La solitudine del credente
(Biblica)EAN 9788810221464
Il libro raccoglie gli articoli di A. Mello, già pubblicati nella rivista Parola, Spirito e vita, che riguardano un tema poco esplorato: la solitudine di Dio e del credente. L’A. è un monaco della Comunità di Bose che vive a Gerusalemme, ove si dedica allo studio e all’insegnamento biblico, attenendosi alla preziosa tradizione ebraica che tiene in grande considerazione il midrash e Rashì, suo geniale commentatore. Gli argomenti trattati sono monografici, espressi con un linguaggio essenziale, pertinente e carico di pathos, tipico dello stile monastico che non indulge a parole superflue o a congetture fantasiose.
Le figure o gli episodi biblici proposti sono: Adamo, Babele e Gerusalemme, Abramo, il legamento di Isacco, il riconoscimento di Giuseppe, la preghiera di Mosè, Elia, Isaia, Geremia, Gesù, il Servo paziente nell’interpretazione ebraica. Ogni capitolo è un’autentica perla che aiuta il lettore a gustare la profondità del testo biblico e a riscoprire il valore del metodo midrashico. Non potendo percorrere tutte le figure proposte ci soffermiamo sull’analisi che l’A. fa di Adamo. Quale esperienza di Dio dimostra di avere Adamo in Gen 3? Fedele al metodo dichiarato, l’A. parte dalla citazione del midrash: «Nella prima ora del giorno Dio ne concepì il pensiero; nella seconda si consultò con gli angeli che lo servono; nella terza raccolse l’argilla; nella quarta la impast ò; nella quinta la plasmò; nella sesta la eresse in piedi come un pupazzo; nella settima gli infuse il soffio; nell’ottava lo introdusse nel giardino di Eden; nella nona gli diede il comando; nella decima trasgredì il comando; nell’undicesima fu giudicato; nella dodicesima fu rilasciato dal Santo, benedetto sia, come un uomo libero» (9).
In tutti questi passaggi, Adamo resta passivo. Solo con la trasgressione egli afferma la propria individualità, sottraendosi a Colui che gli aveva parlato. Questa negazione è in qualche modo necessaria, constata l’A., è una sorta di felix culpa che lo rende autonomo. In Gen 3,9-10 di Adamo e di sua moglie si dice che udirono la voce del Signore e si nascosero in mezzo al giardino. L’interruzione della comunicazione avvenuta, secondo il midrash, provoca il giudizio. A ben guardare, «Adamo non è stato giudicato, ma si è piuttosto sentito giudicato. Il soggetto del giudizio non è tanto Dio quanto la sua coscienza: infatti l’iniziativa di nascondersi è tutta sua» (10). L’interrogatorio di Adamo inizia con la domanda ajjékha: «Dove sei?». Questa e le seguenti domande di Dio non sono inquisitorie ma terapeutiche: aiutano l’uomo a prendere coscienza della sua scelta. L’uomo e la donna devono cominciare a fare i conti con il cammino faticoso e pericoloso della vita sulla terra, ma in fin dei conti è un cammino liberante. Alla voce che gli chiede: «Dove sei?», Adamo risponde giustificandosi perché si era nascosto. Sorprende che la nuova traduzione italiana non abbia colto il riferimento alla «voce» di Dio presente già nel versetto 8: vaiyishme.u et-kol Yahweh elohim mithallech baggan, che tradotto alla lettera suona: «Udirono la voce (CEI: il rumore dei passi) del Signore Dio che passeggiava nel giardino»; ma dal momento che “voce” (kol) in ebraico è maschile, il soggetto del verbo “passeggiare” può essere sia Dio e sia la voce. Quest’ultima è l’opzione preferita. Il più geniale dei commentatori medievali, Avraham Ibn Ezra (1089-1164), fa osservare che né Dio né la sua voce “passeggiano”; evidentemente è l’uomo che passeggia nel giardino, portandosi dentro di sé la voce di Dio dovunque egli vada (14).
L’onnipresenza della voce divina nel giardino va riconosciuta come un elemento costitutivo del racconto e contrasta visibilmente con lo sforzo adamico di nascondersi, di sottrarsi a questa voce. Dio è “voce” (cf Dt 4,12: «nessuna figura, soltanto una voce») e una voce che “cammina” (con l’uomo!), ossia va dappertutto: non c’è luogo, nel giardino, dove essa non risuoni, dove essa non sia udibile. Il programma adamico di nascondersi è fallimentare perché è tutto concentrato sul registro visivo, anziché su quello uditivo. Ci si può nascondere allo sguardo di qualcuno, ma non ci si può nascondere a una voce (15). Questa difficoltà di Adamo continua a perpetuarsi in tutti gli uomini che sono portati a pensare a Dio più in termini visivi che uditivi. Adamo cessa di nascondersi a se stesso illudendosi di nascondersi a Dio, nel momento in cui si lascia interpellare dalla voce. È la voce divina che pedagogicamente lo aiuta a conoscersi mediante altre domande: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (Gen 3,11). Anche in queste domande, il tono non è inquisitorio; Dio si limita a far sorgere dei dubbi, a mettere in forse delle false certezze. Paura e vergogna (sentimento di nudit à) sono i due sintomi fondamentali del peccato di Adamo, che rivelano una falsa immagine di Dio.
La paura o il senso di colpa è un sentimento complesso, contraddistinto dal timore di un castigo. In questo caso si nota bene come l’uomo proietti su Dio la propria immagine: ne fa un vendicatore, un persecutore spietato. Siccome noi siamo giudici senza misericordia nei confronti di noi stessi, pensiamo che Dio debba fare altrettanto con noi. Il senso di colpa è l’antitesi esatta del pentimento e della confessione del peccato. Il timore del castigo impedisce all’uomo di riconoscere il proprio peccato. Finché io considero Dio il persecutore spietato dei miei peccati, non mi riuscirà mai di confessarli, tenderò sempre a rimuoverli, a nasconderli, oppure a scaricarli sugli altri, esattamente come fa Adamo: «La donna che tu hai posto accanto a me, è lei che mi ha dato dell’albero, e io ho (solo) mangiato» (Gen 3,12). L’altro grande stratagemma difensivo dell’uomo dopo il peccato è la vergogna. Come mai si prova vergogna a essere nudi? Perché uno non vuole farsi vedere dagli altri. Qui l’autore sacro lascia intendere che non si può avere un’autentica esperienza di Dio senza un adeguato superamento della paura e della vergogna, possibile solo mediante la grazia. La domanda: «Adamo, dove sei?» è precisamente il primo segno di questa grazia divina preveniente. Qui l’A. cita Buber: «Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento e l’uomo scivola sempre più profondamente nella falsità [...] l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso» (19).
Alla luce di questo racconto mitico, scopriamo che l’autore sacro concepisce la vita dell’uomo come cammino e non come nascondimento, come sguardo in avanti e non come regressione all’indietro, come proiezione verso il futuro e non come nostalgia di un paradiso perduto. Solo dal momento in cui si lascia interpellare da Dio, l’uomo diviene responsabile, capace di corrispondere al Suo disegno e di contribuire al progetto redentivo che Dio ha sul mondo. Uscire dal proprio nascondiglio, dal proprio guscio, richiede sempre una buona dose di lacrime, di rischio e di coraggio. La forza dell’uomo che ascolta la domanda e accetta di mettersi in cammino è la riconoscenza. Nel ringraziare l’A. che ha fatto la scelta di nascondersi agli uomini (facendosi monaco) per rimanere alla presenza di Dio, riceviamo con riconoscenza il frutto di tanto studio e preghiera. Si tratta di un esempio eccellente di come si può condividere la solitudine dell’esistenza umana, senza sottrarsi allo sguardo benevolo di Dio.
La lettura dell’opera risulta agevole e arricchente, grazie anche al testo ben curato. Minime sono le osservazioni che offriamo all’editore in previsione di un’eventuale ristampa. A p. 14 è da rivedere la frase iniziale del paragrafo 4; a p. 63 rivedere (Mt 25!); a p. 123 è scritto Babele per Babilonia.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 1/2012
(www.rassegnaditeologia.it)
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