Come pensano e agiscono le istituzioni
(Oggi e domani)EAN 9788810140611
Famiglie, ambienti di lavoro, associazioni, comunità di fede religiosa, amministrazioni pubbliche e private, mondo politico, organizzazioni internazionali: che cosa le accomuna? Come pensano? Come agiscono? Sulla scia del famoso How Institutions Think (Il Mulino, Bologna 1990) di Mary Douglas, il saggio dell’a. risponde a queste domande, considerando la vita istituzionale nei suoi aspetti fondamentali e insieme ponendo al centro la persona umana, le sue motivazioni di fondo e il suo agire.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 2
(http://www.ilregno.it)
Non sia da ritenersi un accidente, né tanto meno una mera casualità, il titolo di questo recente saggio di Rocco D’Ambrosio, che – teste lo stesso autore nella breve e illuminante introduzione – si richiama al fondamentale testo di Mary Douglas, How institutions think, apparso nell’ormai lontano 1986, e accessibile in traduzione italiana dal 1990 con il titolo, appunto, Come pensano le istituzioni. Partendo dal dato incontrovertibile secondo il quale negli ultimi anni la ricerca scientifica, insieme con la coscienza comune, si siano occupate in maniera sempre più profonda dell’importanza della vita istituzionale, nonché dei suoi effetti e ripercussioni sull’universo popolare, D’Ambrosio affronta esaustivamente e opportunamente l’argomento, scandendo la sua trattazione in nove capitoli, ciascuno inerente un aspetto particolare del rapporto tra persona e istituzione. Il problema che si vuole affrontare è, prima di ogni altra questione, quello d’individuare cosa si nasconda dietro un termine, apparentemente astratto e spesso abusato o usato impropriamente, quale “istituzione”. Con esso, così come si sottolinea fin dalle prime righe del lavoro e come si chiarisce e ribadisce più volte nel corso dell’opera, ci si vuole riferire a famiglie, ambienti di lavoro, associazioni di ogni tipo, comunità di fede religiosa, amministrazioni pubbliche e private, mondo politico, organizzazioni internazionali. D’altra parte, è scontato che, una volta posto un problema, occorra formulare le adeguate risposte alle domande che lo stesso naturalmente sottende e pretende che siano date: cosa accomuna tali istituzioni? Come esse pensano? Come agiscono?
Sul tracciato di questo doppio binario comincia a muoversi il testo, non senza però avvertire il lettore circa alcuni assiomi preliminari. Vivere nelle istituzioni, infatti, è impegnativo. Asserzione, questa, non banale o scontata, anzi propedeutica e necessaria a ogni ulteriore argomentazione. E ancora: comprenderle è estremamente difficile; ergo, conoscerne i meccanismi più evidenti o riposti, saper qualcosa su come esse pensino e agiscano, potrà contribuire a migliorarle e, contestualmente, a far crescere noi in quanto individui e/o componenti una comunità. Il saggio si snoda, appunto, lungo quel sentiero che conduce al rapporto reciproco e simmetrico persona-istituzione. Nel primo capitolo si chiarisce il concetto secondo cui tutti gli esseri umani sono nati per vivere in comunità e le istituzioni, come conseguenza, non sono altro che dei gruppi sociali legittimati (secondo capitolo). Già il titolo – Le istituzioni a partire dalle persone – ci fa intendere il punto di vista dell’autore. Ogni persona, secondo l’efficace pleonasmo aristotelico, è per natura un animale politico, cioè a dire, un essere vivente spinto connaturalmente verso gli altri, verso la comunità. Allo stesso modo, ogni persona non è un accidente astratto: è un corpo, è insieme di cognizioni, è emozioni. Meglio l’ausiliare essere che avere: è un corpo sarà da preferire a: ha un corpo. Egli ha, per sua natura, l’anelito a relazionarsi con l’altro, certo, ma non solo con l’altro. Come ben faceva notare Giorgio La Pira, parlando di struttura a quadrilatero, ogni uomo è caratterizzato, infatti, da quattro relazioni – con se stesso, con gli altri, con Dio (per i credenti delle religioni monoteiste, e altre divinità per i credenti di altre religioni, oppure con dei principi morali così alti e nobili da essere sentiti e considerati come massimi riferimenti per una condotta eticamente esemplare) e con la natura –; e da altre tre dimensioni: fisica, cognitiva ed emotiva. L’equilibrio dinamico tra queste relazioni e dimensioni determinerebbe la serenità globale dell’esistenza. Secondo il libro biblico della Genesi, poi, la natura politica della persona è presente fin dalla creazione. Dio, infatti, crea l’essere umano e gli affida il compito di moltiplicarsi e dominare la terra su cui vive. Dio, però, accanto all’uomo, crea la donna, fondamento dell’istituzione familiare. Ecco perché ogni persona sceglie di attuare o negare la sua natura sociale e/o relazionale. Sarà proprio dell’essere umano, come sottolinea in filosofia Aristotele, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.
Ma cos’è, allora, quella che noi chiamiamo istituzione? La risposta, o qualsiasi tentativo di risposta non sarà mai così scontata e semplice. Secondo la Douglas, un’istituzione è soltanto una convenzione, cioè un accordo molto radicato tra persone diverse, normalmente seguito e rispettato in quanto ritenuto necessario per il gruppo e i suoi membri. Eric Voegelin, a sua volta, individua nella famiglia, nel lavoro, nel mercato, nella cultura, nella religione e nella politica, le sei istituzioni che possono essere considerate, per così dire, metastoriche e metatemporali, nel senso che esse restano valide a prescindere dalla diversità di soggetti, luoghi e tempi. A un livello più ampio, si può affermare che l’istituzione è un raggruppamento sociale legittimato il quale, di conseguenza, rimanda a un legittimante, cioè ancora a un’autorità superiore, a un potere che riconosce il gruppo, i suoi comportamenti, le sue norme. Aspetto fondamentale dell’istituzione è, inoltre, il suo dato etico. La causa è facilmente riscontrabile: si istituzionalizzano dei comportamenti ritenuti importanti per la vita sociale e si consacra un comportamento (éthos) preferendolo a un altro. Ma quale sarà, allora, l’etica giusta per le istituzioni? In ottica biblica, esattamente in Lc 6,43-45, Gesù afferma che «non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni […] l’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male». Soggetto buono, mezzi buoni e fini buoni sono perciò, ricorda l’autore, indissolubilmente legati. L’enunciazione machiavellica o pseudo tale, riassumibile nella nota formula “il fine giustifica i mezzi”, risulterebbe, in tal modo, l’esatta antitesi di quanto sostenuto dal Vangelo, oltre a costituire un concetto demolitore del pensiero etico tout court. Le istituzioni, pertanto, sono buone nella misura in cui rispondono, progettano, realizzano, il bene dei propri membri, cioè nella misura in cui ogni persona resta principio, soggetto e fine di esse.
Nel terzo capitolo, riferendosi alla filosofia di Jeremy Bentham, D’Ambrosio analizza la tesi utilitaristica, secondo la quale il rapporto con le istituzioni sarebbe comprensibile solo se si adotta una logica di mercato, un do ut des ridotto ulteriormente a un puro e meschino gioco di (bassi) interessi. In contrapposizione, Gesù insegna, in Mt 6,19-21, di non accumulare «tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano», bensì di accumulare «tesori nei cieli, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». Sebbene spesso il rapporto tra persona e istituzione possa essere connotato da razionalità ed emotività, esso rischia anche di essere sottoposto a logiche utilitaristiche. Ci si potrà mettere al riparo da questa pericolosa ed esiziale situazione, se sappiamo gestire il nostro rapporto con le istituzioni, tenendo presenti i colori basici fondamentali, come li denomina l’autore, per la nostra dirittura etica: ordine, giustizia, coerenza, fiducia, identità, sicurezza.
I capitoli quarto e quinto affrontano il problema dell’ordine e del disordine, in quanto elementi essenziali alla felicità o, per converso, all’infelicità dell’istituzione. Come sostiene Eric Voegelin, la persona umana è tensione continua verso l’ordine (p. 59), così come già il Sommo Poeta aveva affermato che nell’ordine sono accline tutte nature (p. 57). E proprio perché la tensione verso l’ordine segna ogni persona, di conseguenza segna anche ogni istituzione. L’ordine è una conditio sine qua non affinché l’istituzione si trovi a essere a misura (métron) di ogni essere umano. La finalità (tèlos) precipua di un’istituzione è quella del bene comune che, secondo il Concilio Vaticano II, è l’insieme delle condizioni della vita sociale che permettono ai singoli come ai gruppi di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente (p. 73). Il bene comune non si realizza né automaticamente, né fatalmente; piuttosto, si fonda su precise condizioni di vita e richiama particolari responsabilità pubbliche. Il compito etico delle istituzioni sarà, allora, proprio quello di accrescere il bene dei singoli e dei gruppi, di favorire l’accesso a quei tredici “beni” che il Vaticano II ha individuato come necessari, in vista della realizzazione del progetto fondante dell’istituzione (vitto, vestiario, abitazione, diritto a scegliere lo stato di vita e a fondare una famiglia, all’educazione, al lavoro, al buon nome, al rispetto, alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso) (p. 74). Nella realizzazione del bene comune, la chiesa pone un’opzione preferenziale in favore dei poveri, una sorta di obbligo morale verso quelli che hanno meno. Ricorda Benedetto XVI che senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune, lo sviluppo è impossibile (p. 77). Quando l’ordine scompare, di conseguenza, il rapporto uomo-istituzione vacilla, fino a essere irrimediabilmente distrutto. Secondo D’Ambrosio, le maggiori forme di disordine sembrano dipendere soprattutto da due cause fondamentali: la perversione ideologica (totalitarismi politici, ma anche criminalità organizzata e massoneria deviata) e lo stato di bisogno (ingiusta e insopportabile distribuzione delle risorse tra gli uomini). L’ordine di un’istituzione, conclude l’autore, richiamandosi al magistero del personalista Emmanuel Mounier, è presente nella misura in cui si realizza il bene comune, senza prescindere mai dal bene del singolo. Talvolta le istituzioni sono considerate tutte patologicamente dannose e inutili in quanto tali. È questa la posizione di chi, come l’anarchico, seppur con i dovuti distinguo e le opportune varianti, rifiuta in blocco ogni istituzione come oppressione e sistema di controllo già in sé. Tale posizione sembra risultare sempre una miscela, più o meno equilibrata, di tre atteggiamenti fondamentali: l’individualismo, la negazione totale o nichilismo, il disordine. Eppure ogni persona è caratterizzata dalla tensione verso l’ordine, così come, in misura complementare, dalla percezione del giusto e dell’ingiusto.
I successivi due capitoli del volume (il sesto e il settimo) prendono in esame, nell’ordine, i concetti di coerenza e di fedeltà nelle e/o verso le istituzioni. In particolare, la coerenza è un elemento di natura cognitivo-morale e, insieme ad altri elementi, determinante per la stabilità di ogni realtà istituzionale. Il corpo istituzionale, come il titolo di un famoso testo del 1940 di George Ritter affermava esplicitamente, può smascherare il volto demoniaco del potere. Secondo l’autore tedesco, è demoniaco tutto ciò che è ambiguo, dunque tutto ciò che può ammettere due o più significati. Il demoniaco ha un carattere pervasivo in massimo grado e rende labili e confusi i confini tra le buone istituzioni e le loro perversioni. Nell’Apocalisse di Giovanni, il potere demoniaco è definito addirittura come “la bestia”, proprio perché nuova incarnazione del serpente antico, ovvero di Satana. La “cattiva” istituzione ha, come possibili conseguenze, la generazione e la diffusione di fenomeni aberranti, quali il clientelismo, con tutta la rete dei rapporti che comporta, il familismo amorale, fino a veri e propri comportamenti di criminalità organizzata quali le mafie, diffuse, purtroppo, su tutto il nostro territorio nazionale. Per quanto concerne, invece, il tema dell’affidabilità delle istituzioni e verso le istituzioni, D’Ambrosio sottolinea come la probità, l’amore e i “dati tecnici”, siano gli elementi essenziali senza i quali è impossibile qualsiasi tipo di fiducia o, oseremmo dire, di fede delle istituzioni e per le istituzioni. In esse – è vero – ognuno è chiamato a quella disponibilità verso gli altri, che si traduce in comprensione e condivisione, in disponibilità a un dono “gratuito” e elargito in comunione. Soltanto in questo contesto possono nascere, infatti, fiducia e comprensione in maniera stabile. Una funzione fondamentale per far sì che i singoli membri di una comunità accrescano la loro fiducia nell’istituzione, è quella rivestita dall’intellettuale. L’intellettuale organico, nel senso gramsciano del termine, gioca un ruolo sociale evidente, in quanto dev’essere in grado non solo di pensare ma anche di far pensare, soprattutto coloro i quali possiedono scarsi strumenti culturali. Il compito degli intellettuali, allora, sarà quello di chi, con passione e competenza, aiuta a comprendere la vita, i suoi risvolti istituzionali, dalla prospettiva degli esclusi, dei maltrattati, degli impotenti, dei sofferenti, insomma – come direbbe Bonhoeffer – di chi ci fa comprendere dal basso.
L’ottavo capitolo tocca il problema cruciale del nesso istituzione-identità. Esiste un indubbio intreccio tra persone e collettività, che induce a uno studio univoco del sé e della collettività stessa. Le istituzioni diventano, agostinianamente, un luogo dove abitare con tutto se stessi, amando le persone coinvolte, servendo la loro crescita e preservando l’istituzione da ogni forma di degenerazione e corruzione. In questo senso, appartiene a un’istituzione solo chi la ama autenticamente e l’ama chi sa dare e ricevere a/da essa tutto il bene possibile. Il saggio si conclude, nel nono capitolo, ponendo l’accento sulla fragilità e la vulnerabilità dell’essere umano che cerca, per questo motivo, nelle istituzioni un porto sicuro. La vita di ogni uomo nella società attende risposte sicure a domande concrete, quali la realizzazione della felicità, la virtù, le scelte educative, la qualità del vivere insieme.
Le istituzioni devono operare onestamente e comunicare la verità, ma per raggiungere questi impegnativi obiettivi, non devono mai perdere di vista il rispetto della persona e della sua intimità, a garanzia della tutela della sfera privata. C’è, invero, uno strettissimo rapporto tra felicità personale e istituzioni. La felicita è, sì, della persona singola, ma dipende dalla qualità della vita della comunità. L’uomo, come scriveva Hume, rimarrà infelice fino a quando non metterà vicino a lui una persona con cui dividere la sua felicità: tutti i valori che finora sono stati espressi – sicurezza, felicità, affidabilità, giustizia, ordine – hanno, nella traduzione biblica un solo nome che, in un certo senso, li compendia tutti: shalom, pace. La pace di un’istituzione è, infatti, il frutto della sua pienezza di vita, intesa come esperienza fondata su un modello di ordine e di giustizia: è frutto della coerenza con essi. La pace potrà essere garantita solo se posta come il fine a cui aspirare tanto nei processi educativi quanto in quelli organizzativi. L’impegno delle istituzioni, di tutte le istituzioni, comprenderà, per questo, anche lo sforzo di risolvere qualsiasi tipo di conflitto: «Nella misura in cui famiglie, ambienti di lavoro, associazioni, comunità religiose, strutture amministrative e politiche, organizzazioni internazionali operano per attuare un modello di ordine e di giustizia, superano la ricerca della pace come semplice assenza della guerra […] e, ponendosi come promotrici di giustizia aspirano a quella pace che è opera della giustizia» (p. 234). Questa citazione ci sembra un compendio dei pregi, notevoli, dell’intero saggio. Si tratta di un lavoro profondamente “cristiano”, oltre che scientificamente corretto. L’esigenza del messaggio etico è alta, vera e profonda, per questo arriva fin nel profondo delle nostre intelligenze e dei nostri cuori, aiutando a comprendere, pensare e vivere le istituzioni, anche, con un atteggiamento nuovo: lo humour, che vuol dire, come si legge nelle “conclusioni”, un sano distacco (p. 237): perché si compia il «modello di ordine e di giustizia […] noi diremmo che il vero impegno nelle istituzioni deve ridere di sé, altrimenti diventa greve e rischia di essere poco autentico» (p. 239). Il che richiede grande consapevolezza dei propri limiti e grande libertà interiore, dimensioni necessarie, per contribuire, così, «a rendere saldamente unito un gruppo e promuovere la cordialità di rapporti» (p. 241).
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2011
(http://www.pftim.it)
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conflitti, bene comune, amministrazione pubblica, cooperazione, istituzioni, mondo politico, organizzazioni internazionali