La recezione del Vaticano II
-Tornare alla sorgente
(Nuovi saggi teologici)EAN 9788810405994
Testo di approfondimento, di sintesi teologica, di attenzione alla contemporaneità ecclesiale, che si articola in due volumi: I. Tornare alla sorgente; e il prossimo, di cui siamo in attesa, II. La Chiesa nella storia e nella società.
Tratto dalla rivista Concilium n. 2/2012
(http://www.queriniana.it/rivista/concilium/991)
A due anni di distanza dall’uscita dell’originale francese, le edizioni Dehoniane hanno il merito di proporre in traduzione italiana un testo di Christoph Theobald destinato a segnare il dibattito contemporaneo sul Vaticano II e la sua recezione. Il ponderoso volume raccoglie il frutto di molti anni di ricerca sul Vaticano II e la sua specificità, con l’ambizione propriamente teologica di collocare il Concilio nel processo lungo della tradizione ecclesiale, intesa però in un senso dinamico, alla luce del concetto paolino di paradosis.
Piú precisamente, Theobald intende mostrare come il Vaticano II intrattenga, «nella sua reinterpretazione di tutta la tradizione, una relazione specifica con il tempo presente» (p. 20), e questo in una prospettiva al tempo stesso ecumenica e biblicamente fondata. Theobald suddivide la sua indagine in cinque parti che forniscono un inquadramento storico e che riguardano rispettivamente: 1) la storia e le tipologie dei precedenti concili ecumenici, tra i quali il Vaticano II fatica a trovare un modello adeguato; 2) la fase preparatoria del Concilio e l’emergere di una nuova coscienza ermeneutica; 3) l’evento conciliare e il suo corpus testuale complesso e singolare; 4) la storia della sua recezione, unitamente a una teoria della recezione; 5) l’analisi dei luoghi testuali, principalmente Dei Verbum, nei quali si precisa il principio ermeneutico della pastoralità. Un secondo volume, già annunciato, svilupperà una lettura intertestuale e a ritroso dell’intero corpus, alla luce precisamente del principio di pastoralità.
Ne emergerà il tema centrale della chiesa e della sua credibilità nella società di oggi. Il punto di partenza della ricerca consiste nel considerare i conflitti interpretativi circa il Vaticano II (le ermeneutiche contrapposte della continuità e della discontinuità o riforma) non come il frutto dei travagli postconciliari di una chiesa e di una società alle prese con il compimento dei processi di secolarizzazione, ma come l’evidenza di una dualità rinvenibile nell’evento conciliare stesso e iscritta, senza essere del tutto risolta, nel corpus testuale da esso prodotto. Un tale giudizio si avvale evidentemente dell’enorme lavoro di ricerca storica ormai svolto sul Concilio, dunque in ultima istanza del fatto che esso sia ormai inquadrabile come fatto storico. Una tale comprensione dell’evento storico Vaticano II e dei documenti ufficiali da esso prodotti spinge Theobald a riconsiderare la storia della recezione del Concilio e a sottolineare l’esigenza che questa recezione entri ormai in una fase nuova. Se nel postconcilio e fino a oggi un comprensibile spirito di sintesi e riequilibrio ha dominato il rapporto con il Vaticano II, sostenuto dalla preoccupazione del magistero di iscrivere armoniosamente le attestazioni conciliari nelle esperienze dell’epoca precedente salvaguardando la continuità degli sviluppi dottrinali, oggi è possibile, grazie al distanziamento della storicizzazione, prestare attenzione al modo di procedere dell’assemblea dei padri conciliari, e in particolare alla loro capacità di affrontare tensioni e conflitti a partire da un rinnovato ascolto dell’altro («altro» inteso come ogni membro della medesima assemblea avente posizioni diverse ma anche, in senso forte, come estraneo alle posizioni e convinzioni della chiesa cattolica).
Questo modo di procedere, ispirato al vangelo, rappresenta una novità di enorme portata ed è pienamente conforme all’ideale di una verità non posseduta e da cercare insieme. Nel privilegiare la forma del dialogo anziché quella del monologo, una tale modalità ha saputo servirsi anche di formule di compromesso, quali si trovano disseminate attraverso l’intero corpus testuale dei documenti del Vaticano II. Il compromesso, anche e soprattutto in campo dottrinale, può essere visto come l’ammissione, da parte del Concilio, della propria storicità e dell’impossibilità di venire a capo dei conflitti nelle precise condizioni storiche in cui ci si trovava a operare. Theobald mette in luce cosí l’aspetto positivo del compromesso. Lungi dall’oscurare lo «spirito profetico» del Concilio, esso ne rappresenta l’ultimo sigillo, che consiste nell’umile coscienza di una incompiutezza accolta in fedeltà alla modalità evangelica del procedere insieme. È esattamente in una tale modalità di procedere che Theobald individua il carattere di un «magistero soprattutto pastorale», secondo l’auspicio espresso da Giovanni XXIII durante il suo discorso di apertura dell’11 ottobre 1962.
Piú esattamente è possibile, secondo Theobald, comprendere l’evento conciliare e i testi elaborati nel suo seno come «un processo teologale di apprendimento di ciò che è e implica la pastoralità» (p. 682). Proprio questo processo teologale, e non una impossibile sintesi dei suoi diversi insegnamenti dottrinali, è il luogo caratterizzante del Concilio. Ma il processo di apprendimento cosí messo in moto non si è concluso con il Concilio stesso; è stato invece da questo consegnato alla recezione dei fedeli, ai quali è richiesto parimenti di assumere dei modi e uno stile di vita evangelici. Il Vaticano II è in questo senso un evento radicalmente aperto, in una maniera che non ha analogie stringenti con la storia dei concili: il modo in cui l’ultimo Concilio ha concepito se stesso come istituzione di trasmissione del vangelo, l’alternanza dei registri adottati dal suo corpus testuale (narrativo, parenetico, argomentativo e dossologico) conduce a una comunicazione globalmente non giuridica, nonostante i contenuti dottrinali, e invece affine al linguaggio biblico, che esorta i recettori a entrare in un movimento di riforma, riscoprendo al tempo stesso il vangelo di Dio proclamato da Gesú e il proprio radicamento storico e contestuale segnato da una pluralità di ricchezze, dentro e fuori la chiesa. Proprio questo afferma in definitiva il principio di pastoralità: che non si dà proclamazione del vangelo senza presa in carico dei suoi destinatari, non si dà tradizione senza recezione.
Assioma, quest’ultimo, che risulta singolarmente affine a un altro piú generale, e centrale nel pensiero di Theobald: che non si dà rivelazione senza fede, in quanto la rivelazione stessa possiede in sé una forma relazionale. Theobald riconosce che il principio di pastoralità, cosí compreso, ha giocato fino a ora un ruolo piuttosto marginale nella recezione del Concilio – quella veicolata dall’ufficialità del discorso ecclesiastico, quella teologica e quella spirituale – ma non se ne sorprende affatto. Il Vaticano II rappresenta, se non proprio un’anomalia, un caso del tutto particolare all’interno della storia dei concili, rispetto alla quale i tentativi di «normalizzazione» erano prevedibili e forse in qualche misura necessari, esattamente come il compromesso è stata una strategia necessaria, durante le quattro sessioni del Concilio, per far maturare la modalità evangelica del procedere insieme. Ecco dunque profilarsi, nella lettura di Theobald, un’analogia tra le difficoltà e gli inciampi del percorso conciliare e quelle che ha incontrato finora la sua recezione. E cosí come il Concilio ha saputo integrare solo in extremis, all’interno del suo corpus testuale, la piena valorizzazione del principio di pastoralità (grazie a Dei Verbum, Gaudium et spes e Dignitatis humanae, tutti documenti promulgati nel corso dell’ultima sessione, tra il novembre e il dicembre 1965), cosí è possibile auspicare che il processo di recezione si appresti a entrare in una nuova e decisiva fase, favorita proprio dalla storicizzazione del Vaticano II.
Da qui scaturisce la proposta di Theobald di una lettura al tempo stesso intratestuale, intertestuale e rovesciata del corpus conciliare, la quale, partendo dai documenti tardivi e maggiormente sensibili al principio di pastoralità, proceda a ritroso fino a Sacrosanctum Concilium. Solo in questo modo è possibile, secondo il teologo gesuita, svincolarsi da una visione ecclesiocentrica del Concilio che, per quanto giustificabile da piú punti di vista, non riesce a dar ragione della struttura aperta del corpus testuale stesso, della sua «straordinaria plasticità» (p. 378), la cui unità dipende non dall’architettura dell’insieme (che rimane instabile), ma da un atto di recezione comunitaria ed ecclesiale. Ora, proprio il fatto che il corpus documentario non possa dire la totalità dell’esperienza conciliare se non continuando a essere consegnato alla fede dei suoi recettori richiama, secondo Theobald, la natura del processo della tradizione. L’analisi del teologo franco-tedesco si apre qui a una riflessione sull’identità teologale dell’istituzione conciliare in seno all’economia della paradosis.
La prassi conciliare concretamente operante durante l’ultimo Concilio suggerisce di cogliere tale identità non solo né tanto alla luce della sua costituzione canonica, ma piuttosto in relazione, da un lato, alla volontà del Concilio stesso di rimettersi all’ascolto del vangelo e, dall’altro, all’attenzione da esso portata al circolo ermeneutico tra la tradizione apostolica e la sua recezione creativa e plurale, alla luce dei segni dei tempi. In questo senso non solo non c’è rivelazione senza paradosis, senza fede, ma «non c’è […] rivelazione senza conciliarità» (p. 214). Giacché infatti la fede è un’esperienza in se stessa plurale di recezione del vangelo di Cristo, solo la costituzione di spazi e luoghi di conciliarità nella chiesa gerarchicamente costituita fa sí che il plurale non sia ricondotto a unità per via di esclusione né produca solo disseminazione, ma consenta invece l’espressione di una vera concordia, che non tema il dibattito né il compromesso, ma sappia servirsene per ricreare e difendere quella pluralità già iscritta nella (quadruplice) narrazione evangelica.
È esattamente in questa linea che Theobald vede convergere la dimensione pastorale e quella dottrinale del Concilio, non però nel senso di una facile armonizzazione, che riformula gli elementi in tensione in termini di «si… ma…» (p. 499) per poi precipitarli in una «teologia di conclusione» (p. 477), ma nel senso che l’istituzione ecclesiale e le sue prerogative sono totalmente in funzione delle esigenze interne della paradosis evangelica, cioè, come detto, di una rivelazione divina consegnatasi nella storia ai suoi stessi interpreti. Come valutare questa proposta di una lettura a ritroso del corpus conciliare, che apparentemente rovescia i dati storicamente accumulatisi? Mi pare evidente che Theobald non manchi del senso della storia. Egli rispetta la logica del concatenarsi degli eventi e il modo in cui, ad esempio, passando attraverso tappe progressive, è stato raggiunto un consenso all’interno dell’aula conciliare. È proprio questa progressione a strutturare il volume nelle sue cinque parti.
Il Concilio, come evento e come opera, è ora però definitivamente consegnato alla storia, e perciò anche a un’opera di recezione a distanza, paradossalmente sgravata dal compito di riannodare i fili di un discorso ancora in atto o appena concluso, le cui note ancora risuonano attorno a noi. Questa recezione a distanza beneficia di quella che Paul Ricoeur ha chiamato la funzione ermeneutica del distanziamento e si serve legittimamente di criteri di indagine diversi. La scelta di Theobald in questo senso appare legittima, in quanto orientata da una opzione teologica chiaramente definita. Lo stesso Theobald riconosce d’altronde che si tratta di una opzione possibile, e che rimane altresí possibile guardare ai documenti del Vaticano II come a un corpus chiuso, limitandosi a recepire il suo contributo dottrinale e canonico, che introduce comunque una riforma del profilo istituzionale della chiesa cattolica. Cosí com’è, osserva l’A., il corpus «pone il ricettore dinanzi a un’alternativa, senza forzare la sua scelta» (p. 525).
La scelta si ripropone nuovamente oggi. Che cosa vogliamo fare del Concilio? Non ci sono risposte predeterminate, ma c’è un ampio spazio di libertà e di responsabilità consegnato a ciascuno e ciascuna di noi. Imboccare la strada del Concilio al rovescio, come fa Theobald, è un bell’esempio di questo spazio di libertà che stimola l’intelligenza e la creatività dei ricettori. Si deve dunque cogliere il rovesciamento di prospettiva qui proposto non come una mossa in qualche modo provocatoria, o come la volontà di essere a ogni costo originale, ma al contrario come un’opzione teologica fondata su una riflessione pacata e veramente scientifica, utile a favorire una comprensione in profondità, oltre le facili polarizzazioni del dibattito. Per concludere, non si può non sottolineare la continuità del lavoro di Theobald qui analizzato con alcuni temi centrali della sua proposta teologico-speculativa, mossa dalla volontà di elaborare una comprensione della fede cristiana all’altezza delle sfide della postmodernità.
È possibile indicare brevemente tre di questi temi, che giocano un ruolo decisivo rispetto alla sua interpretazione del Concilio: 1) il principio ermeneutico in base al quale la verità del fatto cristiano non sta nella «dottrina» ma nell’evento relazionale dell’annuncio del vangelo e della sua recezione; 2) il principio stilistico in base al quale i contenuti della fede non sono disgiungibili dalla sua forma, intesa come iniziazione a una certa maniera di abitare il mondo; 3) infine il principio etico e messianico della santità (come assenza di menzogna, ospitalità nei confronti di tutto ciò che è umano, messa in gioco fiduciosa della propria esistenza), testimoniata da Gesú nel suo carattere smisurato ma disponibile a essere incipientemente attivata in ognuno dei nostri incontri con l’altro.
Dall’intreccio di questi principi, profondamente connessi, emerge un tentativo calibrato di sottrarsi a ogni dogmatizzazione della forma della fede, motivato dal fatto che la verità della fede stessa non può mai essere fissata ma solo trasmessa, consegnata fiduciosamente nell’alveo delle relazioni interpersonali.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 1/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
Il Concilio Vaticano II rappresenta un evento singolare e decisivo, una novitas nella riflessione dottrinale della Chiesa lungo la storia: si può affermare che esso rappresenti un locus theologicus unico, nel quale la Chiesa ha voluto riflettere sul rapporto tra il vangelo, sorgente della Chiesa, e la presenza ecclesiale nella dimensione storico-sociale della fine del secondo millennio, al fine di offrirsi come testimone credibile della vocazione alta cui è chiamato l’uomo nella storia attuale, scossa da una parte dagli avvenimenti nefasti che hanno contraddistinto la storia mondiale del XIX secolo, dall’altra dai processi di secolarizzazione. Nel corso di questi ultimi cinquant’anni, tuttavia, il processo di recezione del Vaticano II ha mostrato tutta la sua problematicità e la sua “complessità feconda”: lo dimostra la vasta produzione di studi storici e teologici, sia ad extra, circa le questioni del rapporto tra i modelli storico-culturali attuali e il cristianesimo, sia ad intra, intorno al conflitto sulla priorità della ortodossia rispetto alla ortoprassi, o viceversa. Sembra, pertanto, che attualmente la recezione del concilio si sia arenata su questioni “di” ermeneutica: la conflittualità oppositiva che ne deriva, cui consegue la difficoltà di un naturale sviluppo del processo di recezione, non consente una corretta ermeneutica dell’evento conciliare in sé.
Frutto di tre decenni di ricerca, in questo volume C. Theobald, Professore di teologia fondamentale e dogmatica al Centre Sèvres di Parigi e direttore di Recherches de Science Religieuse, elabora una “teologia dell’istituzione conciliare” (37) il cui scopo, come indica il sottotitolo, è quello di “tornare alla sorgente”, poiché, come afferma l’a., «più ci avviciniamo alla fonte da cui il Vaticano II ha attinto, e più raggiungiamo la Chiesa nella sua presenza in seno alla storia e alla società» (18). Seguirà la pubblicazione di un secondo tomo, dal titolo La Chiesa nella storia e nella società, nel quale l’a., mediante una lettura sincronica del corpus conciliare, analizzerà il rapporto tra una diagnosi del momento presente e la credibilità della Chiesa, approfondendo l’ecclesiologia del Vaticano II, in particolare i temi che riguardano l’appello universale alla santità e la struttura apostolica e sacramentale della Chiesa.
Il teologo gesuita propone ai lettori un testo nel quale si prefigge lo scopo di superare il conflitto postconciliare tra le due prospettive ermeneutiche sul Vaticano II, quella della continuità o di riforma e quella della discontinuità o rottura rispetto ai concili precedenti. Secondo lo studioso gesuita, se da una parte «l’esperienza della non recezione di un concilio o di alcune sue parti obbliga infatti ad interrogarsi sulla funzione stessa del principio di recezione» (74), dall’altra ipotizza che «la prova della recezione sia capace di rivelare l’originalità del Concilio Vaticano II, la sua stessa unicità nella famiglia dei concili ecumenici e generali, e di farne promanare energia e orientamento per il presente e per il futuro» (36). Ed è per questo che è necessario, secondo l’a., ripensare la recezione come categoria ermeneutica in grado di sviluppare, all’interno della storia attuale, un nuovo modo di comprendere e di vivere l’insegnamento del Vaticano II.
Amplificata dall’attuale complessità della situazione culturale, storica e sociale, la problematica della recezione del Vaticano II si colloca su due versanti tra loro complementari: da una parte, la diagnosi di una crisi del cattolicesimo europeo, che si manifesta in un processo di «esculturazione del cristianesimo» (11) dall’altra la questione del rapporto tra il momento presente e l’assise conciliare. Questa analisi permette al teologo gesuita di individuare la ragione della difficoltà della recezione del Vaticano II nell’identità stessa del concilio: egli, infatti, ritiene che «i problemi di recezione che conosciamo non derivino soltanto da un conflitto tra diverse ermeneutiche postconciliari, ma provengano essenzialmente dal concilio stesso, dalle sue dimensioni, ovvero dalla sua situazione storica assai specifica nella tradizione cristiana, dalla misura eccezionale del suo corpus e dal carattere unico del suo profilo, al contempo teologale e sociale» (16).
L’interrogativo sull’identità del Vaticano II, pertanto, consente di approfondire la conflittualità della sua recezione. L’a. formula tale prospettiva di ricerca in tre domande che fondano tutta la ricerca: Che possiamo attenderci oggi dal Vaticano II?; Che cosa dobbiamo necessariamente attenderci da esso?; Come interpretarlo?. Affrontando la questione della recezione a partire dalla riflessione sull’identità stessa dell’assise conciliare, sulla sua collocazione nell’insieme della tradizione cristiana e, infine, sul rapporto tra il concilio e le sfide storiche con cui ha dovuto confrontarsi, lo studioso gesuita intende elaborare una adeguata ermeneutica conciliare in grado sia di fondare una circolarità ermeneutica tra il Vaticano II e il processo di recezione, sia di mostrare la necessità che la recezione entri in una nuova fase che superi le attuali conflittualità tra i modelli ermeneutici. In che modo, si chiede l’a., è possibile riuscire ad approfondire l’identità del Vaticano II? Sono tre i parametri che consentono di riflettere sull’identità dell’assise conciliare: innanzitutto, situare il Vaticano II nella storia bimillenaria della tradizione, causa principale, questa, da cui originano i dibattiti ermeneutici attuali; in secondo luogo, ricercare l’unità del corpus testuale mediante un’analisi intertestuale, secondo una prospettiva sia diacronica che sincronica, per far emergere la matrice evangelica del modus procedendi dei padri conciliari; infine, riscoprire l’intuizione di fondo di Giovanni XXIII di un concilio fondato sulla prospettiva di una “nuova Pentecoste”, per evidenziare il carattere “pastorale” dell’evento conciliare.
Alla luce di queste indicazioni, lo studioso gesuita elabora le risposte alle precedenti domande approfondendo l’evento conciliare da un doppio versante: quello storico-sociale, finalizzato a comprendere lo sviluppo della coscienza ermeneutica del concilio al fine di «ricevere dal Vaticano II un nuovo impulso teologale, che viene da più lontano rispetto al concilio, cioè dall’origine stessa, per rischiarare il nostro presente» (19) e, quindi, quello teologale, con lo scopo di risalire alla sorgente del Vaticano II.
Il volume è suddiviso in cinque parti, al termine di ciascuna delle quali l’autore propone una riflessione teologica sull’istituzione conciliare e sulla recezione, conclusioni in grado di fornire elementi utili per rispondere alle domande sull’identità del Vaticano II. Nelle prime quatto parti prevale l’asse storico poiché, come afferma l’a., «per una lettura corretta di un concilio ecumenico, occorre considerare tutti e tre i tempi di cui si compone: la preparazione, l’evento sinodale in sé e la sua recezione» (19). L’ultima parte, la quinta, è sostenuta dall’asse teologale o spirituale del corpus conciliare: qui lo studioso franco-tedesco, rilevando una analogia tra le difficoltà del percorso conciliare e quelle della fase di recezione, propone una “rilettura a ritroso” (19) dei testi approvati nell’ultima fase del concilio (novembre-dicembre 1965), in quanto, valorizzando il “principio di pastoralità”, «sono gli ultimi testi del concilio a rispecchiare meglio la sua consapevolezza ermeneutica» (20).
Dopo una introduzione, nella quale il teologo gesuita indica le coordinate metodologiche e contenutistiche in grado di orientare il lettore nella lettura e nell’approfondimento dell’intera opera, nella prima parte (Che cos’è un concilio? Sfide teologiche di un’eredità culturale ed ecclesiale) l’a. presenta un excursus storico e tipologico dei concili ecumenici: situare il Vaticano II sullo sfondo della storia conciliare bimillenaria della Chiesa significa riuscire ad evidenziarne la novitas. Se da una parte lo studioso gesuita dimostra la difficoltà della collocazione del modello del Vaticano II all’interno dei modelli dei concili precedenti, dall’altra questa problematicità permette al teologo gesuita di definire i quattro punti cardinali di una “teologia dell’istituzione conciliare”: i tradentes, e la relazione che questi attuano in seno alla Chiesa e alla società; il traditum, ovvero il vangelo nelle sue diverse forme di espressione e nella sua forza di rinnovamento; il corpus conciliare, come contenuto e forma del traditum; infine, il processo di recezione, compreso tra due poli, quali le trasformazioni storiche e la tradizione.
Siamo così introdotti nella seconda parte (Il Vaticano II in gestazione. Far opera di tradizione) in cui l’a. espone lo sviluppo di una nuova coscienza critica nella fase preparatoria del Vaticano II. Attraverso un approccio socio-storico dell’ordo conciliorum e del modus procedendi dei padri conciliari, il teologo gesuita evidenzia «la maniera evangelica di recepire il vangelo in uno spirito di creatività ermeneutica che rende possibile conversione e concordia» (213). Si tratta del “gioco delle relazioni” tra tradentes e traditum (159) che esplicita la modalità conciliare di fondare tale relazione sulla categoria paolina della paradosis, concepita come «modo di fare, ovvero come un credere e un fare pastorale (o apostolico) intimamente connessi tra loro e situati in un continuo processo di reinterpretazione storica del mistero nella sua globalità» (202). L’a. intende, in questa parte, «situare il concilio Vaticano II nella lunga storia della Chiesa e comprendere la sua opera come atto di paradosis nel senso neotestamentario» (99). Se questa analisi fa emergere la complessità dell’interpretazione del concetto di “tradizione”, tuttavia il teologo gesuita evidenzia come il concilio, in forza del modo di procedere dei padri e del contenuto dottrinale da questi espresso nel corpus, evidenzi uno stretto legame tra l’identità teologale dell’assise conciliare e l’economia della paradosis.
Esaminando i quattro periodi di recezione del Vaticano II, nella terza parte (Dal programma al corpus testuale del Vaticano II. La recezione conciliare del principio di “pastoralità”), l’a. focalizza la propria riflessione sulla convergenza tra l’elaborazione del corpus dei testi e la sua recezione, al fine di trovare ulteriori elementi critici per comprendere gli attuali conflitti di interpretazione. Se da un lato in questa parte emerge la complessità ermeneutica del corpus conciliare a causa della sua vastità, complessità e singolarità, dall’altro si può ritenere, come fa lo studioso gesuita, che esso manifesti una «straordinaria plasticità» (378), la cui unità può essere recepita, più che dalla sua struttura interna, dalla modalità ecclesiale della sua recezione. Il corpus conciliare, proprio in virtù delle sue caratteristiche, riflette il modus procedendi dei padri conciliari, fondato sul “principio di pastoralità”, ovvero sul carattere essenzialmente evangelico della paradosis.
La quarta parte (Verso una recezione del corpus all’altezza dell’evento conciliare. La manifestazione postconciliare del principio di “pastoralità”) è dedicata alla presentazione di una storia della recezione, unitamente ad una “teoria della recezione” (386). La riflessione del teologo gesuita si articola a partire dalla diagnosi del tempo presente elaborata dal concilio e dalla lettura teologica della storia secondo quattro parametri: la periodizzazione del processo di recezione, il modo di accostare l’opera conciliare o sul metodo di interpretazione, il contenuto del corpus e la necessità di fissare dei criteri per l’interpretazione del concilio. L’aspetto più importante che emerge in questa parte del lavoro è l’analisi del rapporto fecondo che lega la tradizione e la libera risposta di fede del cristiano, da cui deriva il principio secondo il quale la fede è la possibilità storica della rivelazione e, quindi, della paradosis, proprio perché il traditum è consegnato alla libertà di ciascuno. Questo processo relazionale, i cui due poli sono l’auditus fidei e l’auditus temporis, mette in luce la forma relazionale della rivelazione e l’aspetto imprevedibile e non programmabile della tradizione conciliare: pertanto, «la struttura aperta del corpus» conciliare, più che giustificare e amplificare l’opposizione e la conflittualità tra prospettive ermeneutiche, è in grado di favorire la creatività come caratteristica del modus procedendi nel processo di recezione.
Infine, nella quinta parte (Tornale alla sorgente della “pastoralità”. Il Vaticano II come iniziazione di un processo teologale di apprendimento), il teologo gesuita si prefigge lo scopo di analizzare quei testi conciliari nei quali emerge il principio ermeneutico della pastoralità, evidenziando le criticità nel processo di recezione. La scelta metodologica della “rilettura a ritroso” è motivata dalla struttura stessa dell’istituzione conciliare, per cui «mettere in rilievo i nessi trasversali tra i testi conciliari è compito del processo di recezione del Vaticano II» (cf.602). Approfondendo il legame del Vaticano II con la Tradizione e la Sacra Scrittura (Dei Verbum) e con il tempo presente (una “teologia dei segni dei tempi” che emerge in Gaudium et spes e il rapporto con la storia quale tema centrale di Dignitates humanae), l’a. intende presentare il modus procedendi del Vaticano II come paradigma del modus procedendi della fase di recezione, affinché anche in questa si integri, seppur nella complessità odierna della pluralità culturale, il “principio di pastoralità”. Il “principio del reinquadramento”, non più intratestuale ma intertestuale (602), consente di elaborare una criteriologia teologica della lettura dei “segni dei tempi”, sia di «rileggere le Scritture in modo nuovo e di scoprirvi la “via di Cristo” e dei suoi, via che porta a radicare il modus procedendi della lettura dei segni di oggi nella rivelazione stessa» (650). Il principio che caratterizza la dimensione pastorale del concilio è, infine, il “processo teologale di apprendimento”: consegnato alla libertà dei recettori, impegna questi ad una costante dinamica di riforma mediante l’ascolto della Parola di Dio nel proprio radicamento storico e sociale. Si ha quindi una ermeneutica della pastoralità come struttura relazionale, per cui l’a. invita a passare da una visione pastorale del concilio alla “pastoralità conciliare” (687): la “pastoralità” evangelica, infatti, determina, nel contenuto e nella forma, l’architettura dell’istituzione conciliare.
Nella conclusione del volume, l’a. ripercorre l’intero itinerario speculativo, in modo da consentire al lettore di avere un chiaro sguardo sintetico sui contenuti esposti, per poi presentare, sinteticamente, l’oggetto di studio su cui verterà il secondo tomo.
Grazie ai molti spunti di riflessione tematizzati, la lettura del volume, di alto valore scientifico sia per la struttura sistematica del lavoro, sia per il rigoroso apparato critico e sia per la competenza teologica dell’a., permette di approfondire la proposta che egli fa di una “teologia dell’istituzione conciliare”, utile al fine di formulare un’ermeneutica della recezione che consenta di superare le odierne dispute conflittuali tra i modelli ermeneutici di continuità e di discontinuità. Queste, grazie alla ricerca svolta dal teologo gesuita, possono essere considerate una deviazione del processo di recezione rispetto al progetto conciliare, sul “principio di pastoralità”, una cui errata ermeneutica può condurre ad una “ecclesiologia antropocentrica”, fondata più su una struttura rigidamente giuridica che sulla economia evangelica. La riflessione storicamente e teologicamente fondata sull’ermeneutica della recezione, tuttavia, è un metodo che, rivelando l’originalità del Vaticano II come evento da ritenere come terminus ad quem e terminus a quo, e facendo emergere la convergenza tra la prospettiva dottrinale e pastorale del Vaticano II, è in grado di permettere ai recipientes di porre in atto la relazione evangelica con Dio e con l’uomo nella storia attuale, la cui conflittualità socio-culturale è causa della frammentazione della domanda di senso.
Analogamente alle sfide storiche e culturali che i padri conciliari hanno dovuto affrontare, e che hanno superato grazie al “principio di pastoralità”, occorre considerare la conflittualità derivante dalla pluralità culturale come una dimensione creativa che permette la attuazione delle istanze di riforma della Chiesa in seno alla società, senza la costrizione della rinuncia al contenuto dottrinale o alla forma pastorale, secondo un modus procedendi che si fonda sulla paradosis e, infine, sul vangelo stesso. Infatti, in questo lavoro emerge la convergenza tra il modus procedendi dei padri conciliari e il modus procedendi di Gesù e degli apostoli: ciò comporta la fecondità per l’intellectus e l’actus fidei del cristiano che, per il principio di incarnazione, non può esimersi dall’esperire la relazione sia con la Chiesa sia con la pluralità culturale dell’attuale compagine storico-sociale. Il Vaticano II appare, pertanto, come un “cantiere aperto”, uno “spazio ecclesiale” la cui fecondità, quanto al contenuto e alla forma, consente di ripensare la rivelazione secondo la categoria di relazione: il modello della “nuova Pentecoste” proposto da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1962), è l’immagine-guida in grado di orientare sia il progetto conciliare verso «un desiderio ecumenico dell’unità di tutti i cristiani e la necessità di una riforma approfondita del cattolicesimo» (29), sia il processo di recezione nel rapporto circolare ed escatologico tra l’annuncio del vangelo e le circostanze attuali della storia, il locus theologicus della rivelazione.
Le tematiche che il teologo gesuita espone possono essere considerate come ipotesi di lavoro per ulteriori approfondimenti circa la comprensione sia del nesso teologale che lega l’evento conciliare in sé e il processo di recezione, sia della relazione tra noi recettori e le complesse sfide culturali che la società oggi ci presenta. L’analisi dei “segni dei tempi” non può, pertanto, non essere fondata su una criteriologia teologica che porti ad assumere la dimensione cristocentrica e, infine, trinitaria, della rivelazione, quale fondamento dottrinale del “principio di pastoralità”. Se, come afferma l’a., «il vangelo non invita soltanto a una conversione del cuore, ma anche al rinnovamento della nostra intelligenza» (21), all’inizio del terzo millennio il Vaticano II è la “bussola” (36) che permette al cristiano di orientarsi verso la dimensione verticale (dialogo con Dio) e orizzontale (dialogo con l’uomo): in ultima istanza di coniugare ciò che si crede e ciò che si vive, permanendo nella tradizione bimillenaria della Chiesa.
Tratto dalla rivista Lateranum n.3/2017
(http://www.pul.it)
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