Giustamente il concetto di secolarizzazione viene sempre più indagato da prospettive scientifiche differenziate e sottoposto ad analisi multidisciplinari. Non sempre però il solo fatto che la secolarizzazione venga studiata da approcci di tipo filosofico, sociologico o politologico la rende una categoria critico-ermeneutica capace di cogliere efficacemente la natura e le trasformazioni del moderno. I recenti volumi di Charles Taylor e di Ulrich Beck hanno il merito di analizzare la secolarizzazione mettendola in relazione ad alcune dimensioni dell’umano capaci di aprirne l’autentica natura concettuale e la vera portata ermeneutica. L’anima multipla e processuale della secolarizzazione infatti può essere fecondamente compresa solo se fatta dialogare da un lato con la riflessione sui processi di costituzione della soggettività moderna e contemporanea e dall’altro con l’affiorare dei paradigmi sociologici della complessità e della pluralità. In altre parole comprendiamo cos’è la secolarizzazione solo alla luce dell’autocomprensione del soggetto e dei modelli interpretativi dell’organizzazione sociale: la secolarizzazione va posta tra la fatica dell’io e le avventure del noi. Una corretta interpretazione della «religione » non può, né deve fondarsi sulla distinzione trascendente/immanente.
È questo uno dei presupposti più solidi e convincenti da cui prende le mosse la trattazione proposta da Taylor. La religione, infatti, viene dilatata in una gestualità critica nel momento in cui non viene schiacciata o ridotta a semplice credenza nel trascendente. L’atto di fede non può né deve essere esclusivamente ricondotto, con una gestualità troppo autoreferenziale, a un chiedersi cosa ci sia al di là della mia vita presente. Il punto non è la semplice domanda sulla mia credenza piena e senza crepe in una dimensione spaziale o in un’identità personale ammantata di trascendenza. La domanda fondamentale per il credente cristiano, invece, chiede se la fonte della pienezza e della giustizia venga vista e vissuta come esterna o interna a me. Qui l’accento cade non sull’oggetto della mia personale conoscenza o sulla conoscenza dell’oggetto di fede. Il Dio personale cristiano è infatti antitesi e rimozione dell’alterità trascendente in quanto oggettualità, egli è dirompente rottura di un trascendente dogmatico mediante l’assunzione di soggettività. La religione cristiana rivela così la sua natura più profonda e peculiare nella misura in cui chiama l’uomo non esclusivamente a un atto cognitivo, ma pone l’uomo davanti a un movimento verso l’esterno. La pienezza, ciò che manca, ovvero ciò che mi salva è sempre eccentrica, sta fuori di me; devo incamminarmi per raggiungerla, devo predispormi a farmi raggiungere da essa.
La religione cristiana presenta questo al di là dell’uomo non come conoscenza da acquisire, bensì come possibilità concessa e donata di una trasformazione delle condizioni attuali e reali dell’uomo stesso. Il senso ultimo e direi critico-trascendentale della religione risiede proprio nell’idea «che esista un bene superiore alla prosperità umana, un bene che va al di là di essa. Nel caso cristiano, potremmo concepire questa dimensione come agape, l’amore che Dio ha per noi e di cui partecipiamo mediante il suo potere. In altre parole, ci viene offerta una possibilità di trasformazione che ci conduce oltre la perfezione meramente umana» (TAYLOR, 36). Qui viene abbozzata, ma non profondamente trattata, l’idea del trascendente come possibilità di trasformazione. Dio, che è insieme oggetto, interlocutore e cooperatore dell’atto di fede, non è una categoria ermeneutica conoscitiva, ma è condizione di possibilità del mutamento della realtà soggettiva dell’uomo, quindi condizione di possibilità di quella salvezza che passa attraverso il cambiamento e la trasformazione del mondo. In questo punto la religione si fa gestualità trascendentale: è il trascendente stesso infatti che fonda, apre e si rende garante dell’accesso conoscitivo ed esperienziale alla vita. Allo stesso tempo la religione coincide con una gestualità critica la quale opera solo mediante una pratica trasformatrice di quelle relazioni umane che sono in attesa di giustizia e di reciprocità.
Quanto qui appena abbozzato trova pieno respiro teoretico nell’opera di Elmar Salmann, ossia nella sua concezione ontologicotrascendentale, della visione del mondo in Dio. «Alla tua luce vediamo la luce (Sal 36,10): Dio è il primo conosciuto sul piano trascendentale non su quello categoriale». Le nervature più intime del cristianesimo non sono qui rinvenibili nell’oggetto conoscitivo di una scoperta; non è infatti la luce a coincidere con tale oggetto, bensì la visione e l’esperienza che quella luce rende possibile. Il cristianesimo si spalanca in quanto orizzonte aperto di esperienze possibili vissute alla luce di un trascendente personale che chiede di farsi idea regolativa, che chiede cioè di essere sale invece che sostanza del mondo, rimemorazione invece che attestazione, passione ermeneutica invece che mera imposizione di significati.
Quest’insistenza feconda sul primato trascendentale di Dio non dischiude solo uno tra i modi possibili per dire Dio, ma apre alla gestualità più accogliente e dignitosa con cui è possibile fare esperienza di Dio abitando pienamente il mondo tardo-moderno attraversato da processi secolarizzanti. La gestualità teorica appena delineata nel definire l’essenza della religione ha un ruolo preminente anche nella definizione di secolarizzazione proposta da Taylor. Il filosofo canadese infatti appronta lo studio della secolarizzazione non partendo dalla trasformazione storico-sociale delle credenze religiose, ma dalle condizioni di possibilità per cui tali credenze si danno e diventano esperibili. La secolarizzazione insomma coincide con quel mutamento «che ci ha condotti da una società in cui era virtualmente impossibile credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è solo una possibilità umana tra le altre» (TAYLOR, 14). Tale impostazione si rivela fertile in quanto non descrive la complessa storiografia dei processi secolarizzanti come mera sottrazione delle credenze o delle pratiche religiose alla loro incisività e visibilità. La secolarizzazione non coincide con una lenta ma inevitabile ritrazione delle religioni dallo spazio pubblico, né con la regressione naturale di quel tipo specifico di credenza e di pratica che chiamiamo religione. Più efficacemente potremmo dire che la secolarizzazione non è sintetizzabile in un processo sottrattivo o esclusivamente regressivo: «La nascita della modernità non si riduce alla storia di una perdita, di una sottrazione » (TAYLOR, 42).
Nell’analisi storica proposta da Taylor le ondate secolarizzanti non hanno tanto a che vedere con una privazione di autorità o di riconoscimento della religione cattolica, quanto con una gestione della pluralità delle forme di vita religiose. La secolarizzazione si configura, invece, come processo storico di regolamentazione degli equilibri plurali. Il cattolicesimo medievale, ad esempio, è coinciso con un mondo religioso capace d’incorporare una sorta di equilibrio fondato sulla complementarietà gerarchica degli stili e degli stati di vita. La pluralità delle forme celibatarie o laicali e degli ordini religiosi ne sono una plausibile conferma. La premodernità conosce un mondo pluralista e policentrico fondato sulla convivenza complementare di funzioni e istituzioni. La modernità, e con essa il primo movimento della secolarizzazione, trasforma tale scenario di modelli compresenti e gerarchicamente combinati alla luce di un criterio umanistico di uguaglianza e di mutualità tra quei soggetti della storia che da collettivi si fanno sempre più individuali e soggettivi. L’irrompere di una sfera economica sempre più articolata e pervasiva e l’affermarsi di una sfera pubblica sempre più autonoma hanno portato a interpretare spesso tale idea di uguaglianza degli attori sociali come interscambiabilità dei ruoli e delle funzioni, propria di una logica economicistica. I modelli complementari di vita sono diventati lentamente relazioni fluttuanti di mutuo servizio tra individui uguali con il rischio però che tale reciprocità degeneri in interscambiabilità, indifferenza e sostituibilità.
La svolta antropologica e sociale della modernità ridisegna un mondo caratterizzato da un insieme interconnesso di attività di produzione, di scambio e di consumo basato su un sistema economico dotato di leggi proprie. Si definisce un luogo di coesistenza in cui si sperimentano relazioni d’interconnessione. «Lo sviluppo dell’ordine disciplinato, strumentalmente razionale, del beneficio reciproco ha rappresentato la matrice all’interno della quale è potuta avvenire la svolta. La svolta è il cuore e l’origine della “secolarizzazione” moderna, nel terzo senso in cui ho utilizzato tale termine, quello cioè delle nuove condizioni in cui la credenza e la non credenza coesistono precariamente e spesso entrano in conflitto nella società contemporanea» (TAYLOR, 378). Quella che Taylor descrive è riconducibile a una sorta di trasformazione antropologica della modernità, svolta sempre declinabile alla luce dei mutamenti sociali e non di una vaga e astratta natura dell’uomo. La stessa svolta verso l’individualismo religioso moderno viene descritta da Beck nei termini di una progressiva invenzione dello «spazio interiore » dell’uomo che, contrapposto dialetticamente allo spazio religioso pubblico, apre ai soggetti la via dell’intimo dialogo quotidiano con il proprio Dio. I soggetti moderni sono così chiamati ad avventurarsi in forme espressive individuali anche nella pratica della propria fede: è la nascita del «Dio personale». L’aspetto più interessante dell’opera di Beck consiste però nella ridefinizione critica del concetto stesso di secolarizzazione alla luce di quello che egli chiama individualismo religioso. Se la teoria comunemente accettata di secolarizzazione è sostenuta dalla tesi secondo cui la modernizzazione comporta un’inevitabile marginalizzazione delle religioni, l’idea di individualismo religioso afferma che nel progredire della modernizzazione le religioni non scompaiono, ma mutano il loro volto, operano mediante distinzioni e categorie che prima erano assenti. L’individualizzazione cristiana è una di queste.
Il «Dio personale », infatti, non è un’invenzione postmoderna bensì «il culmine di un lungo processo d’individualizzazione che si colloca all’interno della stessa tradizione cristiana e nel corso del quale l’autonomia dell’individuo si è affermata, passo dopo passo, contro la definizione collettiva di religiosità e di sfera sociale» (BECK, 111). Ciò che in tale processo deve essere contrastato è quello che Beck definisce il fraintendimento individualistico dell’individualizzazione. L’invenzione del Dio personale non coincide necessariamente con un Dio inventato a misura e forma di una soggettività autoreferenziale e monadica. L’individualizzazione moderna non deve richiamare automaticamente sentimenti o interessi individuali e quindi egoistici, tanto più l’individualizzazione religiosa moderna non deve essere letta come accesso personale alla trascendenza e svincolato da ogni mediazione istituzionale e sociale. Se nella modernità l’individuo scopre di orbitare attorno a se stesso, non sempre l’individualizzazione religiosa ha stabilito che l’individuo stesso sia l’artefice di tale orbita. Il soggetto moderno, creatore della propria religiosità, è sempre posto, collocato e situato in un’orbita di senso in cui la sua stessa individualizzazione si compie. L’individualizzazione religiosa in ambito cattolico si è dovuta confrontare particolarmente con tale dimensione della secolarizzazione perché proprio in questo scenario di modernizzazione è potuta emergere la vitale ambivalenza dialettica del cattolicesimo storico.
Tale ambivalenza costitutiva coincide con la tensione sempre aperta tra la sovranità della scelta soggettiva e la necessità di istituzioni. Uno dei meriti della secolarizzazione sta proprio nell’aver rimandato incessantemente i soggetti credenti alla fatica cattolica più peculiare, quella di abitare la vitale frattura che separa libertà e istituzione, quella d’incarnare l’atto di fede nel fianco squarciato della Chiesa che è insieme comunità di libertà e comunità di credenti. In altre parole la secolarizzazione ha aperto alla dimensione matura e all’orografia moderna del cattolicesimo, ha richiamato all’urgenza di dover riconfigurare sempre e incessantemente quella scena della fede che è delimitata dal fondale della libertà nel e del battesimo e il proscenio della convivenza dei credenti all’interno dell’ortodossia istituzionale della comunità di fede. È interessante notare come Beck, alla luce di tali osservazioni, colleghi il principio fondamentale della religione cristiana a una precisa idea metodologica con la quale «non si intendono principi idealistici, che si affermano nel processo storico in quanto emanazione interiore (logica), bensì spazi di possibilità o potenzialità, per esempio creazioni collettive di tipo discorsivo, la cui produzione non poggia soltanto su punti di vista pionieristici, ma richiede anche risorse materiali. Inoltre, la loro selezione e validità è fondata, non ultimo, sulla loro funzionalità storico-contestuale rispetto al potere» (BECK, 122).
Tratto dalla rivista Il Regno n. 20 del 2009
(http://www.ilregno.it)
La voluminosa opera del filosofo-sociologo di Montreal, Charles Taylor, intende rispondere alla domanda oggetto di un dibattito che dura da decenni: che cosa significa affermare che viviamo in un età secolare? Una domanda che richiede il chiarimento di che cosa si intenda per secolarizzazione. Il tentativo di risposta offerto dall’imponente trattazione va al di là di quello che normalmente si intende per secolarizzazione, perchè investe un’intera epoca (29).
A questo scopo l’A. distingue tre significati di secolarizzazione:
(a) rimozione della religione dallo spazio pubblico, che non è solo quello politico ma comprende le diverse sfere di attività, svuotate di Dio e di qualsiasi riferimento alla realtà ultima;
(b) diminuzione della credenza e della pratica religiosa, allontanamento delle persone da Dio e dalla Chiesa;
(c) condizioni della credenza, nel senso di transizione da una società in cui la fede in Dio non era problematica, ad una in cui viene considerata come un’opzione tra le altre, spesso non come la più facile da abbracciare, e concerne il significato del credere che dipende in parte dal fatto che la credenza è un opzione tormentata nelle societ à cristiane o "postcristiane". Alla luce di questa terza accezione, l’intento perseguito dall’A. è esplorare e definire il mutamento che ha condotto «da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è solo una possibilità umana tra le altre» (14).
La secolarizzazione nella sua terza accezione è quella in cui si concentra l’attenzione dell’A., e «consiste perciò nella comparsa di nuove condizioni della credenza, in una nuova forma dell’esperienza che ci sprona alla credenza ed è definita da essa e in un nuovo contesto entro cui deve procedere qualsiasi ricerca della dimensione morale e spirituale» (36). L’obiezione che si può muovere è se si tratti solo di nuove condizioni della credenza, in senso non scontata, di possibilità tra le altre, di un range di scelte o attiene la stessa possibilit à della credenza (tradizionale?) in un cornice di un umanesimo esclusivo e plurale delineato dallo stesso A. Vale la pena sottolineare che questo cambiamento riguarda le società occidentali o nord-atlantiche e che la secolarizzazione è un processo che riguarda l’intero .contesto di comprensione. entro cui entro cui avvengono le nostre esperienze di ricerca morale, spirituale o religiosa, e quindi i modi alternativi di vivere la vita morale/spirituale nel più ampio senso del termine. Da questo punto di vista la civilt à occidentale ha conosciuto una profonda trasformazione da una condizione in cui la maggior parte delle persone viveva "ingenuamente" entro una certa prospettiva (in parte cristiana, in parte legata a spiriti di derivazione pagana), ad una in cui più nessuno fa questa esperienza, considerando la propria posizione come una fra le tante. Il riferimento anche per le credenze è al contesto o cornice di idee date per scontate, o allo "sfondo" "secondo una terminologia filosofica". entro cui si crede o si rifiuta di credere in Dio.
Quadri di riferimento definiti rispettivamente come "ingenuo" e "riflessivo". È proprio il mutamento dello sfondo, cioè dell’intero contesto in cui sperimentiamo e perseguiamo la pienezza, che definisce secondo l’A. l’avvento di un’epoca secolarizzata nel terzo senso del termine. Taylor nella sua ricerca adotta una prospettiva storica, o meglio secondo una prospettiva storica a nostro avviso sviluppa prevalentemente una storia delle idee che riguarda il mutamento del contesto, dello "sfondo" che ha condotto progressivamente ad un epoca secolare dominata come orizzonte da un .umanesimo esclusivo ., ed in cui la fede in Dio è una tra le altre possibilità umane. Analizza nella cristianit à occidentale con dovizia di riferimenti filosofici, sociologici, letterari e teologici del campo di interesse, gli aspetti prevalentemente culturali della modernit à di carattere secolare sviluppati in prima istanza dalle diverse elités storiche ma che hanno contribuito al mutamento degli immaginari sociali moderni.
Non si tratta di una singola trasformazione, ma di una serie di nuove partenze, in cui si dissolvono o sono destabilizzate le precedenti forme della vita religiosa e se ne creano delle nuove. Secondo questa.analisi, il mondo secolare di oggi non è segnato da una assenza di religione - anche se in alcune società occidentali le credenze e le pratiche religiose hanno subito chiaramente un declino - ma piuttosto da una continua moltiplicazione di nuove opzioni, religiose, spirituali o anti-religiose (effetto nova), che gli individui scelgono per conferire senso alle loro vite e dare forma alle loro aspirazioni spirituali. I risultati della ricerca dell’A. si articolano in cinque parti: l’opera della riforma protestante con il .Grande Sradicamento .; il punto di svolta rappresentato dal «teismo provvidenzialista» e dall’«ordine impersonale»; l’effetto nova derivante dall .affermazione dell’alternativa umanistica dell’autenticità rispetto a quella trascendente del deismo con la creazione di un raggio più vasto di soluzioni etiche e spirituali; le narrazioni della secolarizzazioni nell’epoca della mobilitazione di massa e dell’autenticità; le condizioni della credenza in una cornice immanente e di pressioni incrociate tra cui scegliere.
L’A. chiede al lettore di non considerare il libro «come una sequenza continua di storia e ragionamenti, bensì come un insieme di saggi intrecciati che si illuminano reciprocamente e fungono da contesto di pertinenza l’uno per l’altro» (9). Con quest.opera Taylor narra la storia di un mutamento epocale segnato da una serie di nuove partenze, che hanno contribuito al mutamento degli orizzonti sociali di precomprensione, in cui si situano le stesse credenze religiose, e segna un punto di svolta nelle lunghe discussioni sulla secolarizzazione. In questo senso l’opera ha un’impronta sociologica, in cui si avvertono le influenze di studiosi come Durkheim e James a cui ha dedicato uno studio, ma anche di Tocqueville e Weber. A noi lettori italiani o europei per certi aspetti stupisce il riferimento diffuso e preciso alle dottrine della teologia cattolica, come uno degli elementi delle concezioni in gioco nei diversi momenti storico- culturali, per cui è stata obiettata al testo la confessionalità dell’A. direttamente coinvolto nelle problematiche di natura religiosa, cioè gli interessi non solo conoscitivi dell’appartenenza ad un campo religioso o illusio nella terminologia di Bourdieu.
Questa analisi storico-sociologica dell’età secolare offerta al vaglio della comunità scientifica, non si presta ad utilizzazioni apologetiche per l’affermazione che la secolarizzazione non ha eliminato la religione, ha ancora una sua funzione sociale ed è una risorsa per dare significato all’esistenza. Merita attenzione un’affermazione finale di carattere esplicativo: «La mia prospettiva non lascia alcuno spazio a rotture non problematiche con un passato che ci saremmo semplicemente lasciati alle spalle. Da questo punto di vista, credo di essere rimasto fedele a un’intuizione che Robert Bellah sta elaborando nel dettaglio in un suo libro sullo sviluppo religioso dell’umanità di prossima pubblicazione e che egli condensa nella formula: “nulla va mai perduto definitivamente” (966).
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2011
(www.rassegnaditeologia.it)
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