Incontro con i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma
Il progresso della fede nella vita del sacerdote
«Signore, accresci in noi la fede!» (Lc 17,5). Questa domanda sorse spontanea nei discepoli quando il Signore stava parlando loro della misericordia e disse che dobbiamo perdonare settanta volte sette. “Accresci in noi la fede”, chiediamo anche noi, all’inizio di questa conversazione. Lo chiediamo con la semplicità del Catechismo, che ci dice: «Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla». É una fede che «deve operare “per mezzo della carità” (Gal 5,6; cfr Gc 2,14-26), essere sostenuta dalla speranza (cfr Rm 15,13) ed essere radicata nella fede della Chiesa» (n. 162).
Mi aiuta appoggiarmi a tre punti fermi: la memoria, la speranza e il discernimento del momento. La memoria, come dice il Catechismo, è radicata nella fede della Chiesa, nella fede dei nostri padri; la speranza è ciò che ci sostiene nella fede; e il discernimento del momento lo tengo presente al momento di agire, di mettere in pratica quella “fede che opera per mezzo della carità”.
Lo formulo in questo modo:
- Dispongo di una promessa – è sempre importante ricordare la promessa del Signore che mi ha posto in cammino –.
- Sono in cammino – ho speranza –: la speranza mi indica l’orizzonte, mi guida: è la stella e anche ciò che mi sostiene, è l’ancora, ancorata in Cristo.
- E, nel momento specifico, ad ogni incrocio di strade devo discernere un bene concreto, il passo avanti nell’amore che posso fare, e anche il modo in cui il Signore vuole che lo faccia.
Fare memoria delle grazie passate conferisce alla nostra fede la solidità dell’incarnazione; la colloca all’interno di una storia, la storia della fede dei nostri padri, che «morirono nella fede, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano» (Eb 11,13)[1]. Noi, «circondati da tale moltitudine di testimoni», guardando dove essi guardano, teniamo lo sguardo «fisso su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2).
La speranza, da parte sua, è quella che apre la fede alle sorprese di Dio. Il nostro Dio è sempre più grande di tutto ciò che possiamo pensare e immaginare di Lui, di ciò che gli appartiene e del suo modo di agire nella storia. L’apertura della speranza conferisce alla nostra fede freschezza e orizzonte. Non è l’apertura di un’immaginazione velleitaria che proietterebbe fantasie e propri desideri, ma l’apertura che provoca in noi il vedere la spogliazione di Gesù, «il quale, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio» (Eb 12,2). La speranza che attrae, paradossalmente, non la genera l’immagine del Signore trasfigurato, ma la sua immagine ignominiosa. «Attirerò tutti a me» (Gv 12,32). È il donarsi totale del Signore sulla croce quello che ci attrae, perché rivela la possibilità di essere più autentica. È la spogliazione di colui che non si impadronisce della promesse di Dio, ma, come vero testatore, passa la fiaccola dell’eredità ai suoi figli: «Dove c’è un testamento, è necessario che la morte del testatore sia dichiarata» (Eb 9,16).
Il discernimento, infine, è ciò che concretizza la fede, ciò che la rende «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6), ciò che ci permette di dare una testimonianza credibile: «Con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). Il discernimento guarda in primo luogo ciò che piace al nostro Padre, «che vede nel segreto» (Mt 6,4.6), non guarda i modelli di perfezione dei paradigmi culturali. Il discernimento è “del momento” perché è attento, come la Madonna a Cana, al bene del prossimo che può fare in modo che il Signore anticipi “la sua ora”, o che “salti” un sabato per rimettere in piedi colui che stava paralizzato. Il discernimento del momento opportuno (kairos) è fondamentalmente ricco di memoria e di speranza: ricordando con amore, punta lo sguardo con lucidità a ciò che meglio guida alla Promessa.
E ciò che meglio guida è sempre in relazione con la croce. Con quello spossessarmi della mia volontà, con quel dramma interiore del «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39) che mi pone nelle mani del Padre e fa in modo che sia Lui a guidare la mia vita.
Crescere nella fede
Torno per un momento al tema del “crescere”. Se rileggete con attenzione Evangelii gaudium – che è un documento programmatico – vedrete che parla sempre di “crescita” e di “maturazione”, sia nella fede sia nell’amore, nella solidarietà come nella comprensione della Parola[2]. Evangelii gaudium ha una prospettiva dinamica. «Il mandato missionario del Signore comprende l’appello alla crescita della fede quando indica: “insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,20). Così appare chiaro che il primo annuncio deve dar luogo anche ad un cammino di formazione e di maturazione» (n. 160).
Sottolineo questo: cammino di formazione e di maturazione nella fede. E prendere questo sul serio implica che «non sarebbe corretto interpretare questo appello alla crescita esclusivamente o prioritariamente come formazione (meramente) dottrinale» (n. 161). La crescita nella fede avviene attraverso gli incontri con il Signore nel corso della vita. Questi incontri si custodiscono come un tesoro nella memoria e sono la nostra fede viva, in una storia di salvezza personale.
In questi incontri l’esperienza è quella di una incompiuta pienezza. Incompiuta, perché dobbiamo continuare a camminare; pienezza, perché, come in tutte le cose umane e divine, in ogni parte si trova il tutto[3].Questa maturazione costante vale per il discepolo come per il missionario, per il seminarista come per il sacerdote e il vescovo. In fondo è quel circolo virtuoso a cui si riferisce il Documento di Aparecida che ha coniato la formula “discepoli missionari”.
Il punto fermo della croce
Quando parlo di punti fermi o di “fare perno”, l’immagine che ho presente è quella del giocatore di basket o pallacanestro, che inchioda il piede come “perno” a terra e compie movimenti per proteggere la palla, o per trovare uno spazio per passarla, o per prendere la rincorsa e andare a canestro. Per noi quel piede inchiodato al suolo, intorno al quale facciamo perno, è la croce di Cristo. Una frase scritta sul muro della cappella della Casa di Esercizi di San Miguel (Buenos Aires) diceva: “Fissa sta la Croce, mentre il mondo gira” [“Stat crux dum volvitur orbis”, motto di san Bruno e dei Certosini]. Poi uno si muove, proteggendo la palla, con la speranza di fare canestro e cercando di capire a chi passarla.
La fede – il progresso e la crescita nella fede – si fonda sempre sulla Croce: «È piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» di «Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,21.23). Tenendo dunque, come dice la Lettera agli Ebrei, «fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento», noi ci muoviamo e ci esercitiamo nella memoria – ricordando la «moltitudine di testimoni» – e corriamo con speranza «nella corsa che ci sta davanti», discernendo le tentazioni contro la fede, «senza stancarci né perderci d’animo» (cfr Eb 12,1-3).
Memoria deuteronomica
In Evangelii gaudium ho voluto porre in rilievo quella dimensione della fede che chiamo deuteronomica, in analogia con la memoria di Israele: «La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata: è una grazia che abbiamo bisogno di chiedere. Gli Apostoli mai dimenticarono il momento in cui Gesù toccò loro il cuore: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,39)» (n. 13).
Nella «“moltitudine di testimoni” […] si distinguono alcune persone che hanno inciso in modo speciale per far germogliare la nostra gioia credente: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la Parola di Dio” (Eb 13,7). A volte si tratta di persone semplici e vicine che ci hanno iniziato alla vita della fede: “Mi ricordo della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Loide e tua madre Eunice” (2 Tm 1,5). Il credente è fondamentalmente “uno che fa memoria”» (ibid.).
La fede si alimenta e si nutre della memoria. La memoria dell’Alleanza che il Signore ha fatto con noi: Egli è il Dio dei nostri padri e nonni. Non è Dio dell’ultimo momento, un Dio senza storia di famiglia, un Dio che per rispondere ad ogni nuovo paradigma dovrebbe scartare come vecchi e ridicoli i precedenti. La storia di famiglia non “passa mai di moda”. Appariranno vecchi i vestiti e i cappelli dei nonni, le foto avranno color seppia, ma l’affetto e l’audacia dei nostri padri, che si spesero perché noi potessimo essere qui e avere quello che abbiamo, sono una fiamma accesa in ogni cuore nobile.
Teniamo ben presente che progredire nella fede non è soltanto un proposito volontaristico di credere di più d’ora innanzi: è anche esercizio di ritornare con la memoria alle grazie fondamentali. Si può “progredire all’indietro”, andando a cercare nuovamente tesori ed esperienze che erano dimenticati e che molte volte contengono le chiavi per comprendere il presente. Questa è la cosa veramente “rivoluzionaria”: andare alle radici. Quanto più lucida è la memoria del passato, tanto più chiaro si apre il futuro, perché si può vedere la strada realmente nuova e distinguerla dalle strade già percorse che non hanno portato da nessuna parte. La fede cresce ricordando, collegando le cose con la storia reale vissuta dai nostri padri e da tutto il popolo di Dio, da tutta la Chiesa.
Perciò l’Eucaristia è il Memoriale della nostra fede, ciò che ci situa sempre di nuovo, quotidianamente, nell’avvenimento fondamentale della nostra salvezza, nella Passione, Morte e Risurrezione del Signore, centro e perno della storia. Ritornare sempre a questo Memoriale – attualizzarlo in un Sacramento che si prolunga nella vita – questo è progredire nella fede. Come diceva sant’Alberto Hurtado: «La Messa è la mia vita e la mia vita è una Messa prolungata»[4].
Per risalire alle sorgenti della memoria, mi aiuta sempre rileggere un passo del profeta Geremia e un altro del profeta Osea, nei quali essi ci parlano di ciò che il Signore ricorda del suo Popolo. Per Geremia, il ricordo del Signore è quello della sposa amata della giovinezza, che poi gli è stata infedele. «Mi ricordo di te – dice a Israele –, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, […]. Israele era sacro al Signore» (2,2-3).
Il Signore rimprovera al suo popolo la sua infedeltà, che si è rivelata una cattiva scelta: «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua. […] Ma tu rispondi: “No, è inutile, perché io amo gli stranieri, voglio andare con loro» (2,13.25).
Per Osea, il ricordo del Signore è quello del figlio coccolato e ingrato: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; […] agli idoli bruciavano incensi. A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. […] Il mio popolo è duro a convertirsi» (11,1-4.7). Oggi come allora, l’infedeltà e l’ingratitudine dei pastori si ripercuote sui più poveri del popolo fedele, che restano in balia degli estranei e degli idolatri.
Speranza non solo nel futuro
La fede si sostiene e progredisce grazie alla speranza. La speranza è l’ancora ancorata nel Cielo, nel futuro trascendente, di cui il futuro temporale – considerato in forma lineare – è solo una espressione. La speranza è ciò che dinamizza lo sguardo all’indietro della fede, che conduce a trovare cose nuove nel passato – nei tesori della memoria – perché si incontra con lo stesso Dio che spera di vedere nel futuro. La speranza inoltre si estende fino ai limiti, in tutta la larghezza e in tutto lo spessore del presente quotidiano e immediato, e vede possibilità nuove nel prossimo e in ciò che si può fare qui, oggi. La speranza è saper vedere, nel volto dei poveri che incontro oggi, lo stesso Signore che verrà un giorno a giudicarci secondo il protocollo di Matteo 25: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40).
Così la fede progredisce esistenzialmente credendo in questo “impulso” trascendente che si muove – che è attivo e operante – verso il futuro, ma anche verso il passato e in tutta l’ampiezza del momento presente. Possiamo intendere così la frase di Paolo ai Galati, quando dice che ciò che vale è «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (5,6): una carità che, quando fa memoria, si attiva confessando, nella lode e nella gioia, che l’amore le è stato già dato; una carità che quando guarda in avanti e verso l’alto, confessa il suo desiderio di dilatare il cuore nella pienezza del Bene più grande; queste due confessioni di una fede ricca di gratitudine e di speranza, si traducono nell’azione presente: la fede si confessa nella pratica, uscendo da sé stessi, trascendendosi nell’adorazione e nel servizio.
Discernimento del momento
Vediamo così come la fede, dinamizzata dalla speranza di scoprire Cristo nello spessore del presente, è legata al discernimento.
È proprio del discernimento fare prima un passo indietro, come chi retrocede un po’ per vedere meglio il panorama. C’è sempre una tentazione nel primo impulso, che porta a voler risolvere qualcosa immediatamente. In questo senso credo che ci sia un primo discernimento, grande e fondante, cioè quello che non si lascia ingannare dalla forza del male, ma che sa vedere la vittoria della Croce di Cristo in ogni situazione umana. A questo punto mi piacerebbe rileggere con voi un intero brano di Evangelii gaudium, perché aiuta a discernere quella insidiosa tentazione che chiamo pessimismo sterile: «Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica. […] In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!» (85-86).
Queste formulazioni «non lasciamoci rubare…», mi vengono dalle regole di discernimento di sant’Ignazio, che è solito rappresentare il demonio come un ladro. Si comporta come un capitano – dice Ignazio – che per vincere e rubare ciò che desidera ci combatte nella nostra parte più debole (cfr Esercizi Spirituali, 327). E nel nostro caso, nell’attualità, credo che cerchi di rubarci la gioia – che è come rubarci il presente[5]– e la speranza – l’uscire, il camminare –, che sono le grazie che più chiedo e faccio chiedere per la Chiesa in questo tempo.
È importante a questo punto fare un passo avanti e dire che la fede progredisce quando, nel momento presente, discerniamo come concretizzare l’amore nel bene possibile, commisurato al bene dell’altro. Il primo bene dell’altro è poter crescere nella fede. La supplica comunitaria dei discepoli «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6) sottende la consapevolezza che la fede è un bene comunitario. Bisogna considerare, inoltre, che cercare il bene dell’altro ci fa rischiare. Come dice Evangelii gaudium: «Un cuore missionario è consapevole […] che egli stesso deve crescere nella comprensione del Vangelo e nel discernimento dei sentieri dello Spirito, e allora non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada» (45).
In questo discernimento è implicito l’atto di fede in Cristo presente nel più povero, nel più piccolo, nella pecora perduta, nell’amico insistente. Cristo presente in chi ci viene incontro – facendosi vedere, come Zaccheo o la peccatrice che entra con il suo vaso di profumo, o quasi senza farsi notare, come l’emorroissa –; o Cristo presente in chi noi stessi accostiamo, sentendo compassione quando lo vediamo da lontano, disteso sul bordo della strada. Credere che lì c’è Cristo, discernere il modo migliore per fare un piccolo passo verso di Lui, per il bene di quella persona, è progresso nella fede. Come pure lodare è progresso nella fede, e desiderare di più è progresso nella fede.
Può farci bene soffermarci ora un po’ su questo progresso nella fede che avviene grazie al discernimento del momento. Il progresso della fede nella memoria e nella speranza è più sviluppato. Invece, questo punto fermo del discernimento, forse non tanto. Può persino sembrare che dove c’è fede non dovrebbe esserci bisogno di discernimento: si crede e basta. Ma questo è pericoloso, soprattutto se si sostituiscono i rinnovati atti di fede in una Persona – in Cristo nostro Signore –, che hanno tutto il dinamismo che abbiamo appena visto, con atti di fede meramente intellettuali, il cui dinamismo si esaurisce nel fare riflessioni ed elaborare formulazioni astratte. La formulazione concettuale è un momento necessario del pensiero, come scegliere un mezzo di trasporto è necessario per giungere a una meta. Ma la fede non si esaurisce in una formulazione astratta né la carità in un bene particolare, ma il proprio della fede e della carità è crescere e progredire aprendosi a una maggiore fiducia e a un bene comune più grande. Il proprio della fede è essere “operante”, attiva, e così per la carità. E la pietra di paragone è il discernimento. Infatti la fede può fossilizzarsi, nel conservare l’amore ricevuto, trasformandolo in un oggetto da chiudere in un museo; e la fede può anche volatilizzarsi, nella proiezione dell’amore desiderato, trasformandolo in un oggetto virtuale che esiste solo nell’isola delle utopie. Il discernimento dell’amore reale, concreto e possibile nel momento presente, in favore del prossimo più drammaticamente bisognoso, fa sì che la fede diventi attiva, creativa ed efficace.
L’icona di Simon Pietro “passato al vaglio”
Per concretizzare questa riflessione riguardo a una fede che cresce con il discernimento del momento, contempliamo l’icona di Simon Pietro “passato al vaglio” (cfr Lc 22,31), che il Signore ha preparato in maniera paradigmatica, perché con la sua fede provata confermasse tutti noi che “amiamo Cristo senza averlo visto” (cfr 1 Pt 1,8).
Entriamo in pieno nel paradosso per cui colui che deve confermarci nella fede è lo stesso al quale spesso il Signore rimprovera la sua “poca fede”. Il Signore di solito indica come esempi di grande fede altre persone. Con notevole enfasi loda molte volte la fede di persone semplici e di altre che non appartengono al popolo d’Israele – pensiamo al centurione (cfr Lc 7,9) e alla donna siro-fenicia (cfr 15,28) –, mentre ai discepoli – e a Simon Pietro in particolare – rimprovera spesso la loro «poca fede» (Mt 14,31).
Tenendo presente che le riflessioni del Signore riguardo alla grande fede e alla poca fede hanno un intento pedagogico e sono uno stimolo ad incrementare il desiderio di crescere nella fede, ci concentriamo su un passaggio centrale nella vita di Simon Pietro, quello in cui Gesù gli dice che “ha pregato” per la sua fede. È il momento che precede la passione; gli apostoli hanno appena discusso su chi tra loro sia il traditore e chi sia il più grande, e Gesù dice a Simone: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32).
Precisiamo i termini, poiché le richieste del Signore al Padre sono cose di cui far tesoro nel cuore. Consideriamo che il Signore “prega”[6] per Simone ma pensando a noi. “Venir meno” traduce ekleipo – da cui “eclissarsi” – ed è molto plastica l’immagine di una fede eclissata dallo scandalo della passione. È quell’esperienza che chiamiamo desolazione: qualcosa copre la luce.
Tornare indietro (epistrepsas) esprime qui il senso di “convertirsi”, di ritornare alla consolazione precedente dopo un’esperienza di desolazione e di essere passati al vaglio da parte demonio.
“Confermare” (sterizon) si dice nel senso di “consolidare” (histemi) la fede affinché d’ora in avanti sia “determinata” (cfr Lc 9,51). Una fede che nessun vento di dottrina possa smuovere (cfr Ef 4,14). Più avanti ci soffermeremo ancora su questo “passare al vaglio”. Possiamo rileggere così le parole del Signore: “Simone, Simone, […] io ho pregato il Padre per te, perché la tua fede non rimanga eclissata (dal mio volto sfigurato, in te che lo hai visto trasfigurato); e tu, una volta che sarai uscito da questa esperienza di desolazione di cui il demonio ha approfittato per passarti al vaglio, conferma (con questa tua fede provata) la fede dei tuoi fratelli”.
Così, vediamo che la fede di Simon Pietro ha un carattere speciale: è una fede provata, e con essa egli ha la missione di confermare e consolidare la fede dei suoi fratelli, la nostra fede. La fede di Simon Pietro è minore di quella di tanti piccoli del popolo fedele di Dio. Ci sono persino dei pagani, come il centurione, che hanno una fede più grande nel momento di implorare la guarigione di un malato della loro famiglia. La fede di Simone è più lenta di quella di Maria Maddalena e di Giovanni. Giovanni crede al solo vedere il segno del sudario e riconosce il Signore sulla riva del lago al solo ascoltare le sue parole. La fede di Simon Pietro ha momenti di grandezza, come quando confessa che Gesù è il Messia, ma a questi momenti ne seguono quasi immediatamente altri di grande errore, di estrema fragilità e totale sconcerto, come quando vuole allontanare il Signore dalla croce, o quando affonda senza rimedio nel lago o quando vuole difendere il Signore con la spada. Per non parlare del momento vergognoso dei tre rinnegamenti davanti ai servi.
Possiamo distinguere tre tipi di pensieri, carichi di affetti[7], che interagiscono nelle prove di fede di Simon Pietro: alcuni sono i pensieri che gli vengono dal suo stesso modo di essere; altri pensieri li provoca direttamente il demonio (dallo spirito malvagio); e un terzo tipo di pensieri sono quelli che vengono direttamente dal Signore o dal Padre (dallo spirito buono).
a) I due nomi e il desiderio di camminare verso Gesù sulle acque
Vediamo, in primo luogo, come si relaziona il Signore con l’aspetto più umano della fede di Simon Pietro. Parlo di quella sana autostima con cui uno crede in sé stesso e nell’altro, nella capacità di essere degno di fiducia, sincero e fedele, su cui si basa ogni amicizia umana. Ci sono due episodi nella vita di Simon Pietro nei quali si può vedere una crescita nella fede che si potrebbe chiamare sincera. Sincera nel senso di senza complicazioni, nella quale un’amicizia cresce approfondendo chi è ciascuno senza che vi siano ombre. Uno è l’episodio dei due nomi; l’altro, quando Simon Pietro chiede al Signore di comandargli di andare verso di Lui camminando sulle acque.
Simone appare sulla scena quando suo fratello Andrea lo va a cercare e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41); e lui segue suo fratello che lo porta da Gesù. E lì avviene immediatamente il cambio di nome. Si tratta di una scelta che fa il Signore in vista di una missione, quella di essere Pietra, fondamento solido di fede su cui edificherà la sua Chiesa. Notiamo che, più che cambiargli il nome di Simone, di fatto, ciò che il Signore fa è aggiungere quello di Pietro.
Questo fatto è già in sé motivo di tensione e di crescita. Pietro si muoverà sempre intorno al perno che è il Signore, girando e sentendo il peso e il movimento dei suoi due nomi: quello di Simone – il pescatore, il peccatore, l’amico… – e quello di Pietro – la Roccia su cui si costruisce, colui che ha le chiavi, che dice l’ultima parola, che cura e pasce le pecore –. Mi fa bene pensare che Simone è il nome con cui Gesù lo chiama quando parlano e si dicono le cose come amici, e Pietro è il nome con cui il Signore lo presenta, lo giustifica, lo difende e lo pone in risalto in maniera unica come suo uomo di totale fiducia, davanti agli altri. Anche se è lui che gli dà il nome di “Pietra”, Gesù lo chiama Simone.
La fede di Simon Pietro progredisce e cresce nella tensione tra questi due nomi, il cui punto fisso – il perno – è centrato in Gesù.
Avere due nomi lo decentra. Non può centrarsi in nessuno di essi. Se volesse che Simone fosse il suo punto fisso, dovrebbe sempre dire: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8). Se pretendesse di centrarsi esclusivamente sull’essere Pietro e dimenticasse o coprisse tutto ciò che è di Simone, diventerebbe una pietra di scandalo, come gli accadde quando “non si comportava rettamente secondo la verità del Vangelo”, come gli disse Paolo perché aveva nascosto il fatto di essere andato a mangiare con i pagani (cfr Gal 2,11-14). Mantenersi Simone (pescatore e peccatore) e Pietro (Pietra e chiave per gli altri) lo obbligherà a decentrarsi costantemente per ruotare solo intorno a Cristo, l’unico centro.
L’icona di questo decentramento, la sua messa in atto, è quando chiede a Gesù di comandargli di andare verso di Lui sulle acque. Lì Simon Pietro mostra il suo carattere, il suo sogno, la sua attrazione per l’imitazione di Gesù. Quando affonda, perché smette di guardare il Signore e guarda l’agitarsi delle onde, mostra le sue paure e i suoi fantasmi. E quando lo prega di salvarlo e il Signore gli tende la mano, mostra di sapere bene chi è Gesù per lui: il suo Salvatore. E il Signore gli rafforza la fede, concedendogli quello che desidera, dandogli una mano e chiudendo la questione con quella frase affettuosa e rassicurante: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14,31).
Simon Pietro in tutte le situazioni “limite” in cui potrà mettersi, guidato dalla sua fede in Gesù discernerà sempre qual è la mano che lo salva. Con quella certezza che, anche quando non capisce bene quello che Gesù dice o fa, gli farà dire: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Umanamente, questa consapevolezza di avere “poca fede”, insieme con l’umiltà di lasciarsi aiutare da chi sa e può farlo, è il punto di sana autostima in cui si radica il seme di quella fede “per confermare gli altri”, per “edificare sopra di essa”, che è quella che Gesù vuole da Simon Pietro e da noi che partecipiamo del ministero. Direi che è una fede condivisibile, forse perché non è tanto ammirevole. La fede di uno che avesse imparato a camminare senza tribolazioni sulle acque sarebbe affascinante, ma ci allontanerebbe. Invece, questa fede da buon amico, consapevole della sua pochezza e che confida pienamente in Gesù, ci suscita simpatia e – questa è la sua grazia – ci conferma!
b) La preghiera di Gesù e il vaglio del demonio
Nel passo centrale di Luca che abbiamo preso come guida, possiamo vedere ciò che produce il vaglio del demonio nella personalità di Simon Pietro e come Gesù prega affinché la debolezza, e perfino il peccato, si trasformino in grazia e grazia comunitaria.
Ci concentriamo sulla parola “vaglio” (siniazo: setacciare il grano), che evoca il movimento di spiriti, grazie al quale, alla fine, si discerne ciò che viene dallo spirito buono da ciò che viene da quello cattivo. In questo caso colui che vaglia – colui che rivendica il potere di vagliare – è lo spirito maligno. E il Signore non lo impedisce, ma, approfittando della prova, rivolge la sua preghiera al Padre perché rafforzi il cuore di Simon Pietro. Gesù prega affinché Simon Pietro “non cada nella tentazione”. Il Signore ha fatto tutto il possibile per custodire i suoi nella sua Passione. Tuttavia non può evitare che ognuno sia tentato dal demonio, che si introduce nella parte più debole. In questo tipo di prove, che Dio non manda direttamente ma non impedisce, Paolo ci dice che il Signore ha cura che non siamo tentati al di sopra delle nostre forze (cfr 1 Cor 10,13).
Il fatto che il Signore dica espressamente che prega per Simone è estremamente importante, perché la tentazione più insidiosa del demonio è che, insieme a una certa prova particolare, ci fa sentire che Gesù ci ha abbandonato, che in qualche modo ci ha lasciato soli e non ci ha aiutato come avrebbe dovuto. Il Signore stesso ha sperimentato e vinto questa tentazione, prima nell’orto e poi sulla croce, affidandosi nelle mani del Padre quando si sentì abbandonato. È in questo punto della fede che abbiamo bisogno di essere in modo speciale e con cura rafforzati e confermati. Nel fatto che il Signore prevenga ciò che succederà a Simon Pietro e gli assicuri di avere già pregato perché la sua fede non venga meno, troviamo la forza di cui abbiamo bisogno.
Questa “eclisse” della fede davanti allo scandalo della passione è una delle cose per cui il Signore prega in modo particolare. Il Signore ci chiede di pregare sempre, con insistenza; ci associa alla sua preghiera, ci fa domandare di “non cadere in tentazione e di essere liberati dal male”, perché la nostra carne è debole; ci rivela anche che ci sono demoni che non si vincono se non con la preghiera e la penitenza e, in certe cose, ci rivela che Egli prega in modo speciale. Questa è una di quelle. Come si è riservato l’umile compito di lavare i piedi ai suoi, come una volta risorto si è occupato personalmente di consolare i suoi amici, allo stesso modo questa preghiera con la quale, rafforzando la fede di Simon Pietro, rafforza quella di tutti gli altri, è una cosa di cui il Signore si fa carico personalmente. E bisogna tenerne conto: è a questa preghiera, che il Signore ha fatto una volta e continua a fare – «sta alla destra di Dio e intercede per noi» (Rm 8,34) – che dobbiamo ricorrere per rafforzare la nostra fede.
Se la lezione data a Simon Pietro di lasciarsi lavare i piedi ha confermato l’atteggiamento di servizio del Signore e lo ha fissato nella memoria della Chiesa come un fatto fondamentale, questa lezione, data nello stesso contesto, deve porsi anch’essa come icona della fede tentata e vagliata per la quale il Signore prega. Come sacerdoti che prendiamo parte al ministero petrino, in ciò che sta a noi, partecipiamo della stessa missione: non solo dobbiamo lavare i piedi ai nostri fratelli, come facciamo il Giovedì Santo, ma dobbiamo confermarli nella loro fede, testimoniando come il Signore ha pregato per la nostra.
Se nelle prove che hanno origine nella nostra carne il Signore ci incoraggia e ci rafforza, operando molte volte miracoli di guarigione, in queste tentazioni che vengono direttamente dal demonio, il Signore adopera una strategia più complessa. Vediamo che ci sono alcuni demoni che espelle direttamente e senza riguardi; altri li neutralizza, mettendoli a tacere; altri li fa parlare, chiede il loro nome, come quello che era “Legione”; ad altri risponde ampiamente con la Scrittura, sopportando un lungo procedimento, come nel caso delle tentazioni nel deserto. Questo demonio, che tenta il suo amico all’inizio della sua passione, lo sconfigge pregando, non perché lo lasci in pace, ma perché il suo vaglio diventi motivo di forza a beneficio degli altri.
Abbiamo qui alcuni grandi insegnamenti sulla crescita nella fede. Uno riguarda lo scandalo della sofferenza dell’Innocente e degli innocenti. Questo ci tocca più di quanto crediamo, tocca persino quelli che lo provocano e quelli che fingono di non vederlo. Fa bene ascoltare dalla bocca del Signore, nel momento preciso in cui sta per prendere su di sé questo scandalo nella passione, che Egli prega perché non venga meno la fede di colui che lascia in vece propria, e perché sia lui a confermare noialtri. L’eclisse della fede provocata dalla passione non è qualcosa che ognuno possa risolvere e superare individualmente.
Un’altra lezione importante è che quando il Signore ci mette alla prova, non lo fa mai basandosi sulla nostra parte più debole. Questo è tipico del demonio, che sfrutta le nostre debolezze, che cerca la nostra parte più debole e che si accanisce ferocemente contro i più deboli di questo mondo. Perciò l’infinita e incondizionata misericordia del Padre per i più piccoli e peccatori, e la compassione e il perdono infinito che Gesù esercita fino al punto di dare la vita per i peccatori, non è solo perché Dio è buono, ma è anche frutto del discernimento ultimo di Dio sul male per sradicarlo dalla sua relazione con la fragilità della carne. In ultima istanza, il male non è legato con la fragilità e il limite della carne. Per questo il Verbo si fa carne senza alcun timore e dà testimonianza che può vivere perfettamente in seno alla Santa Famiglia e crescere custodito da due umili creature quali san Giuseppe e la Vergine Maria sua madre.
Il male ha la sua origine in un atto di orgoglio spirituale e nasce dalla superbia di una creatura perfetta, Lucifero. Poi si contagia ad Adamo ed Eva, ma trovando appoggio nel loro “desiderio di essere come dei”, non nella loro fragilità. Nel caso di Simon Pietro, il Signore non teme la sua fragilità di uomo peccatore né la sua paura di camminare sulle acque in mezzo a una tempesta. Teme, piuttosto, la discussione su chi sia il più grande.
È in questo contesto che dice a Simon Pietro che il demonio ha chiesto il permesso di vagliarlo. E possiamo pensare che il vaglio è iniziato lì, nella discussione su chi fosse colui che lo avrebbe tradito, sfociata poi nella discussione su chi fosse il più grande. Tutto il passo di Luca che segue immediatamente l’istituzione dell’Eucaristia è un vaglio: discussioni, predizione del rinnegamento, offerta della spada (cfr 22,23-38). La fede di Simon Pietro è vagliata nella tensione tra il desiderio di essere leale, di difendere Gesù e quello di essere il più grande e il rinnegamento, la vigliaccheria e il sentirsi il peggiore di tutti. Il Signore prega affinché Satana non oscuri la fede di Simone in questo momento, in cui guarda a sé stesso per farsi grande, per disprezzarsi o rimanere sconcertato e perplesso.
Se vi è una formulazione elaborata da Pietro circa queste cose, è quella di una “fede provata”, come ci mostra la sua Prima Lettera, in cui Pietro avverte che non c’è da meravigliarsi delle prove, come se fossero qualcosa di strano (cfr 4,12), ma si deve resistere al demonio «saldi nella fede» (5,9). Pietro definisce sé stesso «testimone delle sofferenze di Cristo» (5,1) e scrive le sue lettere al fine di «ridestare […] il giusto modo di pensare» (2 Pt 3,1) (eilikrine dianoian: giudizio illuminato da un raggio di sole), che sarebbe la grazia contraria all’“eclisse” della fede.
Il progresso della fede, quindi, avviene grazie a questo vaglio, a questo passare attraverso tentazioni e prove. Tutta la vita di Simon Pietro può essere vista come un progresso nella fede grazie all’accompagnamento del Signore, che gli insegna a discernere, nel proprio cuore, ciò che viene dal Padre e ciò viene dal demonio.
c) Il Signore che mette alla prova facendo crescere la fede dal bene al meglio e la tentazione sempre presente
Infine, l’incontro presso il lago di Tiberiade. Un ulteriore passo in cui il Signore mette alla prova Simon Pietro facendolo crescere dal bene al meglio. L’amore di amicizia personale si consolida come ciò che “alimenta” il gregge e lo rafforza nella fede (cfr Gv 21,15-19).
Letta in questo contesto delle prove di fede di Simon Pietro che servono a rafforzare la nostra, possiamo vedere qui come si tratta di una prova molto speciale del Signore. In genere si dice che il Signore lo ha interrogato tre volte perché Simon Pietro lo aveva rinnegato tre volte. Può essere che questa debolezza fosse presente nell’animo di Simon Pietro (o in quello di chi legge la sua storia) e che il dialogo sia servito a curarla. Ma possiamo anche pensare che il Signore guarì quel rinnegamento con lo sguardo che fece piangere amaramente Simon Pietro (cfr Lc 22,62). In questo interrogatorio possiamo vedere un modo di procedere del Signore, cioè partire da una cosa buona – che tutti riconoscevano e di cui Simon Pietro poteva essere contento –: «Mi ami più di costoro?» (v. 15); confermarlo semplificandolo in un semplice «mi ami?» (v. 16), che toglie ogni desiderio di grandezza e rivalità dall’anima di Simone; per finire in quel «mi vuoi bene come amico?» (v. 17), che è ciò che più desiderava Simon Pietro ed evidentemente è ciò che più sta a cuore a Gesù. Se veramente è amore di amicizia, non c’entra per niente alcun tipo di rimprovero o correzione in questo amore: l’amicizia è amicizia ed è il valore più alto che corregge e migliora tutto il resto, senza bisogno di parlare del motivo.
Forse la più grande tentazione del demonio era questa: insinuare in Simon Pietro l’idea di non ritenersi degno di essere amico di Gesù perché lo aveva tradito. Ma il Signore è fedele. Sempre. E rinnova di volta in volta la sua fedeltà. «Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Tm 2,13), come dice Paolo al suo figlio nella fede Timoteo. L’amicizia possiede questa grazia: che un amico che è più fedele può, con la sua fedeltà, rendere fedele l’altro che non lo è tanto. E se si tratta di Gesù, Lui più di chiunque altro ha il potere di rendere fedeli i suoi amici. È in questa fede – la fede in un Gesù amico fedele – che Simon Pietro viene confermato e inviato a confermarci tutti quanti. In questo preciso senso si può leggere la triplice missione di pascere le pecore e gli agnelli. Considerando tutto ciò che la cura pastorale comporta, quello di rafforzare gli altri nella fede in Gesù, che ci ama come amici, è un elemento essenziale. A questo amore si riferisce Pietro nella sua Prima Lettera: è una fede in Gesù Cristo che – dice – «amate, pur senza averlo visto, e ora, senza vederlo, credete in lui», e questa fede ci fa esultare «di gioia indicibile e gloriosa», sicuri di raggiungere «la meta della (nostra) fede: la salvezza delle anime» (cfr 1 Pt 1,7-9).
Tuttavia, sorge una nuova tentazione. Questa volta contro il suo migliore amico. La tentazione di voler indagare sul rapporto di Gesù con Giovanni, il discepolo amato. Il Signore lo corregge severamente su questo punto: «A te che importa? Tu seguimi» (Gv 21,22).
* * *
Vediamo come la tentazione è sempre presente nella vita di Simon Pietro. Egli ci mostra in prima persona come progredisce la fede confessando e lasciandosi mettere alla prova. E mostrando altresì che anche il peccato stesso entra nel progresso della fede. Pietro ha commesso il peggiore peccati – rinnegare il Signore – e tuttavia lo hanno fatto Papa. È importante per un sacerdote saper inserire le proprie tentazioni e i propri peccati nell’ambito di questa preghiera di Gesù perché non venga meno la nostra fede, ma maturi e serva a rafforzare a sua volta la fede di coloro che ci sono stati affidati.
Mi piace ripetere che un sacerdote o un vescovo che non si sente peccatore, che non si confessa, si chiude in sé, non progredisce nella fede. Ma bisogna stare attenti a che la confessione e il discernimento delle proprie tentazioni includano e tengano conto di questa intenzione pastorale che il Signore vuole dare loro.
Raccontava un giovane uomo che si stava recuperando nell’Hogar de Cristo di padre Pepe a Buenos Aires, che la mente gli giocava contro e gli diceva che non doveva stare lì, e che lui lottava contro quel sentimento. E diceva che padre Pepe lo aveva aiutato molto. Che un giorno gli aveva detto che non ce la faceva più, che sentiva molto la mancanza della sua famiglia, di sua moglie e dei due figli, e che se ne voleva andare. «E il prete mi disse: “E prima, quando andavi in giro a drogarti e a vendere droga, ti mancavano i tuoi? Pensavi a loro?”. Io feci segno di no con la testa, in silenzio – disse l’uomo – e il prete, senza dirmi nient’altro, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “Vai, basta così”. Come per dirmi: renditi conto di quello che ti succede e di quello che dici. “Ringrazia il cielo che adesso senti la mancanza”.
Quell’uomo diceva che il prete era un grande. Che gli diceva le cose in faccia. E questo lo aiutava a combattere, perché era lui che doveva metterci la sua volontà.
Racconto questo per far vedere che quello che aiuta nella crescita della fede è tenere insieme il proprio peccato, il desiderio del bene degli altri, l’aiuto che riceviamo e quello che dobbiamo dare noi. Non serve dividere: non vale sentirci perfetti quando svolgiamo il ministero e, quando pecchiamo, giustificarci per il fatto che siamo come tutti gli altri. Bisogna unire le cose: se rafforziamo la fede degli altri, lo facciamo come peccatori. E quando pecchiamo, ci confessiamo per quel che siamo, sacerdoti, sottolineando che abbiamo una responsabilità verso le persone, non siamo come tutti. Queste due cose si uniscono bene se mettiamo davanti la gente, le nostre pecore, i più poveri specialmente. È quello che fa Gesù quando chiede a Simon Pietro se lo ama, ma non gli dice nulla né del dolore né della gioia che questo amore gli provoca, lo fa guardare ai suoi fratelli in questo modo: pasci le mie pecore, conferma la fede dei tuoi fratelli. Quasi a dirgli, come a quel giovane uomo dell’Hogar de Cristo: “Ringrazia se adesso senti la mancanza”.
“Ringrazia se senti di avere poca fede”, vuol dire che stai amando i tuoi fratelli. “Ringrazia se ti senti peccatore e indegno del ministero”, vuol dire che ti accorgi che se fai qualcosa è perché Gesù prega per te, e senza di Lui non puoi fare nulla (cfr Gv 15,5).
Dicevano i nostri anziani che la fede cresce facendo atti di fede. Simon Pietro è l’icona dell’uomo a cui il Signore Gesù fa fare in ogni momento atti di fede. Quando Simon Pietro capisce questo “dinamica” del Signore, questa sua pedagogia, non perde occasione per discernere, in ogni momento, quale atto di fede può fare nel suo Signore. E in questo non si sbaglia. Quando Gesù agisce come suo padrone, dandogli il nome di Pietro, Simone lo lascia fare. Il suo “così sia” è silenzioso, come quello di san Giuseppe, e si dimostrerà reale nel corso della sua vita. Quando il Signore lo esalta e lo umilia, Simon Pietro non guarda a sé stesso, ma sta attento a imparare la lezione di ciò che viene dal Padre è ciò che viene dal diavolo. Quando il Signore lo rimprovera perché si è fatto grande, si lascia correggere. Quando il Signore gli fa vedere in modo spiritoso che non deve fingere davanti agli esattori delle tasse, va a pescare il pesce con la moneta. Quando il Signore lo umilia e gli preannuncia che lo rinnegherà, è sincero nel dire ciò che sente, come lo sarà nel piangere amaramente e nel lasciarsi perdonare. Tanti momenti così diversi nella sua vita eppure un’unica lezione: quella del Signore che conferma la sua fede perché lui confermi quella del suo popolo. Chiediamo anche noi a Pietro di confermarci nella fede, perché noi possiamo confermare quella dei nostri fratelli.
Meditazione del Santo Padre in occasione dell'Incontro con i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma, - 2/03/2017
Tutte le frasi tratte da "Incontro con i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma"
- Papa Francesco -
- Papa Francesco -
- Papa Francesco -
- Papa Francesco -
- Papa Francesco -