Teologia e bioetica
-Cinque conversazioni con Antonio Autiero
(Scienze religiose)EAN 9788810415177
I problemi della medicina e delle bioscienze incalzano l’etica e così anche l’etica teologica. Le risposte che essa avanza sono di gran lunga più complesse e sorprendenti di quanto percepito all’interno del dibattito pubblico. Donazione d’organi, morte assistita, ricerca sulle cellule staminali, biopolitica: a proposito di questi importanti temi il teologo morale Autiero conversa con cinque autorevoli esponenti della politica e della scienza (due medici, un biologo molecolare, un filosofo) di area tedesca.
Tratto dalla rivista Il Regno 2010 n. 10
(http://www.ilregno.it)
Il teologo Goertz e la teologa e giornalista Klöcker hanno invitato cinque autorevoli esponenti della politica e della scienza a discutere con il teologo Antonio Autiero dell’Università di Münster sulla donazione d’organi e la morte assistita, la ricerca sulle cellule staminali e la biopolitica. La teologia incontra così la bioetica: un incontro stimolante.
Tratto dalla rivista Concilium n. 3/2010
(http://www.queriniana.it/rivista/concilium/991)
I testi, derivati da interviste, inevitabilmente non possono avere quell’approfondimento che nasce dalla possibilità, da parte dell’autore, di riflettere e rivedere con la dovuta ampiezza l’esposizione del proprio pensiero. Premesso ciò, si deve riconoscere che in questo caso l’opera si presenta interessante, anche se agevole: nella mole come pure per la terminologia utilizzata. Si giunge, così, alla prima considerazione: purtroppo non di rado accade di esaminare libri il cui linguaggio risulti quantomeno di difficile comprensione, specie per i non addetti ai lavori.
Nel volume in questione, invece, l’esposizione si rivela di normale comprensione anche per un pubblico non specializzato. Nella Nota introduttiva all’edizione italiana, S. Furlani utilizza il termine di “linguaggio chiaro” (p. 9): aspetto che costituisce sempre e comunque un valore aggiunto, e non soltanto per le opere divulgative, ma anche per quelle specialistiche. Purtroppo, non vi sono bibliografia né note. I temi trattati sono cinque argomenti importanti riguardanti, come esplicita il titolo stesso, la bioetica; essi sono, di volta in volta, affrontati a quattro mani, da un esperto dei singoli settori e da un teologo, A. Autiero, che di bioetica si occupa da tempo.
Gli specialisti sono tutti dell’area germanica ed inevitabilmente ne deriva che il punto di riferimento sia la legislatura di quel paese; d’altra parte, non meraviglia, essendo il volume la traduzione italiana di un originale tedesco pubblicato nel 2008. Per contro, la bioetica necessariamente trasborda ogni eventuale limite nazionale. S. Furlani sottolinea che «la teologia morale ha assunto recentemente, sulla scia dei progressi delle biotecnologie, una rilevanza e una posizione assolutamente nuove […] e pertanto ha offerto alla teologia fondamentale gli stimoli più significativi […]» (pp. 9-10). Le riflessioni dell’autore citato possono (e dovrebbero) costituire un ottimo spunto, ovviamente, in particolar modo per quanti si occupano di morale.
Ed a tale proposito, proprio la necessità di un procedimento nel fare scienza più “fluido” (p. 10) dovrebbe costituire un paradigma per le scienze: in merito, si apre il grande campo di indagine e confronto che porta a considerare lo stretto legame che unisce tra loro le diverse discipline. Le quali troppo spesso vengono considerate eccessivamente chiuse in se stesse, senza tener nel debito conto che la scienza in realtà è unica; ed i vari campi di indagine altro non sono se non gli aspetti di un’unica verità, come dire le facce di una sola, mirabile, pietra preziosa (quasi fosse un diamante). Altro aspetto interessante, sottolineato da S. Furlani (viene dedicato ampio spazio alla breve Nota introduttiva all’edizione italiana, poiché l’autore pone in evidenza temi, che possiedono notevole importanza all’interno dell’opera), è: «la necessità di definire (e ridefinire) un quadro giuridico che sia il più rispettoso possibile della dignità e della libertà personale, senza per questo cedere alla vaghezza […]» (p. 14).
Per molti ambiti della bioetica, questo è un tema davvero rilevante ed urgente; costretta, purtroppo, a navigare tra i due opposti scogli di Scilla e Cariddi, costituiti dalle numerose difficoltà del rispettare quelle “dignità” e “libertà personale”, che vanno salvaguardate ad ogni costo; e, contemporaneamente, da norme giuridiche chiare, la cui presenza appare ogni giorno più inderogabile. Le considerazioni presenti nel testo in esame possono costituire un ulteriore apporto in merito a tale dibattito. Affrontando ora i vari contributi, la prima questione affrontata è legata ai trapianti, con le numerose difficoltà, non soltanto tecniche, ma anche e soprattutto ontologiche, che caratterizzano questo settore; a tale proposito l’interlocutore è un medico, particolarmente esperto in trapianti cardiaci, che ha eseguito a centinaia (per l’esattezza, circa quattrocento), H. Scheld.
Il professore appena citato affronta subito il tema della morte. Un argomento, che nella nostra società assume due aspetti, per taluni versi contrapposti: su un fronte un’atavica paura (sarebbe più esatto usare il termine terrore?); è inevitabile che la caduta del senso del sacro tenda a privare l’uomo attuale di un’adeguata difesa interiore contro di essa. L’argomento risulta essere molto complesso ed è certamente riduttivo il tentare di liquidarlo con poche battute; tanto più che nelle varie società assume caratteristiche differenti. Fermo restando che le attuali considerazioni si limitano alla nostra società occidentale, dei paesi ricchi, per intenderci; nei quali il suddetto senso del sacro ha subito profonde modificazioni negli ultimi decenni, portandolo spesso ad una (apparente?) sostanziale scomparsa per molte persone. In realtà, però, è un problema a cui nessun essere umano può davvero sfuggire.
Per contro, al suddetto aspetto (paura) se ne aggiunge un altro, quello della fuga: l’uomo attuale fa del tutto per non pensarvi. «Il tema della morte, nella nostra società, continua a essere un tabù. […] Non si riesce a parlare del morire, sebbene questo aspetto faccia parte senza dubbio della nostra vita» (pp. 18-19). Come non tornare col pensiero al personaggio di Tostoj, Ivan Il’i?, nel racconto La morte di Ivan Il’i?? Fintanto che la morte non lo coinvolge in prima persona, fa del tutto per allontanarne il pensiero: ben diverso, il suo atteggiamento allorché vi si trova di fronte, a causa di quella grave malattia che lo porterà alla morte. Fermo restando che andrebbe posta in evidenza la lotta, con le conseguenti difficoltà, che è costretto ad affrontare in quel momento drammatico: ben altra cosa sarebbe stato se si fosse confrontato con quel (grave) argomento ben prima nella sua vita.
In merito all’aiuto nei confronti del morente, se da un lato il professore (H. Scheld) indica la necessità di un adeguato sostegno anche da parte di chi possa supportarlo sul fronte religioso; dall’altro sottolinea la necessità nei confronti degli stessi medici di un aiuto per mezzo di uno psicologo: «[…] quasi vent’anni fa, ho detto che anche noi abbiamo bisogno di uno psicologo, specialmente per i trapiantati. Nella nostra clinica, in generale, è ormai assolutamente impensabile fare a meno della nostra psicologa» (p. 20). È evidente che i risvolti sono molti e variegati; però, non sarebbe indicata anche la presenza di un sacerdote, quantomeno in supporto alla figura dello psicologo, dato il tipo di necessità da affrontare? E non è forse anche questo tipo di atteggiamento un ulteriore esempio di quanto nella nostra società si abbia pudore (ma sarebbe forse meglio utilizzare il termine paura?) della morte, specie nella sua dimensione che oltrepassa il tempo e lo spazio? Da notare, per inciso, che in tale circostanza A. Autiero non interviene.
Tornando al tema dei trapianti (donazione) d’organi, da cui quello della morte prende spunto, non è possibile ignorare quell’argomento cruciale che inerisce il prelievo dei suddetti organi: infatti per essere espiantai in modo tale che possano essere a loro volta re-impiantati è necessario che il donatore sia appena morto. E qui emergono le difficoltà; che si concentrano essenzialmente su quale definizione di morte debba essere accolta per valida. Ovviamente, questo non può essere l’ambito in cui si sviluppi la tematica in questione: solo qualche notazione, estrapolata da quanto emerge dal testo. H. Scheld, il quale si ricorda essere un cardiochirurgo, ha l’esigenza che la definizione in proposito sia la più puntuale possibile, ma pure che il momento in questione (dell’avvenuto trapasso) non sia troppo lontano dal tempo in cui gli organi erano in perfetto
esercizio; cosa più che comprensibile, in quanto se così non fosse, di fatto, non si potrebbero operare trapianti. Ed utilizza la seguente, per altro oggi molto diffusa, definizione: «Una persona è morta quando la sua attività cerebrale è completamente cessata […] la diagnosi di morte clinica è la diagnosi più sicura dell’intera medicina» (p. 24). In realtà, le cose sono assai più complesse di quanto non possa apparire ad un primo sguardo. Innanzitutto, non si può essere certi che vi sia un così stretto legame tra quanto attualmente viene definita come “cessazione dell’attività cerebrale” e la morte dell’individuo in questione; tanto più che non si può né sottovalutare né, tantomeno, ignorare che l’individuo in questione non è soltanto tale, bensì è anche persona. È proprio l’essere persona che genera tutte le difficoltà emergenti; infatti se tale non fosse, mantenendo soltanto l’individualità non vi sarebbero particolari complicazioni ontologiche e, di conseguenza, pratiche.
Alcuni studiosi perseguono una via in tale direzione: si pensi, solo per citare un esempio, pur con gli adeguati ampliamenti ed approfondimenti che sarebbero necessari, ad H. Jonas. Tornando a ripetere che il problema si presenta davvero complesso, senza con ciò sostenere che quanto affermato da H. Scheld sia falso, si vuole soltanto evidenziare che vi sono ragionevoli dubbi in merito. Per contro, è evidente che, non accogliendo la suddetta definizione, le donazioni di organi subirebbero quantomeno una brusca frenata (o un arresto?), con la conseguenza che numerose vite non si potrebbero salvare o, per lo meno, vivrebbero con difficoltà di gran lunga maggiori. Per altro, anche gli stessi intervistatori, S. Goertz e K. Klöcker, sollevano il problema (cf. pp. 26-27). Anche questo si presenta come un quesito, e non di rado accade in bioetica, combattuto tra due opposte difficoltà: nel caso estremo, la salvezza di una persona dipende dalla donazione di un organo da parte di un’altra ovvero la morte di una persona (gravemente malata e sostanzialmente destinata al decesso) costituisce la salvezza di un’altra.
Sull’altro fronte: una persona è sempre portatrice di diritti che la rendono affatto intangibile; come dire: non è ipotizzabile che per salvarne una se ne sacrifichi una seconda, fintanto che quest’ultima non sia realmente e definitivamente defunta. In altri termini, noi siamo in grado di verificare quel processo che (normalmente) conduce alla morte, ma ben altra cosa è il constatare il momento esatto della morte stessa. Il perno della questione verte sulla definizione di morte, nel senso di accertamento della medesima. D’altro canto, ridurre l’individuo (in tal caso, persona) ad una sua funzione, sia pure di importanza rilevante, quale la cosiddetta attività cerebrale, appare quantomeno riduttivo.
In un passato, talmente recente da risultare ancora presente per non pochi (anche specialisti), si tendeva a considerare l’individuo, nella sua accezione più ampia (vegetale, animale ed umano: ovviamente quest’ultimo presenta problematiche non soltanto di natura fisiologica, bensì anche spirituale, che complicano ulteriormente il problema), come un insieme di sistemi sostanzialmente assemblati tra loro. Oggi, invece, appare sempre più evidente che l’individuo è un tutto integrato, in cui i singoli apparati sono collegati tra loro da una struttura a rete, che li rende sostanzialmente un tutt’uno. Questo aspetto è affatto rilevante in merito alla definizione di morte; infatti, ciò che lo studioso deve indagare a fondo, per risolvere quel quesito tanto importante per l’essere umano, è proprio il momento in cui la detta individualità venga meno.
L’individualità, in questo caso, va intesa come sostanziale unità del soggetto. È evidente che allorché un animale, per esempio, cessi di respirare, muore; ma il momento in cui muore non consiste in quello in cui cessi di respirare, bensì quello in cui non costituisca più un tutto integrato; infatti, solo per citare un aspetto, le sue unghie continueranno a crescere ben oltre la sua morte. Qualcosa di analogo accade anche per il cervello (meglio se si considera l’encefalo): è comunque un organo, sia pure di una importanza e complessità eccezionale.
È riduttivo pensare che esso costituisca la sede di ciò che fondi la differenza tra l’animale e l’essere umano; infatti, pur essendo quello umano più complesso, presenta comunque numerose analogie con quello di altri animali, tanto più evidenti quanto più si salga nella scala zoologica. A proposito di analogie tra l’uomo e gli altri animali, in realtà, anche sotto il fronte genetico, esse sono assai maggiori di quanto non possa sembrare a prima vista, specie per colui che non sia un esperto in materia. Se le cose stessero in quei termini la differenza sarebbe quantitativa e non qualitativa, per cui di fatto i diritti tipici della persona non avrebbero fondamento ontologico A. Autiero si esprime così: «l’uomo in quanto persona è un’unità in sé. Questa unità dell’essere umano ha bisogno di una forza interna che fonda questa unità, e questa forza è il cervello.
Esso non è riducibile a pura funzionalità, bensì è il garante dell’identità personale» (p. 25). Il linguaggio non è certamente di tipo biologico, ma non sembra essere condivisibile, perché a fondamento (implicito) di quanto espresso nel passo riportato v’è la concezione che la dimensione spirituale sia separabile da quella fisica (materiale). In tal modo si verificherebbero notevoli difficoltà in merito all’unità ontologica dell’essere umano nelle sue due dimensioni (spirituale e materiale); infatti, se una la si potesse separare dall’altra sorgerebbero gravi difficoltà circa la «unità dell’essere umano». Inoltre, come si può definire “forza” il “cervello”? Certo, la problematica è molto vasta, ma sembrerebbe che vada impostata con parametri differenti. In definitiva, appare semplicistico il modo in cui il suddetto problema sia stato affrontato dal cardiochirurgo citato; pur riconoscendo (lo si ripete) che una definizione di morte sia indispensabile, particolarmente per chi si occupa di trapianti. Come dire che il lettore non esperto del settore può non ricavare, dalla lettura del testo, la reale portata del quesito.
Un aspetto, invece, giustamente evidenziato è quello della solidarietà, alla quale A. Autiero ha collegato il concetto di “dovere morale”: «ritengo la donazione d’organi un dovere, ma non da un punto di vista giuridico, poiché se qualcuno ha un dovere, altri hanno diritti […] un dovere, ma in senso morale. […] Un dovere morale contribuisce a realizzare un essere umano in forma compiuta» (p. 29). Vi sarebbe senz’altro da approfondire in merito, ma è comunque argomento importante su cui è necessario riflettere seriamente. Fermo restando che la solidarietà comporta, in prima battuta, il prendere atto dell’impegno che essa implica per ogni singola persona nei confronti soprattutto dei suoi simili, ma poi anche dell’intero creato. Se il creato non è soltanto qualcosa di cui il singolo possa beneficiare (sfruttare), bensì è parte dello stesso soggetto, poiché egli ne è porzione non accessoria; a sua volta deve porsi pensiero del modo in cui egli possa sovvenire alle difficoltà altrui.
Non per nulla questa conversazione ha per titolo: «L’obbligo dell’amore cristiano per il prossimo? […]»; anche se il termine “cristiano” non figura esplicitamente in essa (la conversazione in questione). La successiva conversazione riguarda le cellule staminali e coinvolge un noto biologo, specialista del settore, H. Schöler. Ovviamente l’argomento di fondo inerisce le cellule staminali embrionali ovvero quelle che si ottengono eliminando (uccidendo) un embrione: «cellule staminali embrionali […] finora le si può ottenere soltanto prelevandole da un embrione che così viene distrutto» (p. 40). Pur se «nello stadio di otto cellule, si può prelevare una cellula senza distruggere l’embrione» (p. 40), in realtà le difficoltà non sono poche, sia da un punto di vista tecnico, sia tenendo conto che in tal modo l’organismo (in questo caso, umano) viene privato di una parte consistente (appunto, un ottavo) della propria struttura.
In realtà le capacità di sviluppo, a quello stadio (in qualche modo: età), sono davvero elevate; tanto più se si esamina il caso dei gemelli monozigotici; per altro evento complesso, in cui verosimilmente si dovrebbe utilizzare il termine di generazione, ma il discorso diventerebbe eccessivamente vasto per le possibilità di queste pagine. In definitiva, a fronte di tali grandi capacità di sviluppo, che in questa circostanza potrebbe definirsi di recupero, è moralmente corretto sottoporre l’embrione a una tale difficoltà? Senza tralasciare quanto precedentemente accennato in merito all’organismo, quindi anche l’embrione, come un tutto integrato e non un insieme di cellule assemblate tra loro. Il tema è molto complesso e, lo si ripete, non affrontabile in questa sede; è però quantomeno verosimile che determinare un placet eccessivamente rapido possa rivelarsi piuttosto pericoloso.
Il biologo distingue le staminali adulte, che non comportano difficoltà di natura ontologica e presentano meno rischi, ma, per contro, «finora soltanto in così pochi casi si possono isolare e moltiplicare in quantità tali da poter essere sufficienti per una terapia» ed inoltre «non in tutti gli organi ci sono effettivamente» (p. 42), da quelle embrionali, le quali, oltre agli ostacoli ontologici di cui sopra, presentano «il rischio che a un certo momento esse finiscano fuori controllo e diano origine a un tumore» (p. 41). Per contro A. Autiero afferma: «Ritengo che l’interesse particolare della ricerca sulle cellule staminali embrionali sia moralmente legittimo sulla base dei possibili risultati di questa ricerca» (p. 42).
Come lo stesso teologo riconosce «Il punto saliente» della questione risiede nell’«inviolabilità dell’embrione umano» (p. 43); inviolabilità non come presupposto teorico, bensì come risultato di ricerche, le quali abbiano dimostrato che l’embrione umano è già persona a pieno titolo e non soltanto persona potenziale. Fermo restando che ogni dimostrazione scientifica in genere, e sperimentale in particolare, comporta inevitabilmente un margine, più o meno ridotto, di incertezza. A. Autiero utilizza il termine “in divenire” (p. 44), che potrebbe essere inteso come già persona in quanto tale, la quale si sta sviluppando, ma allora ogni persona è “in divenire”, perché fino alla morte ognuno con tinua a svilupparsi. L’altra interpretazione potrebbe avere a che fare con la persona in potenza, ma non ancora tale, come sostenuto da un’ampia corrente di pensiero, la quale corrente normalmente limita la suddetta potenzialità alla stria primitiva ovvero all’embrione di circa due settimane; un autorevole rappresentante di questa linea di pensiero è N. Ford. Questa seconda concezione comporta davvero notevoli difficoltà.
Tornando alla suddetta dimostrazione, circa l’essere persona dell’embrione fin dalla sua origine (ovvero dalla singamia) va ritenuta senz’altro fondata; quantomeno per chi abbia adeguate conoscenze in merito e sia privo di precomprensioni. A fronte di ciò, si condivide con A. Autiero che «la vita che comincia» e «il bene della salute» siano certamente «due beni» (p. 44); ma non si può ritenere accettabile che il primo sia sacrificabile al secondo. La terza conversazione inerisce Questioni di biopolitica (p. 53) e l’interlocutore, oltre al citato teologo, è W.-M. Catenhusen, che afferma: «ho compreso che bioetica e politica procedevano insieme indivisibilmente e che è necessario impegnarsi, come eticista, anche negli organismi politici » (p. 55). La quarta verte su Questioni relative alla morte assistita (p. 75), con B. Schöne-Seifer.
In essa A. Autiero dichiara: «quello di morte naturale è un concetto molto problematico» (p. 75) ed in qualche modo si riallaccia a quanto già visto per la prima conversazione, pur se in questo caso inerisce piuttosto l’accompagnamento alla morte; in altri termini, si rivolge a colui che è prossimo alla morte e non a colui, come nel primo colloquio, che dalla morte altrui riceva un prolungamento della propria vita. In questa parte si affrontano, ovviamente, anche i temi della morte assistita e del testamento biologico.
La quinta, ed ultima, riguarda La bioetica tra teologia e filosofia (p. 91) ed affianca il moralista un altro moralista, pur se filosofo, L. Siep; il quale alla domanda dell’intervistatore circa «una possibilità per una riappacificazione dei conflitti», risponde: «Credo che questi conflitti debbano essere superati all’interno di un reciproco processo di riconoscimento» (p. 104); conflitti che facilmente passano dalla dimensione speculativa a quella concreta, magari anche di lotta armata. In definitiva, un testo che alla maneggevolezza (sia per la mole, che per l’esposizione) unisce il toccare argomenti di rilievo; i quali, per il non esperto, possono risultare di buona introduzione, mentre, per l’esperto, possono costituire utile occasione di riflessione.
Tratto dalla rivista Lateranum n.2/2011
(http://www.pul.it)
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