Fare il confessore oggi
(Trattati di etica teologica)EAN 9788810505540
In modo organico e sistematico l’autore affronta la praxis confessarii, inserendosi nella sua lunga tradizione e rinnovandola. Il vol. costituisce un manuale di teologia morale destinato ai ministri del sacramento della confessione e ha di mira l’acquisizione di una loro competenza specifica, cognitiva e pratica, che non può prescindere da un percorso di preparazione professionale. Per comprendere il contesto attuale della celebrazione del sacramento, ben diverso dal passato, l’a. esamina alcuni aspetti significativi: il necessario rapporto tra fede individuale e valida celebrazione del sacramento, la disarmonia tra cultura dominante, etica cristiana, catechesi e sacramento della confessione, l’emergenza di una più diffusa pretesa di autonomia morale e il rifiuto della riduzione legalista della vita morale.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2012 n. 6
(http://www.ilregno.it)
Fare il confessore oggi non è facile per diversi motivi. B. Petrà, docente di teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale (Firenze), ne elenca tre: la rottura tra cultura dominante e contenuti etici della catechesi cristiana; la rottura dell’unità tra catechesi e sacramento della penitenza; la crescita della rivendicazione dell’autonomia morale.
Tre fattori che spiegano, almeno in parte, la fuga dal confessionale che è in atto nella chiesa cattolica da qualche decennio ormai. In base alle ultime stime solo l’8-10 per cento dei fedeli si confessa una volta al mese, il 50-60 per cento una volta all’anno, al massimo due. Il 30 per cento non si confessa mai. Ma quello che è piú grave è che all’appuntamento mancano soprattutto i giovani. Il che significa che fra non molti anni i nostri confessionali resteranno vuoti. Anche per questo l’autore richiama giustamente l’attenzione sulla mancanza di un’adeguata evangelizzazione e il conseguente «sovraccarico» del sacramento che ne è l’effetto. «Il sacramento infatti non può sostituire la grande azione evangelizzatrice della chiesa intera e può essere adeguatamente posto solo in una chiesa di credenti formati alla verità della fede e della vita» (p. 26). Il che significa che in riferimento al ministero del confessore – perché di questo si tratta principalmente nel saggio – sono ineludibili tre ripensamenti.
Anzitutto un ripensamento del rapporto tra ministero presbiterale ed educazione morale della comunità cristiana (pp. 27- 90). Ciò implica ripensare teologicamente il sacramento della penitenza e riconciliazione e a partire da questo ripensare la figura del presbitero e delle sue funzioni nella comunità come pastore ed educatore morale, pastoral moral guidance, maestro e profeta morale, «terapeuta» sacramentale. Se è vero infatti che non viviamo piú in una società cristiana è anche vero che «non si può piú partire dal presupposto di una coincidenza tra atti di integrazione sociale e atti di integrazione ecclesiale» (p. 29). Un secondo ripensamento concerne gli atti del penitente: contrizione, confessione, soddisfazione (pp. 91-114), che secondo san Tommaso costituiscono la «materia» del sacramento, mentre l’assoluzione ne costituisce la «forma».
Questo schema o modo di pensare e di parlare del sacramento è ormai estraneo alla nostra cultura. E tuttavia si può e si deve riconoscere che ha portato a una profonda ristrutturazione del dinamismo penitenziale nella misura in cui, nella confessione, attribuisce piú valore alla contrizione del cuore che all’accusa dei peccati; nell’accusa, valorizza maggiormente l’integrità formale che l’integrità materiale; e infine nella soddisfazione o riparazione dei peccati recupera piú l’aspetto medicinale che vendicativo della pena. Un terzo e ultimo ripensamento riguarda la figura del confessore (pp. 115-218), chiamato in quanto ministro della chiesa ad avere cuore e competenze «professionali» che siano all’altezza dei suoi doveri di giudice (valutare la conversione), di medico (perseguire la guarigione), di padre e pastore (buono e accogliente verso tutti). Doveri che ne presuppongono, ovviamente, anche altri.
Alcuni dei quali precedono l’atto proprio del pastore, l’assoluzione: il dovere a rendersi disponibile ad ascoltare le confessioni e il dovere di acquisire le disposizioni e conoscenze necessarie allo svolgimento del ministero. Altri lo accompagnano: il dovere di disporre il penitente alla celebrazione, di interrogarlo, di istruirlo, senza umiliarlo e tanto meno offenderlo. Altri infine lo seguono: il dovere di osservare il segreto o sigillo sacramentale, ma soprattutto il dovere di non usare mai il sacramento per orientare in qualsiasi modo il penitente al soddisfacimento di bisogni o interessi del confessore. Doveri tutti, come si può ben intuire, facili da elencare, ma difficili da praticare. Di qui l’invito ad avvalersi di alcuni principi tradizionali elaborati sulla base di una prassi, la cosiddetta praxis confessarii, che ha favorito lungo i secoli il formarsi di veri e propri manuali per confessori (penitenziali, summule, istituzioni morali) con indicazioni e regole su come trattare alcune categorie di penitenti (occasionali, scrupolosi, abituali) o affrontare problemi specifici particolarmente complessi e delicati (rapporti prematrimoniali, contraccezione, masturbazione, omosessualità, divorziati risposati).
È comunque la prima volta che dal tempo del concilio Vaticano II un autore italiano affronta in modo organico e sistematico una materia tanto tradizionale, quanto trascurata. Ricordo che papa Ratzinger una volta disse che i confessionali sono vuoti da tutti e due i lati. Intendendo con ciò sottolineare il fatto che l’abbandono del confessionale da parte dei fedeli a volte è preceduta da quella dei sacerdoti. Bene ha fatto dunque Petrà a riempire questo vuoto, a scrivere questo manuale, frutto di grande sensibilità e intelligenza pastorale, ma anche di notevole coraggio. È relativamente facile infatti denunciare la crisi che sta colpendo la celebrazione, ma piú in generale la prassi penitenziale della chiesa. Molto piú arduo e impegnativo analizzarne le cause e indicare le strade per superarla. Soprattutto se si tiene conto che i protagonisti della crisi, penitenti e confessori, sono sempre piú in difficoltà e spesso allergici non tanto al sacramento quanto a determinate modalità di interpretarlo e celebrarlo. I pregi del volume – ripeto, un vero e proprio manuale per confessori – non sono pochi.
Ne evidenzio alcuni: lo stile semplice e lineare, mai pretenzioso, dell’esposizione e della scrittura; l’articolazione chiara dei temi e dei problemi, dietro alla quale si intravede la grande preparazione storica, teologico-morale, ma anche giuridico-canonistica e pastorale dell’autore; e infine le due appendici, una sull’accesso dei fedeli all’eucaristia, l’altra sul disaccordo col magistero, che quanto meno evidenziano due problemi di grande rilevanza e attualità; per non parlare della ricca bibliografia, quasi tutta in lingua italiana, che rende facile la consultazione o l’approfondimento di questo o quel problema da parte di chi fosse interessato a proseguire la ricerca. Mi permetto di fare solo due i rilievi, anche in vista di una nuova edizione che non mancherà certo di apparire molto presto. Il primo riguarda l’analisi dello scarto tra dottrina morale del magistero e prassi dei fedeli che lascia intravedere problemi etico-normativi non bene argomentati e tanto meno risolti che costituiscono, questi sí, il vero e proprio «sovraccarico» che finisce per pesare sulle spalle dei confessori alle prese con una difficile mediazione pastorale. È ben vero che un manuale per confessori non è un manuale per teologi moralisti.
È anche vero però che molti confessori ne soffrono, soprattutto quando i fedeli chiedono lumi, pongono domande. Individuarli con precisione e rilevarne la debolezza argomentativa non potrebbe costituire – per quanto paradossale ciò possa apparire – un aiuto per i confessori e un invito a non trattarli formalmente in confessionale, ma eventualmente in un colloquio a parte, evitando di trasformare una celebrazione liturgica in una lezione di morale o peggio in una controversia tra penitente e confessore? Il secondo rilievo riguarda la casistica morale che l’autore introduce e illustra – molto bene per altro – sia dal punto di vista dei principi e criteri oggettivi di valutazione che dal punto di vista delle considerazioni pratiche, sempre sollecite e attente a recuperare e valorizzare anche elementi e criteri soggettivi di valutazione. La mia domanda è: perché non introdurre, accanto a una casistica classica, tradizionale, che attinge quasi esclusivamente alla morale sessuale, matrimoniale e familiare una piú aggiornata casistica di morale sociale, economica, politica, religiosa, che sviluppi nei confessori nuove sensibilità e modalità di formazione della coscienza dei penitenti?
Si dirà: ma è una casistica che non approda quasi mai in confessionale. È vero, purtroppo. Chi mai ha confessato peccati mortali attinenti a corruzione politica, esportazione di capitali, evasione o elusione fiscale, speculazione finanziaria, inquinamento ecologico, manomissione di impianti pubblici, privati, scarso rendimento nel lavoro, assenze ingiustificate dalla fabbrica, dalla scuola, dall’ufficio? O magari di non aver sempre rispettato i limiti di velocità, di aver parcheggiato in posti riservati ai disabili, di aver danneggiato, parcheggiando, auto altrui, senza mai avvisare il legittimo proprietario? O ancora di non aver aiutato il cane a tener pulito il marciapiedi, di aver imbrattato i muri o buttato per terra carte, mozziconi di sigaretta? I comandamenti non sono dieci? Possibile che soltanto uno di essi, nella fattispecie il sesto, sia cosí difficile da praticare da ritenersi obbligati a confessare ogni mancanza come peccato mortale e gli altri cosí facili da osservare che neanche passa per la mente possa trattarsi quanto meno di peccato veniale.
È vero – ripeto – che raramente i penitenti confessano questi peccati. Ma proprio per questo è necessario e per certi versi urgente rinnovare la casistica, introdurre nuove fattispecie, e in ogni caso educare i penitenti a confessare non solo fatti, comportamenti, ma colpe, peccati, fornendo loro criteri etico-normativi chiari, convincenti, bene argomentati, che li mettano nella condizione – come dice Gesú – di «giudicare da sé» la colpevolezza o meno di determinati comportamenti. Magari sviluppando maggiore sensibilità e attenzione anche nei confronti dei «nuovi peccati» o comportamenti moralmente erronei, sbagliati, ma soprattutto delle «nuove virtú» o atteggiamenti moralmente buoni, positivi, che in quanto cristiani siamo chiamati ad assumere e testimoniare in una società sempre piú incline a denunciare crimini, reati, ma poco disponibile a confessare colpe, peccati.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2012
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
Con questo volume B. Petrà affronta la teoria e la pratica del sacramento della riconciliazione ponendosi in ascolto e in dialogo con la sua lunga tradizione ecclesiale, recepita fedelmente ma anche aperta ad una ermeneutica teologica ed etica costruttiva e propositiva.
In tal senso, l’indagine da lui operata sul sacramento costituisce indubbiamente un’opera dai tratti originali, in quanto non si limita al solo scopo di offrire un manuale di teologia morale e sacramentale destinato ai ministri del sacramento della confessione, bensì ha come finalità anche quella di presentare un contribuito volto alla maggiore promozione di una loro competenza specifica che sappia individuare, nell’ascolto dei segni dei tempi, piste di rivalutazione teorica e pratica dell’arte del “ben confessare” associate all’imprescindibile consapevolezza che, sempre più, la celebrazione di tale sacramento comporta per il ministro un percorso di preparazione “professionale” (cf. 9).
Per comprendere i segni dei tempi che sempre con maggiore insistenza palesano la “crisi” (perlomeno nella pratica) di tale sacramento e la conseguente urgenza di un suo “rilancio” pastorale in un contesto storico sempre più esigente e impegnativo dal punto di vista morale, l’autore esamina alcuni presupposti culturali e storici alquanto significativi.
In primo luogo, da un punto di vista generale, la sempre più accesa disarmonia tra i contenuti della cultura dominante e la morale cristiana, ma anche, più specificatamente, la discordanza tra i contenuti principali della catechesi e la loro adeguata trasmissione nell’atto celebrativo del sacramento della riconciliazione.
In secondo luogo la necessaria rivalutazione del rapporto tra fede individuale, fede ecclesiale e valida celebrazione del sacramento, laddove si coniugano il ministero del presbitero e il discernimento morale che impegna i singoli penitenti e tutta la comunità cristiana.
Infine, l’emergenza di una sempre più diffusa pretesa di “autonomia morale” (cf. 21), connessa al rifiuto della riduzione legalista della vita morale che rimanda ad una esigenza di verità che si attesta alla coscienza soggettiva anche a partire dalla sua evidenza ragionevole (che dunque va compresa e accolta), e non solo dalla sua autorevolezza proveniente dalla tradizione e dall’istituzione ecclesiale e dunque, in ultima istanza, da Dio stesso.
Sulla base di questi tre elementi si tenta di spiegare il motivo dell’esodo sempre più massivo dal sacramento che si sta compiendo nella Chiesa cattolica da alcuni decenni e che sembra non essere destinato ad arrestarsi, interessando soprattutto le giovani generazioni.
Si tenta anche di individuare percorsi di recupero di una prassi che senza dubbio richiede maggiori competenze e attenzioni sia sul versante dell’impatto culturale che su quella della sua coniugazione con le esigenze di una nuova evangelizzazione la quale non può non tener conto della necessità di una più incisiva comprensione del Mistero della Misericordia di Dio. Come ricordava il card. Ratzinger, il 2 maggio del 2002, in occasione della presentazione della lettera apostolica Misericordia Dei su alcuni aspetti del sacramento della penitenza: «l’uomo è rinchiuso nel suo delirio di incolpevolezza», dimentico, nel suo orgoglio, delle debolezze, ferite, errori e peccati che egli dovrebbe piuttosto risanare nella scoperta e nella comprensione della Misericordia del Padre, rivelata in Cristo Gesù e nello Spirito Santo.
Tutto ciò costituisce una sfida per la Chiesa che è chiamata a riconsiderare tutta una serie di aspetti pastorali inerenti all’annuncio della Misericordia di Dio che non possono essere relegati al solo momento della celebrazione del sacramento.
Proprio per questo l’Autore richiama giustamente l’attenzione sulla mancanza di un’adeguata evangelizzazione a riguardo che sottende la pretesa che la sola celebrazione possa bastare a ri-sensibilizzare il cuore dell’uomo ad un rapporto umile e autentico con Colui che è Amore e Misericordia. Ciò è palesemente falso, dal momento che alla celebrazione accedono prevalentemente coloro che già hanno maturato una certa consapevolezza di tutto ciò, ma non coloro che ne sono estranei.
Come egli rileva: «Il sacramento non può sostituire la grande azione evangelizzatrice della Chiesa intera e può essere adeguatamente posto solo in una Chiesa di credenti formati alla verità della fede e della vita […]. Il ministro non può fare il confessore se al tempo stesso non esercita direttamente o indirettamente, il suo compito di educatore morale della propria comunità» (26). Il che significa che in riferimento al ministero del confessore, su cui principalmente si sofferma lo studio, sono necessarie almeno tre prese di coscienza che, tra l’altro, scandiscono le tre parti di cui lo studio è costituito.
Esse riguardano rispettivamente: a) l’importanza della sua relazione integrazione con la comunità ecclesiale quale comunità soggetta all’educazione morale dei presbiteri e a sua volta moralmente educante; b) l’importanza della sua attenzione al corretto svolgimento della celebrazione del sacramento con una particolare cura a che si compiano correttamente gli atti spettanti al penitente; c) infine l’importanza di una rivalutazione del suo ruolo “sacramentale”, ma anche “professionale”, con specifiche competenze di pastore, giudice e medico.
Per quanto riguarda il primo aspetto del rapporto tra ministero presbiterale ed educazione morale della comunità cristiana (cf. 2790) l’autore invita a ripensare teologicamente il sacramento della riconciliazione a partire dalla rivalutazione della figura del presbitero e delle sue funzioni come pastore ed educatore morale, maestro e profeta morale, ma anche come “terapeuta” sacramentale. Non vi è dubbio che nell’articolazione del suo pensiero egli introduca i lettori nella non facile arte del “ragionare nella fede” mettendo in risalto la necessità di operare coraggiosamente un vaglio tra istanze sociali e istanze ecclesiali. A riguardo afferma che, poiché non siamo più in una so cietas cristiana, non esiste una coincidenza tra socialità ed ecclesialità. Occorre pertanto distinguere tra spazio sociale e spazio ecclesiale tenendo conto che l’educazione morale dei credenti da un lato richiede una pastoral moral guidance e dall’altro l’applicazione sapiente della legge della gradualità, poiché il processo di scristianizzazione della società impone che «non si può più partire dal presupposto di una coincidenza tra atti di integrazione sociale e atti di integrazione ecclesiale» (29). In tale contesto, l’educazione morale dei credenti, se la si intende come un processo di discernimento e assunzione responsabile della verità morale (discretio moralis), non può che sottostare ad un unico principio: «uno non deve mai tentare di imporre ciò che l’altra persona non può sinceramente interiorizzare, a meno che non si tratti di prevenire una grave ingiustizia ai danni di una terza persona» (45). Così, il presbitero matura come pastore in proporzione all’emergere della sua capacità di mantenere la tensione fra polo oggettivo e soggettivo dell’esperienza morale. In tal senso non può essergli sufficiente l’apprendimento scolastico: occorrono anche esperienza, ponderatezza di ragionamento, grande sensibilità, pazienza pedagogica e capacità di empatia, aspetti che si possono sintetizzare nella cosiddetta “responsabilità maieutica” che l’Autore descrive come il compito «che i presbiteri hanno di far venire alla luce uomini che nella fede vivano con responsabilità la propria condizione e mettano a frutto i doni ricevuti per l’edificazione della Chiesa» (63).
Sul secondo aspetto che concerne gli atti del penitente – contrizione, confessione, soddisfazione (91-114) – l’Autore si impegna a coniugare regole pratiche a riflessioni spirituali ponendo in risalto come la “professionalità” del confessore vada intesa non in senso mestierante, bensì quale espressione di adeguata competenza che sa condurre il penitente all’arte del ben confessarsi. Questo richiede che il confessore sia un qualificato conoscitore della Tradizione vivente della Chiesa, ma che sappia anche applicare tale ricchissimo contenuto nel presente e nella concreta situazione soggettiva del penitente, attento a cogliere il dinamismo della sua vita spirituale guidata dalla grazia di Dio. A partire da ciò, «la celebrazione del sacramento della penitenza nasce da un incontro, l’incontro della grazia preveniente di Dio con l’uomo gravemente peccatore che accoglie l’invito del Signore Gesù e si converte al Vangelo» (93). Questo incontro genera la conversione nel duplice movimento di uscita dalla condizione di peccato e di ritorno al Signore. È proprio questo duplice movimento della conversione a delineare l’evento dinamico che porta, dalla costatazione del male, al rinnovato incontro con Dio.
Infine, circa il terzo aspetto che attiene il ruolo del confessore (cf. 115-218) chiamato ad avere cuore e competenze “professionali”, l’Autore indica tre istanze specifiche: egli, infatti, dovrà essere “giudice” capace di valutare la conversione, “medico” capace di perseguire la guarigione e “pastore” capace di comprensione e consolazione (cf. 130-131). A riguardo si insiste su una revisione dell’approccio del ministro nei confronti del penitente che riduca «il carattere legalista e oggettivistico dei principi per fare spazio ad una visione più personalistica e dinamica dell’agire morale» (168) che tenga conto della necessaria ma non sempre facile coniugazione «tra “il bene come verità oggettiva della vita” e “il bene come soggettiva esperienza di misericordia di Dio”» (170). Si tratta in fin dei conti di riscoprire quel compito pastorale del sacerdote che, in quanto curatore d’anime, non deve mai celare nel suo ministero la realtà dell’unico Pastore la cui volontà d’amore e di misericordia non è mai separata dalla Verità teologica e morale che egli annuncia.
Nell’atto di suggerire piste adeguate a compiere tale coniugazione tra oggettivo e soggettivo, l’Autore si avvale dei principi tradizionali elaborati sulla base di una praxis confessarii, che lungo i secoli ha sostenuto il formarsi di veri e propri manuali per confessori con consigli teorico-pratici su come affrontare le diverse tipologie di penitenti (occasionali, scrupolosi, abituali…) o affrontare problemi specifici particolarmente attuali oltre che complessi e delicati (rapporti prematrimoniali, contraccezione, masturbazione, omosessualità, divorziati risposati).
Il valore dello studio di Petrà è notevole. Egli, con stile semplice e lineare, articola temi e problemi complessi dietro i quali si intravede la sua grande preparazione storica, teologica, morale, ma anche canonica e pastorale. In ultima istanza, l’Autore riesce a coinvolgere bene i lettori in ciò che si prefigge di raggiungere sin dall’introduzione, tentando di conciliare il rispetto per la Tradizione e le norme ecclesiastiche con le esigenze oggettive e soggettive delle due parti in gioco nella celebrazione del sacramento (confessore e penitente), sebbene occorra rilevare che, forse, il peso dato agli aspetti canonici risulta preponderante, lasciando un poco in ombra la rilevanza della presenza di Colui che, nel sacramento, si dona e opera efficacemente a favore del penitente e dell’intera comunità cristiana. In ogni caso, un eventuale squilibrio in tal senso può essere facilmente colmato in seguito all’approfondimento dei preziosi testi magisteriali e teologici a cui l’Autore rimanda ampiamente e costantemente.
Si può inoltre aggiungere, a giustificazione del taglio di indagine assunto nel testo, che l’Autore, avendo presente che per la maggior parte dei confessori è scontato che la validità del sacramento non dipenda dalle qualità soggettive del confessore e del penitente ma dall’azione della grazia santificante della Santissima Trinità, ha certamente preferito dare maggiore attenzione a ciò che non è scontato, ossia al fatto che «la fruttuosità del sacramento è il risultato non solo delle disposizioni del penitente ma anche delle attitudini del ministro» (30).
A integrazione di una teologia sacramentaria dell’ex opere operato è sicuramente un bene che l’Autore abbia dato altrettanto rilievo al valore dell’incidenza dell’ex opere operantis. Questo comporta che si eviti nella praxis confessarii qualsiasi formalismo o ritualismo celebrativo per dare spazio alle rispettive responsabilità del confessore e del penitente. In particolare, un’attenzione maggiore alla teologia dell’ex opere operantis non può che stimolate il ministro ordinato ad assumere prima, durante e dopo la elebrazione del sacramento, tutte le dimensioni dell’educazione morale: dimensioni cognitive, affettive e pratico-comportamentali (cf. 37-38).
Probabilmente, una maggiore sottolineatura della teologia sottesa al nuovo rituale del sacramento della riconciliazione, come pure una maggiore attenzione al senso della liturgia quale dinamica essenzialmente relazionale, avrebbe giovato ad una migliore armonizzazione dei dati esposti e ad una valorizzazione della più recente teologia sacramentale conciliare e post-conciliare, la quale coniuga sapientemente dimensioni trinitaria ed ecclesiale della riconciliazione, varietà ministeriale del popolo di Dio e formazione della coscienza morale a partire dalla Parola celebrata.
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2013
(http://www.pul.it)
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Andrea Manzone il 23 luglio 2012 alle 22:42 ha scritto:
Consigliato a chi si prepara o già esercita il ministero di confessore. L'autore è chiaro, sapendo conciliare armonicamente tradizione e contributi della teologia moderna. Vengono toccati tutti i campi e tutti i casi....davvero bello, ma soprattutto utile!
Daniele Sciacca il 3 marzo 2021 alle 09:53 ha scritto:
Un ottimo testo per chi è chiamato al ministero della riconciliazione. Ottimo per i seminaristi, ma indicato anche per chi esercita il ministero da più anni! L'autore colma una lacuna vistosa di questi ultimi anni: la praxis confessarii !!!