Sentirsi a casa
-Abitare il mondo da figli
(Nuovi saggi teologici)EAN 9788810405963
«Questo libretto cerca d’accostare l’identità di Gesù – e quindi quella dei suoi discepoli – a partire dal gesto feriale e ovvio del suo abitare, considerando il luogo in cui egli si è sentito a casa». Il testo evidenzia come «lo sguardo del Signore restituisca il carattere originariamente “domestico” a tutte le cose e le persone del mondo» (dall’Introduzione). Fin dalle prime pagine, le sacre Scritture mostrano la volontà di Dio che il mondo intero diventi una casa ove abitare fiduciosi e senza paura. Sullo sfondo dello stile di Gesù e della sua visione del mondo come «casa», l’a. prende in considerazione la singolare consapevolezza del Maestro d’essere – attraverso la Pasqua – la pietra angolare che conferisce saldezza e definiva abitabilità a tutta intera la creazione. Di conseguenza anche la fede del discepolo avrà a che vedere con lo stare al mondo, dimorandovi e contribuendo alla sua costruzione secondo lo stile del Signore.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2010 n. 20
(http://www.ilregno.it)
È sufficiente scrutare i volti che si soffermano a leggere le inserzioni pubblicitarie delle agenzie immobiliari per capire come la casa incarni un sogno, un progetto, col suo inevitabile carico di speranze e di delusioni. Da quando l’uomo si è trasformato in un essere stanziale, essa è diventata una presenza costante, ha conosciuto una ricca varietà di forme e si è pure convertita in un simbolo caldo (il focolare domestico) dai significati molteplici: luogo in cui germina e si riconosce la vita, punto di partenza e di ritorno della propria fatica di esistere, strumento con cui creare legami e padroneggiare un universo estraniante e non sempre ospitale. Nel corso di questo cammino non è mancata l’impresa del pensiero, che ha conferito alla nozione di casa un valore di sfida, in modo da soppesarne l’autentico significato.
Il libretto di Giovanni Pagazzi permette di addentrarsi all’interno di questa ricerca, riuscendo a comporre una breve ma incisiva memoria che tiene conto della linguistica, dell’antropologia e, ovviamente, della teologia. L’intuizione di fondo è l’elemento identitario, «il desiderio di abitare in un luogo affidabile è forte perché è connesso alla questione dell’identità: uno è a seconda di dove è, dove e come abita o ha abitato» (p. 12). L’essere assume un carattere topologico, mediando la domanda del chi attraverso quella del dove, fino a prospettare una prima ontologia, cioè il fatto che la casa rappresenti «la primissima percezione della realtà, della sua forma e del suo senso» (p. 47). L’approfondimento non è intimista perché si tiene conto dell’opacità del luogo (aspetto che comunque merita una specifica considerazione), e perché la promessa si accompagna a un compito che tiene conto del rischio di creare cesure tra l’interno e l’esterno, mentre per l’autore «il “dentro”, sebbene esclusivo, non è escludente, bensì inclusivo del “fuori”» (p. 84).
Si può così parlare di una ontologia ecumenica, domestica, in cui la casa fa da modello a una comprensione globale del mondo, un mondo spesso abitato dalla paura, anonimo e povero di affetti, in cui l’uomo fa fatica ad accasarsi. L’indagine teologica trova facile fondamento nella Scrittura che, rispecchiando una pedagogia divina, dà ampio spazio alle esperienze umane. Con linguaggio scorrevole ed evocativo, l’autore ripercorre molti testi, colpisce il loro numero, ma anche le variazioni di un tema che esula dalle sperimentazioni e si eleva, giungendo a configurare alcune precise immagini di Dio: il costruttore, il muratore, l’abitante. Il disegno architettonico, seguito dalle prime pagine dell’azione creatrice, è di edificare un mondo che sia luogo della sua presenza e che, in quanto tale, doni a ogni creatura la possibilità di sentirsi “a casa”. La tenda, la vicenda critica dell’edificazione del tempio salomonico e gli annunci profetici della sua distruzione, purificati da una promessa di riedificazione, sono le tappe principali di una storia dove il semplice gesto dell’abitare acquisisce un valore rivelativo-salvifico. L’oggetto si universalizza, dal popolo all’intera creazione, ma non perde mai la sua specifica ispirazione domestica.
Con Gesù il registro non muta, ma assume un connotato cristologico: ora è lui stesso, abitato dal Padre e investito dallo Spirito, a diventare Betel, «la casa di Dio». L’assunto è dimostrato attraverso una «lettura canonica» dei quattro vangeli in cui il realismo dei sinottici corregge una eventuale interpretazione disincarnata di Giovanni. I luoghi di approfondimento sono ragguardevoli: il Figlio che viene ad abitare in mezzo a noi (ménein) e che, attraverso la Pasqua, diventa la pietra d’angolo, conferendo saldezza e definitiva abitabilità a tutta la creazione. Uno speciale risalto è dato allo stile di vita del maestro, che porta a parlare di vangelo domestico, perché «l’attenzione accordata alla casa, tanto da farla diventare a pieno titolo luogo della salvezza, è senza dubbio motivata dallo stile stesso di Gesù, così com’è restituito dai vangeli» (p. 68). Ciò è confortato da tre osservazioni: la convivialità del maestro, l’annuncio compiuto entrando nelle case degli uomini, la tematizzazione delle parabole. Pagazzi non si lascia bloccare dalla dichiarazione di Mt 8,20, interpretandola come un plusvalore che conferma l’allargamento a una visione ecumenica del mondo.
La scelta del Figlio di abitare in mezzo all’umanità porta ad andare oltre il semplice livello simbolico per costruire una vera e propria soteriologia. La casa diventa un “mistero” che svela l’oikonomia, espressione non a caso contrassegnata dell’etimologia dell’ôikos e con cui, soprattutto la lettera agli Efesini, rende l’idea di storia della salvezza, cifra dell’azione divina nei confronti dell’umanità. Oltre a mostrare la stretta parentela di molti temi teologici con il vocabolario della casa, si fa di questa il criterio per capire e vivere i diversi aspetti del mistero cristiano, dall’eucaristia alla Chiesa, l’edificio che ha il Cristo per pietra angolare, e il cui compito «è testimoniare che il mondo intero sta diventando casa» (p. 95). L’autocomprensione domestica, peraltro abbastanza nota in ecclesiologia, suggerisce alla Chiesa di non trasformarsi in una istituzione burocratica, ma di posizionarsi lì dove si intensifica il calore delle relazioni, impegnandosi seriamente sul fronte della riconciliazione con chi non si sente sufficientemente a casa in questo mondo. Il risultato più importante di questa ricerca è di aver dato valore teologico a un bene primario della vita umana, facendo comprendere la sua corrispondenza con le corde più intime di un Dio familiare che, facendo del mondo la sua casa (casa che sarà ultimata per la fine della storia), ha una particolare cura nei confronti di coloro che vivono la condizione disagiata dei senza dimora e che hanno bisogno di sentirsi dire, come Gesù da Zaccheo: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza» (Lc 19,9).
Ne scaturiscono un progetto umano, reso dal sottotitolo del saggio, che è quello di abitare il mondo da figli, e un diverso posizionamento dell’identità ecclesiale che non è certo quello dell’evasione o della fuga mundi, ma quello di chi nutre la convinzione di abitare una casa comune, «se l’identità di Gesù si rivela anche attraverso il suo abitare e costruire la casa, la fede dei discepoli ha necessariamente a che vedere con lo stare nel mondo, dimorandovi e costruendolo secondo lo stile del Signore» (p. 12).
Tratto dalla rivista Lateranum n. 3/2011
(http://www.pul.it)
Dopo essersi soffermato, in due precedenti volumi, sugli «affetti» di Gesú Cristo e sui «legami» del Logos, in questa terza fatica l’A. concentra la propria attenzione sul Figlio, che apre all’uomo una via di accesso al mondo, per «abitarlo» e «sentirsi a casa» in esso. Il libro, infatti, intende mostrare come la fede in Gesú Cristo possa offrire all’uomo buone ragioni per «abitare» il mondo. Non è forse vero che l’uomo d’oggi non si sente piú a casa nel mondo e che ogni luogo rischia di apparirgli straniero e muto?
La questione di fondo (l’abitabilità del mondo) appare per nulla scontata e quanto mai intrigante. La riflessione prende le mosse dalla prima lettera della Scrittura (bet), che significa proprio «casa». Questo dato è decisamente suggestivo e consente all’A. di dare inizio a un’interessante esplorazione del tema «casa» nell’AT e nel NT. Si scopre cosí che la «casa» ha un posto di straordinaria importanza in tutta la Bibbia (cf. capp. I, III, IV, V). La rilettura biblica del tema, tuttavia, non si risolve semplicemente in un saggio di teologia biblica, perché essa è guidata da un interesse di carattere antropologico: vivere in una casa è dimensione costitutiva dell’esistenza umana (cf. cap. II). L’intento dell’A. è mostrare come l’esperienza originaria dell’abitare riceva nuova luce dall’evento Gesú Cristo. Il Nazareno, in continuità-discontinuità con il Primo Testamento, smaschera le ambiguità del mondo, che appare a un tempo «promessa» e «minaccia» per l’uomo.
Egli manifesta la realtà originaria del mondo: esso è stato pensato e voluto da Dio come realtà degna di essere abitata e come «casa ospitale». Gesú rivela e vive questa dimensione, profondamente «domestica» e familiare, del mondo: a Gesú nulla del mondo appare estraneo, anzi tutto appare straordinariamente familiare e «di casa». Anche la tempesta, che lo sorprende sulla barca, non lo turba: egli continua a dormire a poppa, su un cuscino, come fosse perfettamente «a casa propria» (Mc 8,23-27). Questi cenni fanno già intuire le conseguenze antropologiche della proposta cristiana: Gesú ci chiede di avere fiducia nel Padre e di credere al carattere promettente, che il mondo lascia trasparire. È questo, infatti, il suo tratto preponderante. In un tempo segnato dalla cultura del «nomadismo», la riflessione di Pagazzi ci appare come una boccata di ossigeno, che aiuta a riconciliarci con il mondo e a superare paure e timori epocali. Di rilievo è la ricaduta sul versante spirituale della tesi centrale del volume: una certa insistita retorica della vita cristiana come «pellegrinaggio» riceve un sano ridimensionamento.
Il credente è sí pellegrino su questa terra, ma pellegrino di una terra «familiare», «buona», «abitabile» e non semplicemente «valle di lacrime», da cui uscire il piú presto possibile. Un’altra considerazione, che evidenziamo volentieri, riguarda la ragione profonda dello stile di Gesú. Ovvero: perché per Gesú il mondo è «casa abitabile» e luogo familiare? La risposta va cercata nella sua identità filiale. Egli dimora nel mondo come in una casa ospitale, perché in Lui dimora il Padre. Gesú abita il mondo e lo riconosce come casa accogliente, perché Egli stesso è abitato dal Padre. In definitiva, è la sua relazione filiale con Dio Padre, che consente a Gesú di vedere il mondo – al di là di tutte le sue contraddizioni e tensioni – come esso è veramente: casa per l’uomo, anzi, casa per i figli. La relazione con il Padre consente a Gesú di vedere le cose (cioè il mondo) come sono e come sono state pensate da Dio.
La chiesa (cf. cap. V) diventa il luogo in cui il credente si «abitua» (abitudine: parola colta in questo caso con una valenza del tutto positiva) a fare proprio lo stile di Gesú, a «addomesticare» il mondo, a percepirlo come «casa» e a viverlo da «figli». Uno dei luoghi fondamentali della chiesa è la parrocchia, che letteralmente significa «vicino alla casa». La parrocchia è quello spazio (quella «casa») dove i cristiani sono «educati» – grazie alle buone abitudini e non solo a eventi eccezionali – a riconoscere il carattere promettente del mondo e a viverlo. A conclusione di questa rapida presentazione del testo, ci siano consentite due ultime considerazioni. La prima è un sincero apprezzamento, per l’originalità della riflessione, che – a partire dalla fede in Gesú Cristo – getta luce su domande vive dell’uomo contemporaneo.
A nostro avviso, è assolutamente da accogliere il carattere «familiare e domestico» del mondo, alla luce della fede in Gesú Cristo. Tuttavia, questa sottolineatura va tenuta insieme con la tensione irrisolvibile della vita cristiana: il mondo è sí «casa» per l’uomo, ma al contempo è sempre «casa provvisoria», che prelude a un’altra dimora, che non è di questo mondo (cf. cap. V). La tensione verso la dimora definitiva, di cui questo mondo è realmente segno e prefigurazione, testimonia che una certa estraneità è insuperabile. Il credente si sentirà sempre un po’ straniero su questa terra: non per disprezzo verso il mondo né per mancanza di fede, bensí perché egli sa che piú in là e oltre è la meta definitiva del suo cammino.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 3/2012
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
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