Il contributo della Santa Sede al diritto internazionale
-Dal diritto in ingerenza alla responsabilità di proteggere la dignità umana
EAN 9788813314897
1. Sono tanti i motivi che spingono a riflettere su un tema come la sicurezza e l’uso della forza in un contesto internazionale che sperimenta, quasi quotidianamente, contrapposizioni, conflitti, guerre. Situazioni spesso drammatiche e soluzioni che stentano ad essere efficaci, forse perché necessitano di fondamenti ben saldi e strutturati. Intorno a questi temi si è concentrata l’interessante e ordinata ricerca che Ivan Santus ha condotto per concludere il suo percorso di Dottorato in Utroque Iure. Un lavoro che, partendo dal quadro offerto dal Diritto e dalla prassi internazionale, si presenta come tentativo –ben riuscito– di porre a confronto Normative, Istituti giuridici ed opinioni dottrinali differenti, nella convinzione che fermarsi solo a ricercare la cause della mancata sicurezza o rispondere in termini di emergenza non è più sufficiente. Un siffatto approccio, infatti, paradossalmente riesce solo ad essere il modo per rendere meno problematiche le situazioni che persone, comunità, Istituzioni, sono chiamate quotidianamente a subire o ad affrontare. Nella relazione tra sicurezza e uso della forza le soluzioni proposte dal Diritto internazionale restano direttamente collegate ai principi e alle finalità della Carta delle Nazioni Unite. Un contesto normativo ed istituzionale nel quale i due poli della relazione appaiono come pendent rispettivamente di pace e di guerra, e restano inquadrati in quella più ampia organizzazione dei rapporti fra Stati orientata «ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune», come recita il Preambolo della Carta. La prospettiva del Diritto internazionale pertanto non consente di disconoscere o ignorare che la guerra resta un fatto concretamente presente nelle analisi sulla convivenza mondiale e che la sua regolamentazione è legata al funzionamento delle Istituzioni della Comunità internazionale. Sul versante delle regole, infatti, il ricorso alla guerra da sempre evidenzia l’oggettiva indisponibilità delle parti in conflitto a rispettare i principi della convivenza internazionale o più ampiamente il Diritto vigente. La situazione di guerra parallelamente impone al comportamento delle parti in ostilità il rinvio alle Norme dello Ius in bello le cui disposizioni classiche, come quelle elaborate mediante codificazione, nella fase più recente hanno mostrato un minore livello di condivisione trasformatosi in alcuni casi in disapplicazione o in aperta violazione.
Un atteggiamento che giunge persino ad evidenziare il mancato rispetto del fondamentale principio di buona fede, circostanza quest’ultima di grande rilevanza riguardo sia ai conflitti recenti o in atto sia alla cosiddetta “politica della pace”, intesa come maturazione di indirizzi in sede multilaterale per un generale ricorso alla soluzione pacifica dei conflitti. Nella prospettiva di ricercare propri spazi ed effettività di risultato, all’azione internazionale sembra rimasto un solo ambito rispetto al quale continuare a confrontarsi: è quello riconducibile al dominio riservato (domestic jurisdiction) di ogni Ordinamento interno. Questo, però, restando consapevole che si tratta di una riserva sempre più erosa da un Diritto internazionale che in materia di sicurezza tende a lasciare al Legislatore nazionale un margine di autonomia ristretta, se non addirittura residuale.
2. Se il binomio diritto-forza, coniugato o contrapposto, è evidente in tutte le vicende che hanno segnato la vita della Comunità internazionale, trova altresì ulteriore considerazione nella prassi più recente, attraverso quella che è diventata l’azione umanitaria, coerente alle finalità dell’ONU per alcuni, non priva di pericolosità per altri. Si tratta di quelle ripetute situazioni che hanno coinvolto direttamente tutto il ruolo del Sistema delle Nazioni Unite, ma soprattutto posto diversi interrogativi circa il livello di coesione dei membri della Comunità internazionale rispetto alle regole in materia di mantenimento della sicurezza e della pace. Infatti, la natura di interventi dettati da esigenze cosiddette “umanitarie” ha fatto emergere sul piano operativo la necessità di prevedere le conseguenze di attività finalizzate a garantire il rispetto del Diritto internazionale nel suo complesso e, più specificamente, quando sono in gioco i diritti di persone, gruppi e popoli. Sul piano dottrinale e pratico resta pertanto da stabilire se tale allargamento, consentito da una interpretazione che combina i fini e principi dell’ONU (gli Articoli 1 e 2 della Carta) con l’obbligo di cooperazione socio-economica (gli Articoli 55 e 56 della Carta), ha trovato un generale consenso degli Stati membri, dal momento che il dibattito è aperto sui modi di conciliare le attività che rientrano nell’ambito dell’umanitario e i principi di non intervento negli affari interni e di rispetto del dominio riservato di un Paese. Infatti, si tratta di casi che non solo hanno posto il problema della tenuta del dominio riservato di ogni singolo Stato e quindi dei limiti di applicabilità dell’Art. 2.7 della Carta delle Nazioni Unite, ma ricondotto il dibattito alle decisioni adottate dagli Organi dell’ONU –e dal Consiglio di Sicurezza in particolare– circa gli interventi dettati da esigenze cosiddette “umanitarie”. Esigenze in cui confluiscono essenzialmente tre profili: l’intervento (e quindi l’uso della forza), la non ingerenza (e quindi il dominio riservato degli Stati), i diritti umani, loro rispetto e promozione (e quindi l’esigenza del primato del Diritto, con un riferimento non più solo indiretto alla persona). L’interagire di questi tre elementi è sostanzialmente un ambito nuovo che si presenta nel contesto del Diritto internazionale, soprattutto dopo le diverse azioni definite “di carattere umanitario” che nella Comunità internazionale hanno preso forma, sia su iniziativa delle Organizzazioni intergovernative sia di singoli Stati o gruppi di essi. Tutti questi elementi evidenziano immediatamente la loro portata giuridica quando si parla di diritto di intervento o di assistenza legati ad una manifestazione di potenza e quindi di forza come ricorda quella intervention d’humanité espressa dalla prassi dei grandi Stati europei nel XIX secolo di fronte alla “Questione d’Oriente”. Ovvero di obbligo di aiuto o d’ingerenza, identificati come altrettanti obiettivi della più ampia finalità della sicurezza internazionale, da raggiungere mediante strumenti di cui deve disporre la Comunità internazionale per garantire la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici. Lo indica bene l’autore, quando parla di azione finalizzata alla tutela dei diritti fondamentali e non a limitare discrezionalmente la libertà di singoli Paesi come diritto del più forte. Prospettiva certamente impegnativa sul piano politico e giuridicamente chiamata a confrontarsi con alcuni presupposti dell’ordine internazionale, legati essenzialmente alla tradizionale concezione della sovranità che chiama a sua garanzia il principio della non ingerenza negli affari interni. Queste diverse considerazioni relazionano l’umanitario direttamente con l’ambito di applicazione di alcuni dei principi fondamentali che regolano i rapporti internazionali, sintetizzati nella stessa Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione sui principi di Diritto internazionale vigenti nelle relazioni amichevoli tra gli Stati adottata dall’ONU nel 1970. Tra questi spicca il principio del non intervento negli affari interni, strettamente connesso a quelli del rispetto del dominio riservato e dell’integrità territoriale di uno Stato; il principio dell’autodeterminazione dei popoli; il principio del non uso della forza per la soluzione delle controversie; il principio della sicurezza collettiva e quindi dell’autotutela, intesa quale legittima difesa individuale e collettiva.
3. Un elemento nuovo è rappresentato dall’idea di “protezione” che gradualmente si è fatta strada, mostrando che il vero cuore del problema non sta tanto negli eventi, spesso violenti, o nell’impossibilità delle strutture di operare. È forse necessaria un’attenzione maggiore verso la dimensione umana della sicurezza, verso la realtà di chi realmente vive condizioni di incertezza legate agli eventi più diversi, dalle catastrofi naturali ai conflitti, alla mobilità umana, alla precarietà delle condizioni di vita, al propagarsi di malattie, al fenomeno terroristico, all’azione criminale transnazionale. Situazioni diverse, certo, ma tutte concorrenti nel richiedere protezione e cioè misure concrete per vincere timori ed ansie. Non è un caso, poi, che i costi –umani ed economici– per la sicurezza siano sempre più alti in un mondo dove numerose sono le crisi nelle differenti aree geopolitiche, con conflitti che combattuti in modo sempre più acceso non sembrano avere fine, con condizioni economiche che stentano a garantire livelli di sostentamento anche minimi.
Gli effetti, ne siamo coscienti testimoni, sono la perdita di vite umane, gli spostamenti forzati di popolazione, l’aggravarsi delle condizioni di indigenza di interi popoli, che poi diventano difficili da gestire o impossibili da estirpare. È in questo quadro che ritorna il termine “sicurezza”: la invoca chi attacca e chi si difende, eserciti regolari e formazioni di combattenti, affamati e ipernutriti, occupati e senza lavoro. Senza timore di essere smentiti da comportamenti che non sempre sono orientati a garantire condizioni di sicurezza. La stessa idea di protezione collegata alla sicurezza può forse essere il modo per affrontare le tendenze in atto, magari invertirne la prospettiva, ma non può costringere gli Stati e la Comunità internazionale a porre al centro delle preoccupazioni per la sicurezza la persona umana. Lo evidenzia il processo di elaborazione manifestatosi all’interno dell’ONU in relazione alle nuove sfide, che ha fatto emergere il principio della responsabilità di proteggere configurandolo in due possibili modalità di attuazione, non contrapposte, ma ordinate secondo il criterio della complementarietà. Si tratta anzitutto di una scelta di metodo, certo con dei limiti, ma che lascia intravedere una convinzione: alla protezione deve corrispondere un’azione responsabile capace di cogliere le esigenze effettive, di riscoprire quei vincoli di unità e di aggregazione espressi dai principi fondanti del vivere sociale, di dare legittimazione alle strutture comuni, alle regole giuridiche chiedendone il rispetto in nome della loro necessità, non perché imposte.
L’espressione “responsabilità di proteggere” affascina: se le relazioni interpersonali, come pure quelle nazionali ed internazionali, interiorizzassero questa posizione si potrebbe contribuire a superare difficoltà e conflitti di sorta che, se possono considerarsi ‘congeniti’ ad ogni tipo di umana relazione, diventano insormontabili quando queste relazioni riguardano l’azione degli apparati statali, dei Governi, delle Istituzioni internazionali. Interiorizzare vuol dire partire dalla sicurezza del piccolo gruppo, magari dell’unità familiare, dove una più responsabile considerazione è rivolta verso quei membri che richiedono maggiori attenzioni e cure, per poter così privilegiare quanti vivono in condizioni drammaticamente inumane e perciò insicure, o in lotta tra loro perché incapaci di passare attraverso la “porta stretta” del dialogo, della trattativa, del negoziato o, in una dimensione planetaria, dell’obbligo di risolvere pacificamente le controversie, prevenire i conflitti e garantire sicurezza.
4. Con estrema chiarezza l’autore indica che si tratta di un dibattito aperto nel quale si inseriscono coerentemente l’apporto del Magistero della Chiesa cattolica –quale istanza diversa da quelle politico-istituzionali– e nello specifico le parole pronunciate da Benedetto XVI di fronte alla platea delle Nazioni, nel corso della sua visita all’ONU il 18 maggio 2008. Parole che, come rileva questa ricerca, possono considerarsi un modo per avvalorare nella vita degli Stati e nelle relazioni internazionali una nuova “teoria della sicurezza” (o usando l’espressione più tecnica, della “responsabilità di proteggere”), che per essere operativa ha necessità di legarsi alla più articolata teoria della “prevenzione”: dei conflitti, della guerra, delle carestie, degli eventi naturali, delle crisi economiche, fino alla più ampia prevenzione di fronte al diniego della dignità umana. Dare concretezza alla responsabilità di proteggere significa adoperarsi per superare un modello di socialità ispirato al timore reciproco, alle ansie della quotidianità, all’allarme per il futuro; a quello che per gli Stati è chiamato deterrenza, sfere d’influenza, limiti di sovranità. E questo ritenendo che l’attuale modello, se non motivato dalla dimensione umana, non è in grado di garantire sicurezza e cioè prevenire contrapposizioni, violenze, ansie e timori, come non è in grado di scongiurare guerre, corsa agli armamenti, conflitti e disastri dagli effetti globali. Alla responsabilità di proteggere si congiunge il rispetto della legalità anche in presenza di palesi violazioni delle regole compiute all’interno di uno Stato o della Comunità delle Nazioni, spesso in ragione di ristrette vedute o di palesi egoismi, ma magari anche in nome di un desiderio di giustizia o di sicurezza. Non si può tralasciare di considerare che l’insicurezza di fronte alle gravi sofferenze prodotte alla persona umana, ha imposto allo Stato e alla funzione regolatrice del suo Ordinamento giuridico il ruolo di garante di diritti e libertà, introducendo strumenti e interventi a tutela dei più svantaggiati, per arginare l’ingiustizia, per contenere l’azione del più forte. Analogamente sul piano internazionale ciò si è espresso in quel concetto di “azione umanitaria” intesa come necessità di operare all’interno della sovranità di un Paese per garantirne la sicurezza, ma non come esercizio di forza, bensì quale obbligo imposto alla Comunità internazionale da principi ormai presenti nella coscienza dell’umanità che domandano di intervenire lì dove è a rischio la sopravvivenza di persone e gruppi umani.
Responsabilità di proteggere, dunque, così da prevenire effetti più estesi dell’insicurezza o conflitti dagli esiti imprevedibili: l’obiettivo però deve restare il rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali attraverso cui è possibile concorrere a realizzare una coesistenza ordinata e sicura, come pure ad eliminare contrapposizioni e scontri quale fattore concorrente alla prevenzione della guerra. 5. Nell’ultimo periodo la soglia di attenzione sulla sicurezza si è spesso confrontata sui modi per bilanciare le misure preventive ed il rispetto dei diritti, di fronte ad un crescente moltiplicarsi dei conflitti, ad una loro de-localizzazione, all’impossibilità di controllare il terrorismo. Come pure c’è confronto sull’interrogativo di quali siano gli effetti di fenomeni quali la povertà, la fame, il disastro finanziario, la crisi debitoria… La responsabilità di proteggere, allora, dovrebbe porsi come principio-guida per monitorare il rischio di inquietudine, di smarrimento, di disagio sociale, come pure di conflitti e di guerre destinati a protrarsi nel tempo, concorrendo così alla governance delle situazioni, unica risorsa dell’azione preventiva. Nell’avvicinarsi ai “punti di tensione” si percepisce chiaramente che tutto ruota intorno ai termini di giustizia e ingiustizia: se ogni persona ha diritto a vedere garantita la propria sicurezza, è anche vero che ogni azione non può essere limitativa della altrui sicurezza. Non esiste cioè una sicurezza prevalente, né un diritto che sovrasti l’altro, ma si richiede una necessaria composizione di interessi e posizioni differenti a cui non basta però il primato delle regole e della legalità.
Sicurezza e responsabilità di proteggere sono allora capacità di “governare” i diversi processi presenti nelle dinamiche sociali e nelle relazioni internazionali: lotta alla povertà, rispetto dei diritti fondamentali, adeguamento di risposta degli Organismi internazionali non sono soltanto delle strategie, ma possono concretizzarsi se sono il frutto di una sana reciprocità vissuta come vera uguaglianza tra le persone e tra gli Stati a cui fa da sfondo una fraternità intesa come principio capace di tradursi in regole: la solidarietà e l’assistenza, il dovere di cooperare e l’obbligo di risolvere pacificamente i conflitti, il rispetto degli impegni assunti e la tutela dei beni considerati comuni, sono alcune delle possibili applicazioni che affiorano dai contributi di questo prezioso studio. A chi ha avuto il privilegio di seguire l’autore in tutto lo svolgersi della ricerca, condotta con sistematicità e competenza, è stata offerta la possibilità di approfondire nuove tendenze che caratterizzano l’Ordinamento internazionale in questo periodo, scorgendo in particolare l’insidia di una frammentazione che l’idea dei self-contained regimes non riesce a ricomporre.
L’autore la propone come una pista di riflessione da seguire ed approfondire, indicandola come cardine di una ricerca che voglia essere effettivo servizio. Rileggendo queste pagine mi coinvolge, sulle tante possibili, una chiave di lettura chiara e profonda: la responsabilità di proteggere significa non escludere l’altro, perché la sicurezza possa essere effettiva e la pace non violata o derisa.
Tratto dalla rivista "Apollinaris" n.2 del 2012 (LXXXXV)
(http://www.pul.it/">http://www.pul.it)