L'idea di laicità, il rapporto tra cultura e integrazione, la questione antropologica, l'educazione, la famiglia, il rapporto della persona con i processi economici e con la giustizia: scandagliando i temi più rilevanti del dibattito pubblico, Gaetano Quagliariello delinea in questo libro gli antidoti culturali affinché nella società, e fra i più giovani, non si affermi un'altra religione civile basata sulla ideologia dell'autodeterminazione, sul relativismo, sul nichilismo. E interpreta il senso dell'appello per una nuova generazione di cattolici in politica che dalla Chiesa proviene sempre più pressante.
INTRODUZIONE
Come e perché costruire in politica un «cortile dei gentili»
1. Il cambiamento più difficile per chi, dopo una vita dedicata alla ricerca, decide di spendere le proprie energie in politica, è sintonizzarsi sul tempo interno che scandisce questa attività. Diverso, se non proprio opposto, rispetto a quello dello studio e della riflessione.
In politica valgono regole differenti. L’orizzonte temporale si restringe. Quel che conta è prendere l’iniziativa al momento giusto. Quasi mai c’è modo di recuperare. Guai ad attardarsi su un particolare, magari per privilegiare l’esprit de finesse. Si rischia di perdere di vista il nocciolo della questione. In politica, insomma, tutto è più frenetico e immediato. La gran parte dei problemi si esaurisce nell’arco delle ventiquattr’ore. E la sera, prima di andare a letto, spesso e volentieri ci si sorprende, novelli Rossella O’Hara, a ripetersi tra sé e sé: «domani è un altro giorno!».
Se la politica è buona politica, però, qualcosa deve pur rimanere. Tra un’arrabbiatura e un’urgenza c’è bisogno che qualcosa si sedimenti e lentamente si faccia pensiero, indirizzo, azione. Certo: chi immagina il proprio impegno come contributo al bene comune, e non come esercizio narcisistico fine a se stesso, deve essere disponibile a sporcarsi le mani; non può tirarsi indietro di fronte alla sgradevolezza di certe situazioni o alla rude essenzialità di taluni impegni. Ogni tanto, però, è bene fermarsi; guardarsi indietro e chiedersi se ciò che si è seminato ha dato frutti; se, pur tra tante urgenze, con la propria azione si è tracciata una linea che porta verso qualche destinazione, o se la contingenza ha invece assorbito ogni altra esigenza.
Un libro può rappresentare un’occasione di sosta. Tra quelli che ho fin qui scritto, questo è il primo che si occupa di politique politicienne. Lo debbo all’amicizia degli editori David Cantagalli e Rosaria Tutino, che a più riprese mi hanno chiesto di raccogliere in un volume gli scritti e gli interventi degli ultimi anni. Alla fine mi hanno convinto. Ho ripreso appunti, schemi, articoli, alcuni solo abbozzati e altri già pubblicati; li ho selezionati, assemblati, corretti e quasi sempre integrati. Ho provato a capire se essi, al di là degli inevitabili scarti dovuti al momento e alla circostanza della loro redazione, proponevano, se non una elaborazione coerente, quanto meno una qualche linea di continuità. E così ho trasformato la stesura di questo libro nell’occasione per effettuare una verifica degli ultimi cinque anni d’impegno. Il volume che ne è scaturito non intende celare l’occasionalità dei contributi in esso raccolti ma, allo stesso tempo, vorrebbe anche testimoniare lo sforzo effettuato – e non soltanto a posteriori – per privilegiare coerenze, connessioni, richiami tra le differenti tematiche trattate: il tentativo, in altri termini, di far emergere uno sfondo comune che unifica i diversi segmenti dell’analisi.
2. Si parte dal trauma dell’11 settembre 2001. È allora che entrano in crisi molte delle certezze novecentesche ed evapora il senso di numerose categorie d’analisi alle quali ci si era abituati a ricorrere in modo quasi automatico. Lo tsunami travolge l’ambito dottrinale, quello geopolitico, quello strategico, fino a penetrare la dimensione della coscienza individuale per investire perfino le questioni relative al senso ultimo dell’esistenza. E il dibattito pubblico non può più sottrarsi dal confrontarsi con quel mutamento di paradigma epocale descritto da Samuel Huntington, per il quale dopo la sconfitta del comunismo la guerra ideologica che ha infiammato il Novecento sarebbe stata soppiantata da un inedito conflitto di civiltà, che ha la sua origine nel riemergere delle culture – e quindi anche delle tradizioni religiose – una volta infranta la crosta del mondo ideologicamente bipolare.
Ciò conduce, inevitabilmente, a prendere in considerazione il modificarsi dei rapporti tra la sfera della politica e quella delle religioni. E questo cambiamento epocale inizia allora a reclamare a gran voce la revisione di alcune certezze fino a quel tempo date per scontate, per comodità e a volte persino per pigrizia. A cominciare dal concetto di laicità.
Agli inizi, e non per poco tempo, si è preteso d’ignorare l’insorgere di questa esigenza. I più hanno ritenuto di poter risolvere il problema con una scrollata di spalle; negando la portata epocale del tema e persino accusando di essere in preda a furori mistici quanti – come Oriana Fallaci, Marcello Pera, Giuliano Ferrara –, forse perché dotati di vista più acuta, si sono fatti iniziatori di una pubblica riconsiderazione delle loro antiche opzioni.
Il trascorrere del tempo ha indotto a valutazioni più meditate. Emblematicamente ci si può riferire al titolo di un pamphlet apparso nel corso del 2009 a firma di Giancarlo Bosetti, un intellettuale della sinistra riformista non distante dagli ambienti di «La Repubblica»: Il fallimento dei laici furiosi (Rizzoli, Milano 2009). Se la prende con la Chiesa di Ratzinger ma ancor più con i «laicisti» i quali, con le loro chiusure ideologiche, sarebbero colpevoli di lasciare senza interlocutori la ritrovata vitalità spirituale delle persone di fede. Solo qualche anno fa un siffatto prodotto editoriale non sarebbe stato neppure immaginabile: evidentemente, a nessuno più è dato trattare con sufficienza e fare liquidatorio il ritorno della religione e del sacro nella società contemporanea.
Questo tuttavia non significa che le distanze si siano ridotte e che sul tema della laicità si sia giunti a individuare un minimo comun denominatore. Per dimostrarlo, la pubblicistica ci viene ancora una volta in soccorso. Nella vasta produzione sul tema è infatti possibile selezionare due testi a loro modo paradigmatici perché, per la loro impostazione, rappresentano bene modi differenti di concepire il problema, sin dalla definizione stessa di cosa sia la laicità riferita a uno Stato.
Per Stefano Rodotà (Perché laico, Laterza, Roma-Bari 2009) il termine laicità ha un connotato positivo; al punto tale che può essere considerato un’autodefinizione che non ha bisogno di alcuna ulteriore specificazione: «Abbiamo bisogno di chiarezza, – scrive Rodotà – di chiamare le cose con il loro nome. [...] È tempo di laicità senza aggettivo, o se vogliamo comunque definirla, semplicemente democratica». L’impostazione del problema da parte del Patriarca di Venezia Angelo Scola (Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007) si colloca agli antipodi. Lui considera la laicità un pre-requisito che incarna una garanzia negativa: quella di evitare identificazioni totali e totalizzanti. Da sola, però, non è in grado di qualificare uno Stato e tanto meno una democrazia. Scrive Scola: «Uno Stato democratico non può essere indifferente ai grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica [...]. Dunque lo Stato democratico è laico per la sua non-identificazione con qualsivoglia “visione del mondo”, ma non è affatto “neutrale” nei confronti dei suoi valori fondanti».
Non sarebbe difficile dimostrare come da queste differenti premesse discendano differenti concezioni del rapporto tra la persona e le istituzioni, nonché del modo stesso di intendere la libertà e l’autodeterminazione dell’individuo. Quel che però è più importante chiarire in quest’introduzione è che nessuno può ritenere che questa frattura sia confinata in un ambito puramente culturale, senza investire le strutture stesse del conflitto politico, non meno della definizione identitaria delle forze che sono chiamate ad animarlo.
3. Tutto inizia con la morte delle ideologie novecentesche. Poco dopo la metà del secolo scorso, il Premio Nobel André Malraux – uno di quelli che di droga ideologica aveva fatto largo consumo e se ne era poi disintossicato aderendo al gollismo inteso come mito della nazione incarnato in una biografia eccezionale – aveva previsto che il XXI sarebbe stato «il secolo delle religioni». Allora il suo vaticinio apparve oscuro. Vi fu chi pensò al fatto che i sentimenti religiosi alla Peguy, assai più delle ideologie tradizionali, avessero la forza di affascinare e di contagiare. Ma oggi, in retrospettiva, comprendiamo che la previsione era più profonda e gravida di conseguenze.
Cadute le ideologie, infatti, le grandi religioni hanno acquistato uno spazio nell’arena pubblica che da solo basta a smentire la convinzione positivista di una loro inevitabile e progressiva estinzione. Il rapporto tra di esse, inoltre, è divenuto più difficile, complicato dalla demografia, dalla vastità dei flussi migratori, dalla scomparsa dei modelli novecenteschi di riferimento nel campo della cosiddetta integrazione. E queste difficoltà, con modi e intensità differenti a seconda dei contesti, hanno infine penetrato la politica interna di tutti gli Stati occidentali, proponendo problemi e sfide inedite, spesso inimmaginabili fino a qualche decennio fa.
Si può affermare, in grande sintesi, che il fallimento delle ideologie – e prima di tutte del comunismo – abbia suscitato due reazioni che a ben vedere uniscono le loro forze spingendo verso un esito unitario. La fine del grande dogma, da un canto, ha portato con sé la pretesa di relativizzare ogni altra verità per approdare a una visione nichilista che investe la concezione dell’esistenza personale non meno dei suoi addentellati con la dimensione pubblica. D’altra parte, però, ha anche suscitato il bisogno di una ideologia di sostituzione, priva di testi di riferimento e di immagini sacre, ma non per questo meno costruttivista e in grado d’incarnare quel desiderio insoddisfatto di perfezione e di pieno controllo del destino umano (non più in ambito sociale, non più solo socio-economico ma finalmente antropologico) che le ideologie avevano per tanto tempo promesso di esaudire pienamente.
Il combinato disposto di queste dinamiche ha portato a fondare intorno al concetto di autodeterminazione una sorta di nuova religione civile, per la quale l’individuo dovrebbe avere il controllo assoluto della sua esistenza chiedendo alla dimensione pubblica di legittimare ogni suo desiderio trasformandolo in diritto. Lungo questa deriva, per cui tutto è relativo, opinabile e lasciato dunque alla libera determinazione del singolo, perde di valore ciò che è accumulazione di senso: la tradizione, i corpi intermedi, la comunità, lo stesso popolo. Tra le altre conseguenze, da qui discende la crisi profonda dei grandi partiti eredi delle antiche ideologie «popolari» sconfitte. E il sempre crescente spazio che vengono a occupare nuove formazioni che coniugano con sensibilità differenti il paradigma unitario della società radicale di massa.
4. Questa evoluzione non poteva che suscitare una reazione e porre dei problemi anche a quanti si oppongono a tale deriva «progressista». Essi potrebbero essere tentati di sposare una di queste due opzioni: richiamarsi ai precetti della religione «ufficiale», proponendone una trasposizione possibile in politica; oppure trasfondere il senso più profondo della tradizione giudaico-cristiana in una religione civile concorrente rispetto a quella che rischia di conquistare il senso comune, in grado di utilizzare il sacro a fini per così dire profani.
Assunte nella loro purezza idealtipica, però, entrambe le soluzioni presentano significative controindicazioni. La prima rischia, di fronte al nuovo, di rifugiarsi in un déjà vu: tornare all’esperienza dei partiti unici che, come la DC in Italia, pretendevano di detenere il monopolio del sentimento religioso. Una ricetta che oggi non regge più di fronte alla laicizzazione dei comportamenti e che, tra l’altro, rischia di legittimare partiti ispirati da religioni «altre», che già fanno capolino nelle pieghe delle elezioni locali di questo o quel Paese.
La seconda soluzione, invece, si espone all’antico pericolo di proporre una strumentalizzazione dell’esperienza religiosa in chiave tutta politica: alla Maurras per intenderci. Di incorrere, insomma, nel «peccato» uguale e contrario commesso da tanti teologi della liberazione presunta dagli anni Sessanta in poi: banalizzare la fede riducendola a una teoria sociologica priva di significato trascendente, che consuma i propri effetti unicamente su questa terra. In questa prospettiva, per conseguenza non intenzionale, la politica si trova ad essere sacralizzata ben oltre il lecito e ad essa finisce per essere indebitamente attribuita la funzione di «liberatrice» dal male.
Mi sbaglierò, ma ritengo che questo rischio sia stato perfettamente percepito dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger. Egli, non a caso, nel vivo di un dibattito sui grandi mutamenti nel rapporto tra religione e politica, a Subiaco, alla vigilia della sua elezione al soglio pontificio, rinverdendo la formula che fu di Pascal, lanciò un appello agli atei e agli agnostici a vivere come se Dio esistesse (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005). In tal modo segnalò l’impossibilità per il Cristianesimo di tirarsi fuori dalla ridefinizione dello spazio pubblico e delle contese che lo solcano ma, d’altro canto, rilanciò le ragioni autonome della fede e la loro indisponibilità a una riduzione a prodotto meramente mondano.
Tutto ciò deve essere materia di riflessione per quanti stanno prendendo parte alla costruzione di un grande partito post-novecentesco, vorrebbero che le fondamenta della nuova organizzazione fossero forti e stabili, e avvertono come uno degli obblighi che giustifica il proprio impegno sia quello di garantire la durata a un’avventura politica che la discesa in campo e il carisma di Silvio Berlusconi hanno reso possibile facendo in modo che il testimone che verrà da noi consegnato alle future generazioni abbia salde radici.
Un grande partito a vocazione maggioritaria non può pretendere di fondarsi su una ideologia unificante e neppure di possedere una cultura monolitica. Nelle sue versioni più riuscite, infatti, esso rappresenta il prodotto finale del passaggio dalle coalizioni di tanti partiti caratteristici delle democrazie novecentesche alla edificazione di un solo grande partito di coalizione nel quale confluiscano fonti d’ispirazione e culture differenti, più idoneo a reggere i tempi e le dinamiche delle democrazie post-ideologiche.
Ciò non elimina il problema di individuare alcuni principi indisponibili, che valgano per tutti i consociati; ad evitare, insomma, che tutto si riduca alla contingenza di una fase, di una leadership o all’individuazione dell’ondivago parametro di ciò che possa procurare consenso e voti. Qui, a mio avviso, si colloca il vero sforzo necessario per quanti, cattolici o laici, credenti o non credenti, abbiano riflettuto sulle novità introdotte nello spazio pubblico dal terzo Millennio.
A più riprese gli uomini della Chiesa hanno invocato per l’Italia la nascita di una nuova generazione di politici cattolici onesti e seri. E il loro appello non è rimasto senza echi. Ad esempio nel mio partito – il PdL – Sandro Bondi e Mariastella Gelmini hanno proposto su di esso una riflessione originale.
5. Per spiegare il senso di questo libro e dei contributi che esso raccoglie, non posso esimermi, infine, dal dire in modo succinto e franco come la penso in proposito. Non credo che l’appello implichi la nostalgia del partito unico dei cattolici. Tanto meno credo che possa legittimare l’ambizione ad essere l’unico partito di riferimento per i cattolici: il pluralismo politico di quel mondo, infatti, è un dato acquisito, per quanto la sinistra stia facendo di tutto per mettere in difficoltà i cattolici che ad essa fanno riferimento.
Troverei, poi, ancor più inadeguata una risposta che tenda alla formazione di una componente cattolica interna, da contrapporre a una corrente laica. Quest’ultima ricetta è stata incarnata in nuce da Forza Italia. Allora rappresentò un fatto rivoluzionario nella politica italiana, perché contribuì a relativizzare una frattura che è connessa alla stessa origine dello Stato unitario. Oggi quella stessa soluzione non mi sembra più rispondente ai rivolgimenti culturali del nuovo secolo né in grado di cogliere i cleavages che si annunziano.
Ritengo che l’appello per una nuova generazione di politici cristiani (meglio che cattolici, in quanto il dato culturale è politicamente più rilevante di quello dell’appartenenza ecclesiale) debba invece spingerci a ricercare quei principi che possano unificare il partito a prescindere dai differenti orientamenti su questa o quella proposta, chiarendo quali sono le basi comuni e quale, invece, lo spazio da riservare alle legittime differenze d’opinione. Ancor più, ritengo che l’appello debba spingerci a identificare ciò che di stabile ci divide dall’altra parte; a selezionare una nostra religione civile che si nutra della tradizione giudaico-cristiana ma che, al tempo stesso, sia rispettosa dell’autonomia della fede così come di quanti non ne hanno il dono. Solo così è possibile auspicare l’unione di credenti e non credenti affinché del senso comune non s’impossessi un progressismo di maniera, e il compito della politica non si riduca ad adeguarsi a una secolarizzazione progressiva che di fatto non c’è.
Mi vengono in mente le parole che il Papa pronunziò di fronte alla Curia Romana il 21 dicembre scorso, quando manifestò la preoccupazione che l’uomo non accantoni la questione su Dio in quanto questione essenziale della sua esistenza, con tutta la struggente nostalgia che, a volte, in essa si nasconde. Egli rammentò allora la parola del profeta Isaia, la sua proposta di un cosiddetto «cortile dei gentili», al di fuori del tempio, come spazio libero da affari esterni dedicato a quanti avessero voluto riferirsi all’unico Dio, anche se non in grado di prendere parte al mistero. Persone che, pur non conoscendo Dio se non da lontano, non di meno nutrivano lo struggente desiderio del grande e del puro oltre le contraddizioni che, inevitabilmente, sono proprie di chi vive su questa terra e non pensa di possedere pietre da scagliare.
Benedetto XVI ritiene che la Chiesa oggi debba aprire una sorta di «cortile dei gentili». Facendo le debite trasposizioni, credo che esso servirebbe anche alla politica: uno spazio nel quale, partendo da aspirazioni e principi condivisi, si possa liberamente discutere e liberamente confrontarsi, tenuti insieme da una ragione comune e dalla ricerca della medesima linea d’orizzonte. Se questo libro potrà contribuire in qualche modo a delimitare tale spazio, l’impegno di anni avrà avuto un senso.