Bellezza e liturgia
(Oscar saggi)EAN 9788804597346
Pavel A. Florenskij (1882-1937), scienziato, teologo e filosofo, è una delle massime personalità del Novecento ortodosso russo. I suoi testi stanno entrando in questi anni nei cataloghi delle case editrici religiose e laiche. I cinque saggi qui raccolti, scritti a partire dal 1909, ma soprattutto dopo la rivoluzione d’ottobre 1917, risentono della difficoltà di rendere plausibile la tradizione teologica e spirituale ortodossa nel nuovo clima sociale e culturale. Per questo la riaffermazione dell’identità ortodossa come propria di quella Chiesa la cui bellezza viene da Dio e non dalla conquista del progresso storico e l’affermazione della liturgia come l’unico luogo vivo dove la preghiera dà spazio all’irrompere della grandezza e bellezza di Dio (di fronte alla pretesa moderna di ricondurre il bello alle stanze morte del museo) sono un patrimonio anche per il lettore odierno.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2010 n. 16
(http://www.ilregno.it)
Se l’interesse per la persona, l’opera e il pensiero di Florenskij ha superato in Italia ormai da alcuni anni la cerchia di una piccola nicchia di specialisti, tanto da potersi parlare di una sua sempre più diffusa popolarità presso l’ampio pubblico dei lettori italiani, ciò si deve anche alla casa editrice Mondadori che ha pubblicato in passato, e continua a ristampare, due testi di grande successo (nel 2000: «Non dimenticatemi».
Lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo; nel 2003: Ai miei figli. Memorie di giorni passati), ospitandoli prima nella collana Uomini e religioni e successivamente in Oscar saggi. Nel 2010 è poi uscito presso la casa editrice milanese un terzo volume di testi di Florenskij, curato da Natalino Valentini, autore dell’introduzione: Pavel A. Florenskij interprete dell’ortodossia (VII-XXXII) e delle tre note bio-bibliografiche (XXXIII-XLIX). Il volume raccoglie cinque brevi saggi che il pensatore e martire russo scrisse nel periodo dal 1909 al 1923: L’ortodossia, Il rito come sintesi delle arti, Nota sull’ortodossia, Cristianesimo e cultura e Lezioni sulla concezione cristiana del mondo.
Tre di essi erano già usciti in Italia (Il rito come sintesi delle arti, in La prospettiva rovesciata e altri scritti, trad. di Carla Muschio e Nicoletta Misler, Casa del libro, Roma 1983 [Gangemi editore, Roma 1990], 57-67; Cristianesimo e cultura, in L’Altra Europa 215 [1987] n. 5, 25-33; Nota sull’ortodossia, in L’Altra Europa 235 [1991] n. 1, 25-33), tuttavia il volume di Valentini ne propone una nuova traduzione a firma di Claudia Zonghetti. Data la loro non facile reperibilità, non si può che essere grati per questa riproposizione che, integrata da due testi inediti, è caratterizzata da un’innegabile unità interna.
La si può certo cogliere nella convergenza dei temi sviluppati da Florenskij e nell’utilizzo, da parte sua, di un’unica prospettiva ermeneutica di fondo; ancor di più però è rintracciabile in quello che rappresenta l’unico motivo che lo spinse a ideare e a scrivere ognuno dei 5 saggi: la preoccupazione per il futuro della Russia cristiana e per il cristianesimo in generale. Parafrasando una battuta dell’Autore russo, rivolta contro Kant, oserei dire che, se il filosofo tedesco elaborò la sua filosofia seduto comodamente in poltrona, con il sigaro in mano, Florenskij scrisse i cinque succitati testi dolorosamente prostrato davanti all’icona del Salvatore, schiacciato dal peso delle minacce che nei primi decenni del ’900 pendevano, come nuvole oscure, sull’orizzonte della storia russa ed europea.
È un dato di fatto che, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse in un clima areligioso, il pensatore russo visse il suo avvicinamento all’Ortodossia attraverso l’esperienza dell’incontro con alcuni santi monaci (i cosiddetti starcy), ma anche con la fragilità della Chiesa come istituzione malata di sterilità spirituale e di narcisismo clericale, istituzione in cui, però, riuscì a intravedere un “cuore sacro”, un prezioso “tesoro” di santità di cui si innamorò e che non gli permise di tirarsi indietro. Ecco perché successivamente s’impegnò molto a promuovere, con la sua opera, il necessario rinnovamento ecclesiale. Di qui scaturisce una delle caratteristiche delle sue riflessioni sui temi riguardanti l’Ortodossia.
Come si evince da alcuni scritti e in particolare dalla ricca corrispondenza di Florenskij, se egli parlava della Chiesa ortodossa e dell’Ortodossia russa e se arrivava a elogiarne la superiorità rispetto ad altre confessioni cristiane, lo faceva con la consapevolezza di riferirsi ad una Chiesa e ad un’Ortodossia ideali, in potentia, descrivendo cioè come esse avrebbero potuto e dovuto essere, e non come apparivano realmente. È qui la chiave per la comprensione dei cinque saggi: il senso di ciò che il testo dice e di quello che si nasconde tra le righe. Il che, ovviamente, nulla toglie alle dense e coinvolgenti riflessioni teologiche e teoretiche sui temi trattati (icona, liturgia, bellezza, ecc.); le fa solo apparire in quel Sitz im Leben che ne ha determinato il significato più profondo.
È in quest’ottica che va letto il saggio L’ortodossia. Esso venne scritto nel 1909, in un periodo dunque in cui Florenskij frequentava il circolo slavofilo di M.A. Novoselov, riservato a un numero ristretto di intellettuali ortodossi desiderosi di contribuire al rinnovamento della società e, prima ancora, della Chiesa. È noto che una delle caratteristiche del circolo fu l’adesione pressoché acritica e totale dei suoi membri all’idea del “messianismo russo” (ossia al nazionalismo russo e al confessionalismo ortodosso), adesione che coinvolse anche il giovane Pavel. Eppure nella conclusione del saggio è espressa la visione realista di chi sa ammettere «la decadenza e lo sfacelo della quotidianità ortodossa – e dunque anche dell’Ortodossia» (26).
Il saggio Il rito come sintesi delle arti fu invece concepito in un contesto storico diverso; Florenskij lo scrisse a un anno esatto dalla rivoluzione d’Ottobre del 1917, dopo l’inasprimento della persecuzione da parte del governo dei soviet nei confronti della Chiesa, cui fece seguito la distruzione dei luoghi e degli oggetti di culto. Per cercare di salvare almeno il santuario della tradizione religiosa russa, la lavra della SS. Trinità di San Sergio a Sergiev Posad, Florenskij guidò la Commissione per la tutela dei monumenti e delle antichità della lavra stessa, sperando di riuscire a scongiurarne sia la distruzione che la conversione forzata in museo. Si tratta, dunque, di un testo apologetico che, purtroppo, non riuscì a cambiare le idee dei protagonisti del Kulturkampf sovietico.
Al contrario, la posizione di Florenskij, e della Commissione, irritò il governo a tal punto da poter essere considerata una delle cause della sua futura incarcerazione e condanna. I saggi Nota sull’ortodossia e Cristianesimo e cultura, entrambi del 1923, sono una sorta di grido de profundis, lanciato per scuotere le coscienze dei contemporanei. Questa volta, però, Florenskij volge il suo sguardo preoccupato non solo alla difficile situazione in cui versa l’Ortodossia russa, ma pure a quello della cristianità in quanto tale, di cui denuncia la paurosa “sterilità” sia culturale che spirituale. È inutile sottolineare quanto le analisi e le riflessioni presenti nei due saggi siano di grande attualità. Andrebbero accolte con molta attenzione soprattutto oggi, come puntuale messa a fuoco di quelli che dovrebbero essere tanto i presupposti che le vie di attuazione di una vera “nuova evangelizzazione”.
Sta di fatto che alcune anticipazioni di tali analisi e riflessioni si trovano già nelle ultime lezioni che Florenskij nel 1921 tenne all’Accademia teologica di Mosca (successivamente soppressa dal regime sovietico), di cui Valentini ci offre un invitante assaggio (pubblicando il testo di quattro lezioni). Una traduzione completa del materiale delle lezioni si trova invece nel volume curato da Antonio Maccioni. Da quanto mi risulta, si tratta della prima traduzione di quest’opera così importante e ancora sconosciuta a molti. Le venti lezioni del 1921, nella versione originale intitolate Il posto e i presupposti storico-culturali della concezione del mondo, rappresentano un gioiello che non può non attirare l’attenzione degli studiosi per diverse ragioni. Prima di tutto, offrono una densa sintesi di tutto il pensiero di Florenskij, delle sue originali intuizioni filosofico-teologiche ed epistemologiche, e toccano tutte le questioni riconosciute centrali per il suo progetto di ricerca: dai temi del senso della genealogia e della storia a quelli del significato metafisico dell’icona e del culto; da quelli della conoscenza e del simbolo a quelli del mito e del dogma.
Al contempo, le lezioni sono un’eccellente introduzione alla conoscenza di quello che il loro Autore considerò il “compito” di tutta la sua vita: l’apertura di nuove vie per una globale concezione del mondo, poggiata sulle fondamenta della Weltanschauung cristiana. Quali sono le peculiarità di quest’ultima? Florenskij ne parla in ogni lezione, indicando il profondo nesso tra la concezione cristiana del mondo e la metafisica fondata sulla verità dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Egli la definisce “metafisica concreta” e la imposta sulla prospettiva dell’ontologia del simbolo, prendendo come punto di riferimento l’essere-simbolo della persona divino-umana e trinitaria di Gesù Cristo (cf. 135-141, 176-181, 190-193; l’idea di «Cristo come Simbolo» comparve già nella sua Zapisnaja tetrad’ [1904-1905], in E.V. Ivanova [a cura di], Pavel Florenskij i simvolisty, Jazyky slavjanskoj ku?tury, Moskva 2004, 411). Va detto che l’ontologia del simbolo – intrinsecamente connessa con l’idea del “confine” tra i “due mondi”, intesa nei termini del realismo della teantropia cristica – definisce quello che è l’orizzonte d’interpretazione privilegiato proprio del pensiero di Florenskij e che, però, pur presente in molte opere (in particolare nella Filosofia del culto), spesso non viene colto o compreso a sufficienza, al punto che alcuni studiosi continuano a parlare di una questione aperta nel pensiero del nostro Autore: la congruenza e la virtualità «del pensiero platonico in rapporto all’espressione della novità e originalità della rivelazione cristiana» (P. Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2011, 485).
Tematizzando tale questione, Coda scrive: «Ma – mi chiedo – l’impianto platonico che egli [Florenskij] sposa con entusiasmo e senza riserve sin dalla giovinezza, è sufficiente a esprimere, e addirittura è del tutto conciliabile – come Florenskij sembra pensare –, con il novum rappresentato dall’evento dell’incarnazione? Si può ancora parlare in quel modo, in modo platonico appunto, di “due mondi”? E c’è ancora necessità di trovare un “confine” tra di essi?» (ivi, 485-496). Per rispondere a queste e altre simili domande non era certo necessario attendere la pubblicazione delle venti lezioni, così come non è necessario attendere la traduzione di un altro capolavoro di Florenskij, La filosofia del culto, dato che già altre sue opere dimostrano come il suo platonismo debba essere compreso come una sorta di cavallo di Troia. Desiderando introdurre nella “città” della cultura e della scienza russe dei suoi tempi – occupata dal positivismo e dal razionalismo – le intuizioni filosofiche, gli schemi e i concetti di pensiero forgiati alla luce della Rivelazione cristiana, egli scelse di rifarsi a Platone, filosofo ben noto in Russia, ma comunque poco studiato quanto alle potenzialità speculative delle sue intuizioni metafisiche. Florenskij mise a fuoco l’originalità e l’attualità di queste ultime, volendo preparare con ciò la via per giustificare la rilevanza filosofica e culturale del rivelarsi di Dio Trinità nella persona di Gesù Cristo. Chiaro è, come fece notare già il filosofo A.F. Losev, che Florenskij si spinse ben oltre la dualistica prospettiva dei “due mondi” platonici, adottando con convinzione – persino nella sua interpretazione del filosofo greco – l’orizzonte dell’Incarnazione (si veda P.A. Florenskij, «Non dimenticatemi», 324-325). Torniamo però alle lezioni del 1921. Esse si rivelano preziose anche per la possibilità di una intelligenza più approfondita delle principali idee teologiche di Florenskij, tra cui quella dell’unità intrinseca tra fede e ragione e quindi tra scienza, filosofia e teologia.
Un’unità da lui affermata nel nome dell’esistenza di una verità di dimensioni universali, ossia di un unitario e onnipresente spazio di oggettività veritativa al cui interno “funzionano” – trovandosi in un rapporto sinergico e di completamento – tutti i tipi di azione cognitiva. Nelle lezioni non possono mancare, però, i cenni critici alla situazione di decadenza della Chiesa russa. Riferendosi ad essa Florenskij scrive: «Parlando della Chiesa citiamo spesso le parole: “Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Ma nel farlo dimentichiamo che la questione riguarda la Chiesa di Cristo, non della Russia. […] L’intera Chiesa russa dei vertici non può andare da nessuna parte. Appartiene interamente a una cultura non ecclesiale. Da noi, essenzialmente tutti, finanche gli uomini ecclesiali, sono dei positivisti» (169).
Tratto dalla rivista Lateranum n.2/2012
(http://www.pul.it)
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