L’ampio settore delle norme in materia di eguaglianza tra i sessi è uno di quelli nei quali, con ogni probabilità, si sono registrate nel nostro Paese, dal 1948 ad oggi, le trasformazioni più profonde. L’elenco è fin troppo lungo per poter essere in questa sede anche solo abbozzato: basti riflettere sul fatto che, se fino alla previsione contenuta nella legge n. 66 del 1963 relativa all’“ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni” – previsione che poteva essere all’epoca salutata come una rivoluzione – era ancora precluso l’accesso delle donne alla magistratura, nel 2011, esaurita la stagione della rimozione delle disparità, l’attenzione si è spostata sulla presenza delle donne nei ruoli di vertice del mondo del lavoro arrivando ad introdurre, con la legge n. 120, le c.d. “quote rosa” «nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e delle società controllate da pubbliche amministrazioni non quotate in mercati regolamentati»; o, ancora, basti riflettere sul fatto che, se le donne in Italia hanno potuto votare per la prima volta solo nel 1946 , si è giunti oggi ad assicurare, come si esaminerà oltre, anche la parità di accesso alle cariche elettive nei vari livelli di governo.
Tale profonda evoluzione normativa è stata certamente frutto della progressiva trasformazione sociale, economica e culturale che ha riguardato il nostro Paese proprio in relazione al ruolo della donna nella società e nella famiglia. Una trasformazione spesso riletta dalla Corte costituzionale non solo avendo quale “faro” del proprio intervento il dato costituzionale in materia, ma anche alla luce della giurisprudenza delle Corti europee che essa ha provveduto a veicolare nel sistema normativo interno, secondo la ben nota linea di progressiva incidenza delle interpretazioni delle codificazioni sovranazionali .
Partendo, quindi, proprio dall’innegabile dato della realtà rappresentato dalle trasformazioni che hanno contraddistinto il settore delle norme in materia di eguaglianza tra i sessi, l’analisi delle evoluzioni giurisprudenziali, in specie quelle della giurisprudenza costituzionale, oltre che delle scelte assunte dal legislatore con riferimento a tale contesto, non possono che essere riguardate come un terreno di riflessione fecondo in relazione alle innovazioni costituzionali ed ai limiti interpretativi che dovrebbero imporsi in una Costituzione rigida, in particolare ai suoi principi.
In primo luogo va, infatti, ricordato come sia stata la stessa Costituzione del 1948 a essersi fatta carico dell’esigenza di superare l’evidente disparità della condizione femminile, certamente presente all’atto della sua elaborazione. Ciò a partire proprio dal principio di eguaglianza sancito all’art. 3 Cost. Secondo quanto previsto al suo primo comma tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. In ordine testuale il primo divieto ad essere quindi menzionato è proprio quello riferito alle distinzioni in base al sesso.
Nel testo costituzionale il divieto richiamato non è, tuttavia, esclusivo ed isolato, ma successive ed ulteriori specificazioni di esso si dipartono quali rami dal tronco principale rappresentato dal «valore fondante» dell’eguaglianza espressa dall’art. 3 Cost. La Costituzione, infatti, proprio nella prima parte dedicata ai «diritti e ai doveri dei cittadini» conferisce «uno specifico risalto a determinate applicazioni di quel principio in ordine alle relazioni sociali ritenute più significative» , offrendo accoglienza a distinti rami del principio di eguaglianza corrispondenti ad altrettanti settori nei quali la discriminazione tra uomo e donna si palesava al Costituente, con ogni probabilità, in tutta la sua evidenza .
In particolare, nell’art. 29 Cost. si afferma il superamento della radicale distanza che separa i coniugi nella disciplina codicistica del 1942, statuendone l’eguaglianza morale e giuridica, sia pur con il limite rappresentato dalla garanzia dell’unità familiare. Nell’art. 37, comma 1, Cost., in materia di lavoro si prevede inoltre la parità di diritti e la parità di trattamento economico della donna lavoratrice rispetto all’uomo lavoratore, a parità di lavoro, ponendo inoltre l’obiettivo della protezione sociale della maternità (e dell’infanzia) rispetto alla prestazione lavorativa ed «imponendo la predisposizione di garanzie speciali che, senza cadere nell’ottusa cecità delle differenze di genere e di età», assicurino però la funzione delle donne all’interno della famiglia . Infine, nell’art. 51 Cost. – che appare strettamente connesso a quanto disposto dall’art. 48 Cost. con riferimento all’introduzione del suffragio universale, anche nella sua originaria formulazione, ancor prima, quindi, della modifica intervenuta nel 2001 – si sancisce l’eguaglianza, senza distinzioni di sesso, nell’accesso ad uffici pubblici ed a cariche elettive «secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
Partendo, dunque, dalla generale ma fondamentale affermazione del principio di eguaglianza presente nell’art. 3 Cost., il Costituente arriva a specificare i tre distinti ambiti – la famiglia, il lavoro e la politica – nei quali tale principio dovrà declinarsi come principio da proteggere e disciplinare da parte del legislatore secondo quelle successive previsioni costituzionali che concorrono quindi a definire, assieme all’art. 3 Cost., lo “statuto costituzionale” della donna.
Tale statuto, tuttavia, non potrebbe ritenersi completo se non si considerasse assieme all’eguaglianza formale, prevista al primo comma dell’art. 3 Cost., anche la successiva eguaglianza sostanziale. Si è a ragione evidenziato che «l’eguaglianza nei diritti non può essere effettiva se non esistono le condizioni che ne rendono possibile l’esercizio» . I Costituenti sono certamente consapevoli dei limiti della sola eguaglianza innanzi alla legge ed a tal fine riconoscono come necessaria proprio quella rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione. Alla tradizionale eguaglianza davanti alla legge si affianca così un’eguaglianza nuova, l’eguaglianza sostanziale, attraverso la quale può completarsi il quadro del riconoscimento di “eguali diritti”. Come si esaminerà oltre, proprio grazie al collegamento tra primo e secondo comma dell’art. 3 Cost. sarà infatti possibile riconoscere progressivamente la necessità di un intervento attivo di rimozione, da parte della Repubblica, anche di tutto quanto possa impedire l’effettiva eguaglianza tra l’uomo e la donna, poiché la realtà è che «le persone non sono eguali e proclamarle “eguali” non è sufficiente a modificare una realtà che senza interventi diretti a produrre un minimo di omogeneità sociale rimane immutata lasciando sullo sfondo l’eguaglianza come un miraggio irraggiungibile» .
L’art. 3 Cost. individua dunque un obiettivo, un progetto da realizzare che richiede, per un verso, un intervento legislativo di progressiva attuazione; per un altro – secondo il disegno costituzionale del 1948 che, in linea con i canoni del costituzionalismo contemporaneo, alla garanzia della rigidità affianca quella del controllo di costituzionalità – l’intervento del giudice costituzionale a difesa dei contenuti del principio di eguaglianza quali ricavabili, in questo caso, dall’art. 3 Cost. e dalle successive declinazioni di quel principio negli artt. 29, 37 e 51 Cost. È chiaro quindi il ruolo svolto dall’attività interpretativa, vero e proprio snodo cruciale con riferimento al tema in oggetto. La natura progettuale dell’eguaglianza non può, infatti, che implicare un carattere evolutivo delle sue pratiche declinazioni ad opera del legislatore. D’altro canto, è innegabile che «la Costituzione non intende essere totalizzante, non nutre eccessi giacobini, non impone modelli astratti, ma traccia concrete linee di tendenza e offre – alla politica che sappia e voglia servirsene – gli strumenti per assicurare il progresso dei singoli e dell’intera comunità nazionale» .
Se, dunque, proprio con riferimento all’attuazione dell’eguaglianza, in particolare sostanziale, la Costituzione non individua un modello di società ma un «processo di emancipazione» , appare evidente come non possa che essere riconosciuto un campo d’azione piuttosto vasto al legislatore. A quest’ultimo spetta infatti il compito, certo non facile, di operare il necessario collegamento tra le esigenze espresse dalla società, per loro natura mutevoli, e il dato certamente elastico ma stabile della Costituzione , al fine di costruire un diritto che non sia avulso dal contesto sociale nel quale opera, ma per fa sì che le linee di tendenza espresse a livello costituzionale possano effettivamente incarnarsi nella storia. Quel che si chiede al legislatore è, in altri termini, di farsi interprete delle esigenze espresse dalla società cercando di individuare quel punto di incontro, necessariamente dinamico e in continua evoluzione, tra queste ultime e gli indirizzi espressi dal testo costituzionale .
Se è indubbio che il tratto caratteristico del principio di eguaglianza sia quello di presentare «innumerevoli sfumature» , appare evidente però come discrezionalità del legislatore – nell’opera di inveramento del principio – e interpretazione del giudice costituzionale – nell’attività di raffronto della legislazione al parametro costituzionale – siano destinati ad un incessante confronto e condizionamento.
I reciproci ambiti di intervento appaiono, infatti, determinati dal progressivo superamento dell’idea, affermata in una prima fase dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ad essa non spetti sindacare l’esercizio del potere discrezionale da parte del legislatore, ma esclusivamente assicurarne la coerenza per il tramite del principio di eguaglianza .
Un indirizzo che viene dunque progressivamente superato dal giudice costituzionale, in primo luogo per il sempre più frequente riferimento al canone della ragionevolezza. Questo è, però, «concetto non univoco bensì flessibile, duttile, non immobile nel tempo ma dinamico» , tale quindi da apparire a tratti incerto. Con la conseguenza che «ciò che in un determinato momento può essere considerato ragionevolmente conforme al principio di eguaglianza, può non esserlo più anche a distanza di poco tempo» , con evidenti ricadute sull’incidenza del ruolo del giudice costituzionale.
Inoltre, non può non considerarsi il progressivo passaggio da una configurazione restrittiva dell’eguaglianza, valutata esclusivamente alla stregua del solo primo comma, ad una interpretazione estensiva e tale da condurre lo stesso giudice costituzionale a valutare l’attività del legislatore alla luce dell’effettivo perseguimento delle “pari opportunità” . Nella fase più recente, infatti, il giudice costituzionale, affacciandosi sul terreno del riferimento al secondo comma dell’art. 3 Cost., accede sicuramente ad un parametro più incerto, benché ricco di potenzialità ancora in parte da esplorare e tale da consentire, in ogni caso, un ampliamento dei confini del suo intervento.
Infine, non può non considerarsi un ulteriore fattore di condizionamento dei rapporti tra legislatore e giudici. Sulla realizzazione ottimale del processo di concretizzazione del progetto insito nel principio di eguaglianza pesa oggi, infatti, la crisi della politica nel suo ruolo di strumento ineludibile di trasmissione delle domande dalla società al circuito della rappresentanza . Ciò ha evidenti riflessi anche sulle tendenze espansive del ruolo del giudice costituzionale rispetto al ruolo del legislatore, con una inevitabile limitazione della discrezionalità di quest’ultimo. A ciò si aggiunge un più generale ruolo di supplenza da parte dei giudici comuni, ruolo spesso indotto dall’inerzia del legislatore e strettamente connesso all’ampliamento dei confini di intervento da parte della Corte costituzionale. Non può negarsi, infatti, che «all’apporto creativo di norme della giurisprudenza costituzionale si aggiunge quello della giurisprudenza dei giudici ordinari, che procedano sull’onda dei principi individuati dalla Corte nelle sue sentenze» .
Il problema che si pone di fronte all’esigenza di pratica traduzione delle indicazioni che provengono dalla Costituzione è allora evidentemente legato al tema dell’interpretazione costituzionale , intesa come metodo, e alla necessaria elasticità delle diverse possibili soluzioni interpretative dei casi costituzionali ; ancor di più appare però collegata alla capacità della politica di riempire di contenuti il disegno tracciato dalla Costituzione.
La complessità del reale e con essa dell’attuazione della Costituzione, certamente passibile di declinazioni diverse in relazione alle esigenze del momento storico nel quale questa attuazione si colloca, è evidente.
Ciò che ci si propone in queste pagine non è allora offrire risposte conclusive agli interrogativi collocati sullo sfondo della complessa trama di relazioni tra dato costituzionale, realtà sociale, scelte del legislatore e interpretazioni del giudice. Piuttosto si intende dare conto del percorso di attuazione dell’eguaglianza senza distinzioni di sesso, tentarne cioè un bilancio, giunti ormai a settant’anni dall’approvazione del testo costituzionale, cercando al pari di cogliere, di volta in volta, i segnali ora di effettiva concretizzazione di un percorso dai confini costituzionalmente segnati, ora di fughe in avanti, ora, talvolta, persino di involuzioni e arretramenti. Non si ha dunque la pretesa di fornire risposte definitive o un quadro esaustivo quanto piuttosto, si spera, uno spunto al dibattito per gli studi sul tema.
A tal fine appare in particolare necessario muovere dalla ricostruzione e dalla individuazione di tutte le possibili implicazioni del quadro costituzionale in materia, dall’art. 3 Cost. ai successivi articoli che definiscono l’eguaglianza nell’ambito familiare (art. 29 Cost.), lavorativo (art. 37 Cost.) e politico (art. 51 Cost.) nonché ricostruire le principali tappe attraverso le quali, ad opera del legislatore e della giurisprudenza costituzionale, si snoda il percorso che conduce all’attuazione successiva del dettato costituzionale, a partire dai primi interventi volti a rimuovere le più evidenti discriminazioni fino alla fase più recente contraddistinta dall’obiettivo dell’empowerment anche nelle politiche del nostro Paese, attraverso la «partecipazione ai processi decisionali» e «l’accesso al potere» da parte delle donne .
Una particolare e specifica attenzione si è ritenuto infine opportuno riservare all’evoluzione conosciuta dall’applicazione dell’art. 51 Cost. anche in ragione della prolungata situazione di disparità di condizioni di partenza che ha caratterizzato in questo settore i rapporti tra i sessi. L’applicazione del disposto dell’art. 51 Cost., in particolare per quel che attiene l’accesso alle cariche elettive, è stata infatti, come è noto, tardiva e condizionata dall’interpretazione del giudice costituzionale. Tale specifica attenzione al percorso evolutivo che ha contrassegnato l’applicazione e l’interpretazione dell’art. 51 Cost. appare inoltre giustificato da ragioni diverse che vanno ricondotte, in primo luogo, al campo di intervento della norma – ovverosia la fase dell’accesso alla vita pubblica, sia che si tratti di pubblici uffici che di cariche elettive. L’ambito al quale la norma si riferisce sembra aver comportato, infatti, almeno in una prima fase, un ben più problematico “aggancio” al secondo comma dell’art. 3 Cost. ed alla necessità di interventi positivi volti a promuovere la parità di punti di partenza proclamata dal testo costituzionale. Il complesso intreccio delle questioni della parità anche con quelle connesse alla rappresentanza politica ha contribuito infine a determinare una parziale diversità di percorso che ha posto interrogativi meritevoli, a nostro giudizio, di autonoma e specifica riflessione.