Lottare per la verità vuol dire lottare perché si verifichino condizioni sociali favorevoli all’instaurarsi di universi sociali sottoposti a regole». Così Pierre Bourdieu sintetizzò, in un libro-intervista, il fine del proprio impegno intellettuale in quanto sociologo e teorico dei fenomeni culturali. Uno dei contributi più rilevanti dell’opera di Bourdieu risiede nello studio attento e profondo di quegli ambiti della vita sociale degli individui in cui si danno le condizioni per instaurare e articolare relazioni interpersonali sottratte alla logica economicistica dello scambio e del commercio. Spazi in cui non viene mai presentata la possibilità di una irenica reciprocità tra i soggetti, ma dove ci si apre all’altro nella consapevolezza delle contraddizioni reali che pur connotano le relazioni gratuite e disinteressate.
La nuova edizione di Ragioni pratiche rappresenta uno strumento essenziale per la ricostruzione del vasto e articolato pensiero di uno dei maggiori sociologi europei del Novecento. Il merito di questa raccolta di saggi sta principalmente nel fornire una mappa della costellazione-Bourdieu: avendo sullo sfondo la sua idea di filosofia relazionale, in quanto metodologia di ricerca finalizzata all’emersione delle potenzialità inscritte nelle relazioni umane, il volume snoda e riannoda concetti come spazio sociale, capitale simbolico e habitus. Ne emerge un sistema sociologico capace di fornire strumenti interpretativi di straordinaria stringenza ed efficacia per la lettura delle società complesse contemporanee; è infatti evidente come le forme più sottili e pervasive di dominio non passino attraverso violenze e abusi da parte di precisi individui su altri, bensì attraverso quei processi di formazione dei significati e delle classificazioni sociali con cui definiamo e ci definiamo. In altre parole, le forme più incisive e occulte di dominio hanno a che fare con le concrezioni del potere simbolico.
Il presupposto imprescindibile da cui muovono tutte le ricerche di Bourdieu risiede nel dato di fatto che il reale è relazionale, ovvero che la realtà sociale coincide con il tessuto dei rapporti pratici e simbolici che gli individui instaurano tra di loro. La società, quindi, è configurabile come un insieme di spazi sociali o campi di potere. Alla luce di tale presupposto, le discipline della ricerca sociale non possono prendere le mosse da concezioni sostanzialiste degli interagenti; un individuo non è mai pienamente oggettivabile e riducibile alla determinazione conclusa di quelle specifiche qualità definitivamente esaurite nel nome proprio che gli viene attribuito. Alla verità del soggetto si giunge attraverso la realtà delle sue relazioni, o meglio, attraverso la raffigurazione dello spazio delle sue relazioni. Infatti «la nozione di spazio contiene, di per sé, il principio di una concezione relazionale del mondo sociale: afferma infatti che tutta la realtà da essa designata consiste nella mutua esteriorità degli elementi che la compongono» (45).
L’idea di spazio sociale, in quanto ambito delle relazioni e dei significati mediante i quali i soggetti si costituiscono, rivela la sua importanza soprattutto alla luce del concetto su cui vorrei maggiormente soffermarmi: quello di capitale simbolico. Esso consiste con «ogni specie di capitale (economico, culturale, scolastico o sociale) quando è percepita secondo categorie di percezione, principi di visione e di divisione, sistemi di classificazione, schemi tassonomici, schemi cognitivi che siano, almeno in parte, il risultato dell’incorporazione delle strutture oggettive del campo considerato, ossia della struttura della distribuzione del capitale nel campo considerato» (144). In altre parole, il capitale simbolico è l’insieme di quegli oggetti sociali contrassegnati da un valore cognitivo specifico sui quali ricade la conoscenza e il riconoscimento dei molti; esso è inoltre sintetizzabile anche attraverso il concetto di habitus. Il capitale simbolico, infatti, è quel deposito cognitivo di credenze e conoscenze di cui gli agenti sociali si costi- tuiscono; l’habitus, a sua volta, rappresenta l’insieme interiorizzato di tali credenze, esso è sia l’interiorità dell’esteriorità che l’esteriorità dell’interiorità. L’habitus coincide con «una storia incorporata, una storia fatta corpo, inscritta nel cervello, ma anche nelle pieghe del corpo, nei gesti, nella maniera del parlare, nell’accento, nella pronuncia, nei tic, in tutto ciò che siamo».
Il concetto di capitale simbolico assurge a luogo eminente nella riflessione di Bourdieu proprio perché, mediante esso, il sociologo francese riesce a costruire un’ampia fenomenologia di tutti quegli spazi sociali che si sottraggono, almeno in parte e per loro stessa definizione, alla legge dell’interesse e dell’ottimizzazione del profitto, propria del- le economie capitalistiche. Vi sono spazi e dimensioni dell’agire umano, come il campo della produzione artistico-letteraria, delle strutture familiari e delle organizzazioni ecclesiali, nei quali l’interesse non viene semplicemente sospeso ed eliminato, ma in cui ci si interessa al disinteresse. Gli ambiti appena citati rappresentano, dunque, universi pratici e simbolici in cui vigono specifiche leggi economiche, non esclusivamente orientate al perseguimento, razionalmente calcolato, del profitto monetario. In questi mondi il disinteresse è sociologicamente possibile perché il medium dell’interazione non ha la forma del denaro ma possiede una natura simbolica; esiste infatti un’economia dei beni simbolici, ovvero una logica di scambio e di commercium, propria della gestione sociale dei significati e dei concetti che usiamo per definire la nostra realtà. Le leggi che governano gli scambi simbolici so- no di natura cognitiva: ciò che viene scambiato, accumulato o sottratto è descrivibile in termini di conoscenza. Nel campo della produzione artistica, ad esempio, gli atti o i gesti simbolici sono possibili e comprensibili in quanto sono atti e gesti di conoscenza e di riconoscimento: riesco a comprendere, gestire e giudicare un prodotto letterario in quanto posseggo le stesse categorie di percezione e di valutazione di chi lo ha prodotto e di tutti gli altri che come me lo leggono. Ciò che dunque, negli spazi simbolici, viene capitalizzato, scambiato e gestito è proprio l’insieme di tali categorie di percezione e di valutazione.
L’economia dei beni simbolici, però, è del tutto particolare in quanto si fonda sulla rimozione collettiva dell’interesse economico. Gli spazi sociali della produzione artistica, della famiglia e delle comunità ecclesiali sono ambiti in cui si scambiano e si commerciano beni specifici il cui valore risiede proprio nella capacità di produrre un interesse al disinteresse. Per spiegare questo concetto apparentemente paradossale Bourdieu ricorre a un’attenta analisi delle relazioni inerenti la logica dello scambio di doni. Il dono instaura, per definizione, atteggiamenti antitetici al do ut des. La novità apportata dal sociologo francese al lungo dibattito filosofico sulla fenomenologia del dono risiede, a mio avviso, proprio nell’evitare di fornirne una visione irenica, adialettica e perfettamente conciliata. Il dono non è infatti immaginabile come compatta autodefinizione di una gratuità assoluta, anzi, riesce a dischiudere il portato dirompente della gratuità e del disinteresse proprio perché porta in sé la negazione o la tabuizzazione sociale del gesto interessato. Lo spazio sociale, governato dalla logica del dono generoso e gratuito, si rivela efficace solo se vissuto come tentativo, mai pienamente assolutizzabile, di sospensione dell’interesse economico. Lo scambio di doni è un paradigma dell’economia dei beni simbolici proprio perché, nel momento in cui qualcuno fa un dono gratuito, sospende la logica economica dell’interesse al guadagno ed entra in un ordine logico in cui l’interazione viene governata non strettamente dall’intenzione, ma da quelle silenti disposizioni simboliche che costituiscono l’habitus sociale. Il meccanismo del dono viene analizzato da Bourdieu proprio per spiegare come vi sono numerosissimi ambiti dell’esistenza umana in cui le nostre azioni non vengono puntualmente governate da un’intenzionalità cosciente e presente, bensì da una sospensione di questa in favore di quel silenzioso, ma onnipervasivo mondo dei significati simbolici che strutturano la nostra realtà sociale. «Il miglior esempio di disposizione è senza dubbio il senso del gioco: il giocatore che ha profondamente interiorizzato le regolarità del gioco fa quello che va fatto nel momento in cui va fatto e non ha bisogno di porsi esplicitamente come fine quello che c’è da fare. Non gli occorre sapere consapevolmente quello che fa per farlo, e tanto meno porsi esplicitamente il problema di sapere esplicitamente che cosa gli altri possono fare in risposta» (163).
Vorrei brevemente ribadire la dimensione sfumata e indeterminata dell’economia dei beni simbolici: i significati sociali fanno in modo che, soprattutto nelle differenziate relazioni affettive, si possa crescere nell’interesse verso azioni disinteressate proprio perché la loro natura non è mai pienamente compiuta ed espressa. Il concetto di famiglia, ad esempio, dovrebbe sempre più essere adoperato e gestito alla luce della ricerca comune e condivisa di quelle condizioni di possibilità di relazioni disinteressate, ciò di- venta però possibile solo se lo si comprende nella sua costante incompiutezza. Vale a dire, solo se lo si guarda in quanto bene simbolico, tendente intrinsecamente a farsi misura e spazio inclusivo di nuove e nascenti relazioni d’affetto e d’amore. I beni simbolici sono dunque beni relazionali, ma soprattutto disposizioni di significato sottoposte al legittimo e partecipato scambio tra chi ne dispone; essi non sono enti ma spazi relazionali, ecco perché, per Bourdieu, ha senso parlare di economia dei beni simbolici. Con un linguaggio affine, anche nella teologia del Novecento, è maturata una sensibilità verso i significati sociali in quanto spazi di uno presupposti per la ridefinizione degli spazi delle relazioni umane, partendo dalla perenne attesa di compiutezza delle nostre stesse categorie di giudizio: «Il punto centrale della teologia della rivelazione non è infatti un “essere”, ma il “commercium”. Questa teologia non si realizza quindi in categorie statiche, ma in rapporti (dinamici) che scorrono avanti e indietro, ma non rapporti in “concetti”, bensì soltanto in “parabole” e “immagini”, e quindi “simboli”, così come il Signore in Mt 13,11ss li innalza, con totale inesorabilità, come principio fondamentale del regno di Dio».
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 8
(http://www.ilregno.it)
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