I dodici profeti: perché «minori?». Esegesi e teologia
(Biblica) [Libro in brossura]EAN 9788810221549
Il libro dei dodici profeti minori – Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia – è da qualche tempo oggetto d’attenzione da parte di molti esegeti, soprattutto di lingua tedesca e inglese, in quanto testo unitario. Lo studio è una sorta d’introduzione e di commento al libro ed è il primo lavoro sul tema apparso in lingua italiana. Il percorso proposto, di tipo esegetico-teologico è suddiviso in tre parti. La I presenta i motivi che giustificano la lettura unitaria del libro. La II offre un saggio di lettura esegetica tratto da ciascuno dei profeti. La III approfondisce alcuni temi di carattere teologico, presenti in uno o più profeti, e riprende la questione più generale relativa alla forma complessiva del libro.
Tratto dalla Rivista Il Regno n.10
Lo studio di Donatella Scaiola su I Dodici Profeti intende colmare il vuoto esistente su tale tema nel campo degli studi biblici in lingua italiana. Per l’approccio ai singoli libri l’A. si avvale del metodo sincronico preferendo studiare il libro nella sua forma finale. Ci si aspetterebbe un ragionato commento al titolo del libro: I Dodici profeti: perché «Minori?», ma neppure alla fine del volume si fa allusione a esso, lasciando pertanto al lettore la libertà di rispondere all’interrogativo sollevato.
Nella prima parte, costituita dal cap. 1, Il quadro della ricerca (cf. 13-32), in uno stile letterario semplice e di facile lettura l’A. presenta in poche pagine i dati della tradizione, arrivando fino agli studi moderni e contemporanei a conferma della lettura unitaria del libro dei Dodici, per mostrare che «l’insieme è più grande delle sue singole parti» (31). La seconda parte dello studio, la più ampia (33-212), presenta i vari libri profetici nel seguente ordine: Osea (35-47), Gioele (49-61), Amos (63-75), Abdia (77-87), Giona (89-110), Michea (111-126), Naum (127-142), Abacuc (143-156), Sofonia (157-169), Aggeo (171-183), Zaccaria (185-197) e Malachia (199-212).
Della maggior parte dei libri profetici l’A. affronta i problemi di tipo critico riguardanti l’unità, la struttura, la storia redazionale e i temi teologici, e successivamente analizza esegeticamente, con il metodo dell’analisi sincronica, un testo biblico che riprende, approfondisce e ricapitola i temi fondamentali del libro considerato; nel caso di Osea, Amos e Michea l’A. passa invece subito all’approfondimento di un testo biblico considerando sommariamente le numerose questioni relative al libro profetico. Invece, risulta ingiustificato il numero eccessivo di pagine che l’A. dedica ai libri più brevi di tutta la Bibbia ebraica: Abdia (21 versetti) e Giona (48 versetti), analizzando i quali si dilunga eccessivamente su discussioni riguardanti l’autore, la collocazione nel canone, il genere letterario e il contenuto che è valutato globalmente.
La terza parte, costituita dal cap. 14 (215-238), è quella più originale del volume che riprende la questione più generale relativa alla forma dei libri profetici e tenta di chiarire in che senso i Dodici si debbano considerare un libro unitario, senza nulla togliere all’autonomia dei singoli scritti. L’A. evidenzia dapprima che i Dodici presentano una fondamentale lettura teologica della storia: «Presi nel loro insieme, i Dodici contengono una riflessione teologica sul periodo assiro, babilonese e persiano. Questi scritti sono posti in un contesto storico che si estende dal tempo del re Ozia fino a Dario, coprendo un arco di tempo di circa quattrocento anni (dal 750 al 350 a.C. circa)» (216). Si ritiene, pertanto, che uno degli obiettivi fondamentali del libro sia di proporre un’ermeneutica storica di ampio respiro, per alcuni aspetti paragonabili a quella elaborata dall’opera storica deuteronomistica (cf. 217).
Segue l’individuazione di alcuni temi-chiave comuni ai vari libri: il “giorno del Signore”, che esprimerebbe il coinvolgimento reale di Dio non solo nella storia del suo popolo, ma anche in quella delle nazioni (cf. 221); la “violenza” subìta dal popolo o esercitata nei confronti dei nemici di Israele. Si propone di evitare una lettura fondamentalista dei testi biblici e di ricorrere a traduzioni più rispettose del senso del testo ebraico per evitare di interpretare erroneamente pericopi che usano un linguaggio violento. Tra i concetti problematici spesso utilizzati dai testi biblici è segnalato quello dell’ira di Dio che «contrariamente a quello che noi immaginiamo, esprime la giusta reazione di Dio nei confronti del male. Attraverso questa metafora il testo biblico dichiara che Dio non è indifferente al male che gli uomini commettono, tant’è vero che egli reagisce» (225).
Anche circa la questione dei nemici, identificati con Edom, Assiria, Ninive …, si dà una giustificazione di tale linguaggio perché nell’Antico Testamento il male non è mai presentato come un fatto ontologico o metafisico, ma è realizzato da uomini e da istituzioni concrete. Il riferimento che l’A. fa al fenomeno dell’intertestualità nel corso dell’analisi di alcuni testi è visto come un tentativo da parte di alcuni profeti, soprattutto Osea, Gioele, Abdia, Naum, Sofonia e Zaccaria, di comprendere la loro storia cercando ispirazione nei testi biblici precedenti che spesso citano liberamente o reinterpretano.
L’A. segnala il testo di Es 34,6-7 particolarmente citato da Gl 2,13; Mi 7,18 e Na 1,23, che chiama in causa il problema dell’immagine di Dio e pertanto risulta significativo che il profeta Malachia, alla fine del libro ribadisca: «Io sono il Signore, non cambio» (3,6). Connesso con tale fenomeno è il tema dell’elezione che non coinvolgerebbe solo Dio e l’eletto, ma anche le nazioni e ciò si comprende quando, alla fine della monarchia davidica, i profeti riscoprono l’attualità di un’affermazione di fede tradizionale: «Dio regna», che si colora in senso universalistico essendo Dio Signore non solo d’Israele, ma di tutti i popoli.
Negli ultimi paragrafi si parla del ruolo del profeta e dell’uso liturgico dei Dodici sia nella liturgia sinagogale sia in quella cristiana; è lasciata aperta la domanda sulla validità del nuovo contesto che la liturgia costituisce e rappresenta per i testi dell’AT: «Entro certi limiti la ricontestualizzazione dei testi esprime la vitalità della Scrittura, che acquisisce significati sempre nuovi e ulteriori nella misura in cui rimane un corpo vivo all’interno delle comunità di fede» (238).
Tratto dalla rivista Lateranum n.1/2012
(http://www.pul.it)
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