il sacro, si è perduto: ecco perché esercitano molto fascino quelle religioni come l’islam e il buddhismo che conservano la schema tripartito e la presenza del divino accentuata nell’immanenza. Per tornare indietro, la nostra cultura occidentale ha bisogno di uno strumento ermeneutico particolare: il cuore, scrive Panikkar riprendendo il Corpus hermeticum. Il cuore è il mezzo per parlare di Dio: possiamo dire che il cuore è «la sede della nostra conoscenza completa» (p. 307), che non si accontenta della esperienza sensibile né dell’attività intellettuale o razionale. Senza poi dimenticare l’esperienza mistica, dove si trova una relazione immediata con il divino, facendo a meno della coscienza, e quindi di una conoscenza vera e propria.
Ragionando sul modello trinitario, Panikkar propone tre dimensioni del divino: 1) il silenzio: del corpo, che ne valorizza il lato sacro; della mente, che si ferma all’impensabile, a ciò che sfugge a ogni pensiero; e della volontà, che comprende così che “tutto è grazia”, suscita la gratitudine verso Dio e assicura a ogni essere una dimensione di libertà (cf. p. 433). 2) Il Logos: qui si chiarisce che il pensiero umano è una dimensione del divino che ci permette di esprimere anche il silenzio. Dal silenzio viene generata la parola, da esso nasce il pensare e il parlare del divino. Atteggiamento, questo, che si esprime ai massimi vertici nella glorificazione, nella gioia, nel canto, nella meraviglia per la creazione, nella preghiera. Scrive Panikkar: «Abbiamo bisogno di culto, non per chiedere l’elemosina a un Signore onnipotente, ma per collegare noi stessi, attraverso una serie di atti umani, a questo aspetto – altrimenti inesprimibile – della realtà» (p. 444). La preghiera dev’essere ascolto che accompagna ogni liturgia e apre alla dimensione divina. 3) L’azione: la ragione è creativa, ha bisogno di estrinsecarsi nella prassi, nell’operare come forma di spiritualità che scaturisce dall’esperienza del divino. Vivere in questa prospettiva significa trasformare il cosmo, divinizzare la creatura, contribuire a rendere evidente la presenza di Dio «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Cambiare il mondo significa dare un contributo perché le cose acquistino una forma divina, a partire dalla nostra spiritualità per passare poi all’ambiente che ci circonda, al mondo dove abitano ingiustizia e violenza. Senza questa trasformazione, secondo Panikkar, si rischia la stessa sopravvivenza umana, perché non si lascia agire l’ispirazione dello Spirito dentro di noi. Ricordiamo, insieme con Panikkar, che l’atteggiamento cosmoteandrico vede in ciascuna parte lo stesso mistero del tutto: salvare un essere creato significa portare il tutto sulla via della salvezza. Infine, trasformare le cose apre l’uomo alla partecipazione politica, perché religione e politica tendono insieme al bene comune e soprattutto la religione si apre alla felicità e al benessere definitivo dell’uomo in generale o di una comunità particolare. «Il mondo grida per un cambiamento radicale che non può essere puramente teorico, senza un fondamento nella prassi» (p. 459).
La ricerca sul mistero divino non può dirsi conclusa senza fare riferimento alla persona umana che cerca Dio. Panikkar insiste sul valore dell’uomo come immagine di Dio, specchio nel quale Dio stesso si osserva, e sulla contemplazione come apertura allo spazio dell’universo, in pratica e in teoria, come sentire, conoscere, amare, operare. Anche in questo modo si realizza «una spiritualità cosmoteandrica» (p. 471). Solo così la contemplazione esce dalla ricerca di una propria perfezione individuale e si fa contributo alla trasformazione del cosmo. Le battute conclusive del volume di Panikkar si soffermano sulla considerazione del mondo in cui l’uomo è destinato a vivere. Il punto di vista dove egli si colloca non è la moderna “cosmologia”, ma l’antica “kosmologia” che trattava della manifestazione del kosmos all’uomo. Ci troviamo davanti a miti culturali che fanno da sfondo alla vita quotidiana degli esseri e sui quali non si pongono le domande ultime, perché sappiamo di non avere risposte certe.
A partire dalla kosmologia possiamo interrogarci sul mito futuro che dovrebbe sostituire quelli finora esistenti e attivi. Le antiche visioni del cosmo si presentavano con un valore salvifico per l’uomo, considerato a volte un microcosmo. La visione cosmoteandrica proposta da Panikkar potrebbe occupare lo spazio vuoto lasciato dalla scomparsa dei miti culturali finora esistenti. Insieme con essa vanno pure analizzate le considerazioni della scienza, che ispira una visione globale ma tragica della fine dell’universo. Qui, un posto privilegiato spetta all’uomo, come elemento-chiave di qualsiasi kosmologia. Ciascuna si trova a chiedersi che cosa sia l’uomo che contempla gli spazi siderali: uno spirito incarnato o un animale intelligente ed evolutivo? Panikkar risponde che egli è l’uno e l’altro contemporaneamente e senza scissioni dualistiche che gli sarebbero letali. L’uomo piuttosto appartiene a una categoria a parte, la categoria appunto dell’ “umanità”, dell’humanum «irriducibile a Dio o alla Materia» (p. 492).
Per concludere, il mito che secondo Panikkar sta rivelandosi nelle nostre culture si alimenta alle scoperte scientifiche che vorrebbero ridurre l’uomo a puro oggetto di indagine ed eliminare il divino dal suo orizzonte di vita. Ciononostante, il divino non sparirà mai dall’esperienza dell’uomo e l’uomo si presenterà con tutte le sue caratteristiche a occupare il posto che gli spetta nell’armonia dell’Universo. Ancora una volta Panikkar ricorre al concetto di “trinità cosmo-te-andrica” come il mito possibile per il prossimo futuro che illumini il destino dell’Essere senza distruggere nessuno degli elementi in gioco, ma facendoli interagire in un «Tutto […] connesso al tutto, ma senza identità monista né separazione dualista» (p. 519).
L’Epilogo dell’Autore è una sommessa dichiarazione di scuse per non essere riuscito a comporre l’ultimo capitolo previsto dal progetto del libro, che avrebbe dovuto intitolarsi La sopravvivenza dell’essere. I vent’anni trascorsi dalle Gifford Lectures sono serviti a dargli la consapevolezza del proprio limite e della presunzione di poter affrontare questo tema.
Dopo una stringata analisi del libro, dal nostro punto di vista ci sembra doveroso riconoscere a Raimon Panikkar il tentativo di ricostruire una vera e propria ontologia triadica e trinitaria in grado di inquadrare e dar conto di tutta la realtà, senza mortificare le esperienze passate in questo senso, a partire dal lavoro dei pensatori antichi, del tomismo autentico fino allo sforzo di Heidegger. La nuova metafisica, non monoteista ma trinitaria, si potrebbe estendere a tutte le culture, perché vedrebbe l’uomo non solo come il ricercatore sul tutto ma anche l’orante verso il tutto, consapevole che è impossibile, per un fattore connaturato all’essenza umana, eliminare il piano del divino dalla cultura di ogni tempo e di ogni luogo. Panikkar ci lascia sbalorditi dalla quantità di domande poste in campo, senza offrire ogni volta risposte che avrebbe forse lasciato alla fine incompiuta del libro. Ma tale incompiutezza ci giova, come teologi e come filosofi, a rivedere i nostri schemi mentali, a rivoltarli del tutto e a ricominciare a sentire e a scrivere la vita dell’essere e di quell’essere particolare che, presente dappertutto, da molti è chiamato Dio e dai cristiani riceve un nome storico e immanente, Gesù Cristo, Via verso la Verità e compiutezza della gioia di essere uomini (cf. Gv 14,6 e 15,11).
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2013
(http://www.pftim.it)
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