Quarto dei Mille. / Qui si imbarcarono per le terre del Sud / guidati da un eroe che provò a fare un paese / nell’ostinata leggenda di ceneri / sangue e sogni corrotti. / Non sappiamo chi tra mille è più tornato / percorrendo a ritroso un mare che accoglie e trascina / uomini e ombre del nostro tempo. / I nuovi abitanti delle caverne / non sono pescatori né sedentari. / Sono uomini che trasmigrano. / Non conosciamo la loro storia. / Sappiamo che hanno scelto, / trovato questo luogo / e non altri / per sentirsi al riparo / a ridosso di una strada che diventa città / all’ombra di chi riposa e di chi veglia. / Come antiche figure / tra le mille altre che riempiono i luoghi dei nostri ricordi / e delle nostre memorie sfocate. / Forse è dal mare che provengono / come naufraghi abbandonati. / Lì i loro corpi / sulla soglia delle nostre avventure.
Enzo Motta e Mary Monaco, protagonisti del documentario La bocca del lupo diretto dal giovane regista napoletano Pietro Marcello, sono due naufraghi abbandonati, come quelli narrati dalla voce che apre il film. S’incontrano nel tempo di tempesta della loro vita, tra le mura di un carcere: lui, emigrante siciliano, ha ucciso un poliziotto e sta scontando quasi 30 anni di prigione; lei è una transessuale tossicodipendente. Il documentario è la storia vera del loro amore e della loro lotta, una storia che s’incastra nelle rocce del porto di Genova, attraverso i suoi carrugi e nei suoi margini. La bocca del lupo è anche un ritratto del capoluogo ligure tra passato e presente, mostrato nei filmini a otto millimetri ripescati dagli archivi cittadini, a parlare di «un altro tempo, altre vite da vivere», o impresso nei luoghi dei due protagonisti. Enzo e Mary sono ossi di seppia consegnati dal mare alla spiaggia e la loro storia parla di vita, di morte e risurrezioni, per poi approdare nel riscatto di una casa insieme, di una quotidianità a due. «Amore, facciamo una cosa: tu mi hai aspettato tanti anni e adesso siamo quasi alla fine. Sai il mio sogno qual era, ti ricordi? La casa in campagna, con i cagnolini, le paperelle, il laghetto, l’orto. Nel nostro piccolo vivremo in questo modo. Il mio desiderio è sempre quello. Penso che è anche il tuo sogno, vero? Ti amo, amore», ripete Enzo a Mary in una delle cassette registrate in carcere e inviate alla compagna come lettera quotidiana, nel corso dei dieci anni in cui Mary, scarcerata, attese il compagno ancora detenuto. Proprio in carcere Mary e Enzo si conoscono e s’innamorano: nel film Mary racconta che «quando l’ho conosciuto non avrei mai immaginato che nascesse l’amore fra noi. Lui mi intimoriva, il suo sguardo mi metteva a disagio. Poi conoscendolo, giorno dopo giorno, piano piano, ho capito che sotto quella maschera da uomo forte e prepotente si nascondeva un animo tenero e sensibile. Una dolcezza da bambino su un corpo da gigante. Le avversità della vita ci hanno fatto incontrare, almeno quello. All’epoca eravamo soli e non più tanto giovani. Non avevamo nulla. Decidemmo di metterci insieme e di mettere il passato alle spalle e di affrontare la vita, dandoci forza l’un l’altro». Enzo si fa spostare di cella per essere più vicino alla sezione «transessuali» dove è Mary.
Costruisce piccole sculture in cambio delle quali farsi passare dalle guardie cibo per Mary. S’inventa un alfabeto muto con cui comunicare attraverso le sbarre. Fino a quando lei non viene rilasciata: pur nella nuova solitudine, «aspettare lui dieci anni ha dato uno scopo alla mia vita», confida Mary. C’è un aspetto che colpisce nella genesi di questo film-documentario, autentico caso della passata stagione cinematografica, vincitore – unico film italiano nella storia – del Torino Film Festival, premiato anche con il David di Donatello e al Festival di Berlino come miglior documentario e capace di raccogliere il consenso del poeta genovese Edoardo Sanguineti (il suo biglietto inviato al regista è pubblicato nel libro che correda il film).
La paternità di quest’opera è legata infatti ai gesuiti di Genova, in particolare la Fondazione San Marcellino che dal 1945 accoglie e accompagna persone senza fissa dimora. A Pietro Marcello, segnalatosi nel 2007 con la sua prima prova alla regia ne Il passaggio della linea – documentario in cui la storia dei treni notturni che attraversano l’Italia si mescola alle vicende di chi su essi siede e in alcuni casi addirittura vive – la fondazione genovese chiede nel 2008 di raccontare pezzi di un mondo di povertà, solitudini e disperazioni, ma anche riscatti, amori e nuovi inizi, che passano quotidianamente nelle stanze dei centri d’ascolto, nelle mense popolari o nei dormitori delle realtà d’accoglienza. Da questa richiesta nascerà successivamente l’incontro di Pietro Marcello con Enzo e Mary, che segnerà la preparazione del film trasformandolo nel racconto della vita di questa coppia «irregolare », «tabernacolo preziosissimo di umanità», come ha scritto il direttore della fondazione, p. Alberto Remondini.
Non si tratta di un film o di un documentario di denuncia e neppure di una storia annacquata di buoni sentimenti: la regia impeccabile, la fisicità stessa di Enzo e Mary («io gli dico sempre che ha sprecato la sua vita per delle cavolate: si è andato a prendere una barcata di anni di galera così, per niente, invece di fare dei corsi di recitazione. Avrebbe potuto fare l’attore con il suo aspetto, sfondare nel mondo del cinema», scherza Mary riferendosi a Enzo), le cantate seicentesche del Membra Iesu Nostri di Buxtehude che ne accompagnano alcuni passaggi, gli squarci e i filmati di una Genova di emigranti e portuali d’inizio Novecento rendono tutta l’intensità di un’opera in cui la durezza e dolcezza di Enzo e Mary brillano come fuochi nella notte sulle barche davanti al porto di Quarto.
La consegna delle proprie vite che Enzo e Mary si fanno reciprocamente – e con loro, allo spettatore – avviene nelle registrazioni rubate in carcere («Amore, scusa se parlo un po’ piano. Ho paura che la guardia mi senta e scopra che ho il registratore. Riprendo più tardi, perché ora passa la conta. Ciao amore»), così come nella lunga intervista che chiude il film, prima che una voce mescoli versi del regista e di Franco Fortini: «Il nostro viaggio termina qui. / Lasciamo i naufraghi al riparo di queste caverne. / Il passato è uscito di spalle. / Restano solo tracce di memoria e forme / che si dissolvono. / Piccole grandi storie. / Questo è stato. / Misura della notte, del giorno, del tempo, dell’amore, dell’ombra, della luce. Questo è stato. / Una volta / in una città». Mary è morta il 31 luglio 2010 a sessant’anni. Ha potuto solo intravedere il successo del film, testimoniato dall’affetto profondo con cui il documentario è stato accolto, e con esso anche la «piccola grande storia» del suo amore. Perché, come canta Enzo, «tutte e due avemmo a diventa’ una cosa sola. C’avemmo a consola’, vecchi e contenti. Dicendo grazie a Dio per questa realtà. Vicino a te, senza parlare».
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 6
(http://www.ilregno.it)
-
13,00 €→ 12,35 € -
12,00 €→ 11,40 € -
10,00 €→ 9,50 € -
18,00 €→ 17,10 €