Ci sono diversi buoni motivi per consigliare la lettura di questa raccolta di lavori scritti da Edmondo Berselli, per Il Mulino, dalla fine degli anni Ottanta a ieri. Anzi, a oggi, direi, visto che c’è poco da aggiungere alle vicende annotate dall’autore. La prima buona ragione per leggere questo libro – e per tenerlo a portata di mano – è che offre un’agenda accurata dell’Italia «pubblica» nel corso degli ultimi vent’anni. Seguita e rivisitata attraverso i passaggi tortuosi tra prima, seconda e terza Repubblica. Una sorta di block-notes che propone – e da cui è possibile trarre – appunti e spunti preziosi sugli eventi, le fasi, le persone che hanno segnato la nostra tumultuosa storia recente. Utile a ricordare, e a ricostruire, un tracciato marcato da molte fratture e al tempo stesso da molti elementi di continuità. È il romanzo – o se si vuole, per restare in tema con la tradizione nazionale, la commedia – di un paese alla ricerca della «normalità». Un approdo vagheggiato e mai raggiunto. Inseguito lungo il percorso rapsodico e ondivago che oscilla tra «rivoluzioni» e «involuzioni». Accelerazioni e frenate. Fratture e giunture. Grandi novità ed eterni ritorni. Fra le discese ardite e le risalite. Una «commedia all’italiana» recitata a soggetto da un coro di personaggi e di attori, indimenticabili, anche quando appartengono a un altro millennio, a un’altra Repubblica. Andreotti, Craxi, De Mita, Occhetto, Berlinguer, Cossiga, Scalfaro. (…) Quante persone, quanti marchi, quanti nomi sono passati sotto i ponti in quest’ultimo quarto di secolo. È successo di tutto. Il crollo del muro di Berlino e, in Italia, della prima Repubblica, la stagione dei referendum e di Tangentopoli, la discesa in campo vittoriosa di Berlusconi e la sua sconfitta, la discesa in campo vittoriosa di Prodi e la sua sconfitta (a opera del «fuoco amico»). E, ancora, il ritorno di Berlusconi e il ritorno di Prodi, cui ha fatto seguito, di nuovo, il ritorno di Berlusconi. Fra strappi secessionisti e rivendicazioni federaliste. Tra Forza Italia, Ulivo, Partito democratico. Casa delle libertà (CDL) e Popolo della libertà (PDL).
Berselli osserva tutto quanto, con curiosità e cura. Fatti, antefatti, personaggi, interpreti e luoghi. E li annota, li appunta a margine. Con disincanto e, al tempo stesso, passione. In modo ironico e divertito. O meglio: divertente. Ma prendendo sul serio questa materia, terribilmente seria, che è la nostra storia recente e presente. Perché c’è poco da ridere, sul nostro paese. Poco da divertirsi. D’altra parte, Il Mulino è una rivista prestigiosa, con una storia prestigiosa, dove, però, Edmondo Berselli non ha mai rinunciato a fare quel che gli è sempre riuscito meglio. Muoversi fra più registri, usando diversi stili e diversi approcci. Lui che ha sempre trattato allo stesso modo, con lo stesso rigore e con la stessa (auto)ironia, la politica e il football, la canzone leggera e la politica pesante, la filosofia e il gossip. (…) La seconda buona ragione per tenere questo libro a portata di mano è coerente e conseguente con quella appena indicata. Ecco perché lo consiglio come uno strumento ottico multifunzionale. Per guardare dentro ma, al tempo stesso, al di là e al di sotto degli eventi, dei personaggi, dei luoghi. Del nostro tempo. Fino a raggiungere – e a catturare – la struttura di fondo che caratterizza la nostra società e la nostra cultura. Per comprendere quanto le novità, anche le più clamorose e laceranti, della nostra storia recente non siano, comunque, estranee al nostro retroterra. (…) Da questa lettura scopriamo, ad esempio, quanto la Democrazia cristiana più che un partito passato sia una «categoria politica e sociale» perenne. Che evoca la capacità dei partiti maggiori – e non solo di quelli – di aderire alle pieghe del contesto nazionale e locale. Di assorbirne i valori, gli interessi, i modelli espressivi. I particolarismi. Assemblandoli senza, tuttavia, miscelarli. Mediando senza riassumere e senza sintetizzare. Generando «compresenza» più che «coerenza». Così tutto ritorna, come in un moto perpetuo, anche dopo la fine della prima Repubblica. Democristiani e democristianità, al di là delle biografie politiche personali, si ripropongono. Nel centrosinistra, nel centro, e ancor più nel centrodestra. Dentro Forza Italia, la CDL e il PDL. Perché, in fondo, è inscindibile dalla gestione del governo. Solo che si esprime in modo sempre meno «moderato», nonostante le auto-dichiarazioni. Perché i localismi, i personalismi, i particolarismi si presentano nudi e sempre più irriducibili. E dunque: sempre più espliciti e violenti. In questo paese dove il «qualunquismo» riaffiora di continuo e dà un colore del tutto specifico a ogni tensione, a ogni ondata di disagio e di protesta. Dove una delle principali forme che impronta il cambiamento è, come rammenta l’autore, il «trasformismo». Un metodo e un istinto, al tempo stesso, che permette di ricucire gli strappi, ma senza innovare mai del tutto. Di sopravvivere al crollo della prima Repubblica, ma senza giungere a una nuova «Repubblica» stabile. Senza superare i limiti del «paese provvisorio». Che ci fa apparire, di fronte a noi stessi, sempre uguali (a noi stessi), pur essendo cambiati. E ci fa apparire diversi (di fronte a noi stessi), anche se presentiamo elementi di continuità evidenti. L’attenzione al «basso continuo» del nostro paese, tuttavia, non impedisce a Berselli di cogliere i segni del tempo. Per tempo. Le fratture insanabili, mentre ancora potevano apparire sanabili. Risolvibili. Come nel 1991, quando i leader politici, primo fra tutti Craxi, erano convinti di superare la scossa del referendum e di sopravvivere alle elezioni dell’anno seguente. «Ma anche Luigi XVI annotava cinicamente “Rien” sulla pagina di diario del 14 luglio 1789. È terribile, visto quel che è successo in seguito, a Bastiglia appena presa». È l’appunto di Berselli. Profetico quanto tragico, visto quel che è successo in seguito, appunto. C’è, poi, una terza buona ragione per consultare questo libro. Ha un senso più «politico» e diretto. Visto che l’autore non si è mai sottratto al «rischio» di giudicare e di proporre, oltre che di valutare e analizzare. Disposto, comunque, a offrire indicazioni – e letture – «politiche», oltre che «politologiche» (…). Affiora, in particolare, la sua attenzione ai valori, ma anche agli interessi da rappresentare. La sua capacità di (e il suo sguardo proiettato a) marcare le divisioni fra destra e sinistra, in tempi nei quali queste parole sembrano, perlopiù, svuotate di senso. Eppure non è così, sottolinea Berselli. E lo ribadisce anche negli ultimi anni. Visto che la politica e le politiche seguite da Tremonti hanno un’impronta di classe molto chiara. A favore dei redditi da lavoro autonomo, degli imprenditori. «A favore della rendita e a scapito del lavoro dipendente (...). Esaltando le differenze di reddito e ripudiando le tendenze redistributive».
Anche se, aggiunge ancora Berselli, questa è una destra liberista «a parole», visto che in effetti appare corporativa e localista. Come dimostra l’insofferenza contro ogni regola ma anche contro ogni tentativo di liberalizzare davvero il sistema delle professioni. Come dimostra la reazione violenta verso il tentativo di riforma liberalizzatrice attuata da Bersani. Come dimostra il favore per un federalismo localista. Parallelamente, l’autore di queste pagine si esprime in modo critico, aspro (e amaro) contro la sinistra: afona, incapace di darsi un assetto stabile e progettuale, ridotta a rappresentare le minoranze etniche del «lavoro pubblico» e intellettuale, oggi largamente impopolari. Una sinistra alle prese con idee che ormai sono ridotte a feticci, parole povere di significato. Fra tutte: la «solidarietà», divenuta «uno slogan per tutte le stagioni (...), un appello convenzionale e distratto, una specie di tributo che non costa niente versare a parole per sentirsi e dimostrarsi dalla parte giusta. Si paga il ticket verbale della solidarietà e si ottiene la tessera d’iscrizione al club dei “buonisti”, dei fervidi “anticattivisti”». Così alla sinistra sfugge la vera «missione» storica che ha caratterizzato l’azione delle forze politiche di tradizione socialista, socialdemocratica o cattolico-sociale. Cioè: proporre e sostenere l’economia sociale di mercato. Un tema che echeggia di continuo, in questi articoli. E che troverà sviluppo nella sua ultima opera, il saggio breve, denso e acuminato dedicato a L’economia giusta, che si chiude con una frase molto simile al titolo di un capitolo proposto in questo volume (cf. Regno-att. 4,2011,117). Dove si invita a «redistribuire la povertà», invece di inseguire il mito della crescita infinita. Non per caso L’economia giusta è oggi molto presente nel dibattito politico (negli ambienti di centrosinistra, nel mondo associativo e del volontariato). Perché dà voce a una questione implicita, rimasta a lungo inespressa. Vale a dire: ma come è stata possibile tanta cecità di fronte al trionfo del paradigma liberista, nella versione che esalta(va) la finanza senza economia e senza società? E com’è possibile che oggi gli stessi che l’hanno celebrata per oltre vent’anni continuino a parlare e a dare lezioni, senza neppure un’autocritica – e senza che nessuno glielo rammenti? In questo diario fra tre Repubbliche che è L’Italia, nonostante tutto, il manifesto di Berselli (L’economia giusta, appunto) è annunciato, anticipato, tematizzato, in diversi punti. A prova di quanto la questione gli stesse a cuore. Per questo ha speso tanta fatica per scriverlo, prima di lasciarci. Come un contributo «vivo», non certo come un lascito o, peggio, un’eredità, La quarta buona ragione per leggere – e rileggere – questo volume è che ripercorre l’avvento della «democrazia del pubblico» all’italiana, la versione «nazionale» (o meglio, «locale») del modello tracciato da Bernard Manin. Fondata sul trionfo della personalizzazione e della televisione Edmondo Berselli, più di chiunque altro, l’ha colta e ricostruita da tempo e per tempo. Quando nessuno, o quasi, ne aveva colto l’impatto, Oggi siamo talmente immersi nell’irreality show che mischia vita e spettacolo, che non ce ne rendiamo conto. Così come non ci rendiamo conto di come sia potuto accadere tutto ciò. E in così poco tempo. Basta allora scorrere le pagine scritte in proposito da Berselli, il quale indica come la televisione «produca» l’assetto politico. Fin dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi alle elezioni del 1994. Allora «il clou di quella campagna fu rappresentato dal confronto, quello sì “bipolare” fra Berlusconi e Occhetto negli studi di Canale 5». Che estromise dalla competizione il polo centrista, peraltro già «escluso» dalla meccanica del confronto. Il bipolarismo imposto dalla televisione più ancora che dalle leggi elettorali. Ma soprattutto, in questo libro si dà conto, in modo lucido e spietato, del mutamento antropologico ed etico prodotto dalla tivù commerciale sulla società. A partire dall’epoca di Boncompagni e di Non è la Rai. Che egli definisce «un evento quotidiano senza pubblico, una “macchina celibe” di intrattenimento, dove i ruoli sono intercambiabili, a rotazione, fra protagoniste e gregarie... (“Le vogliamo carucce – ha teorizzato Boncompagni – perché se sono eccessive poi non c’è identificazione”) (...). Tutto perfettamente confezionato, più vero del vero, per quanto sigillato ermeticamente, sotto vuoto spinto». C’è davvero tutto quel che è successo dopo. Largamente annunciato da tempo. Certo, in seguito è dilagato. Ma era già scritto. Quasi vent’anni fa. La quinta, buona ragione è squisitamente estetica e intellettuale. Questo libro può venire letto, in fretta, soffermandosi su singole pagine e magari saltando da un pezzo all’altro, senza troppi vincoli. Senza seguire necessariamente l’ordine proposto dal sommario. In modo «disordinato», come suggerisce, giustamente, Bruno Simili nella premessa. Soffermandosi su una singola pagina, un paragrafo, senza necessariamente leggere l’intero capitolo. Per il gusto di scoprire e isolare osservazioni minime, cogliendo formule lessicali inedite e neologismi suggestivi. Che definiscono e aiutano a capire quanto e, talora, più di certe laboriose ed elaborate analisi. Perché Berselli è un virtuoso del linguaggio. Usa le parole per evocare, ma anche per interpretare. lo me ne sono servito spesso, nei miei articoli. E continuerò a farlo (…).
Tratto dalla Rivista Il Regno n.10
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