Questo libro vuole essere un "trattato di guarigione" per un Islam malato. Il tempo della guarigione è venuto, e questo libro propone un percorso a quattro tappe delle quali ciascuna propone una stazione che invita a un lungo sforzo di ricerca e di lavoro su se stessi: dalla separazione tra politica e religione, al ripensamento radicale del jihad fino a ricondurlo alla sua vocazione difensiva, al riconoscimento dell'alterità femminile e l'ammissione dell'uguaglianza in nome dell'essere e del diritto, alla revisione della dottrina del "Corano increato" e della sua applicazione letterale
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Spezzare il tabù coranico
Questo libro vuole essere “trattato di guarigione” per un Islam malato. Rende attuale la metafora di Avicenna, scelta come titolo del suo Qitâb Ash-Shifâ, “Libro della guarigione”, che il filosofo consacra al suo sistema dove fisica e metafisica sono negate ma del quale il titolo suona “medico”. Conviene tuttavia precisare che la parola Shifâ, impiegata da quel saggio, deriva dal verbo shfâ, che vuole dire tanto guarire qualcuno da una malattia quanto liberarlo da una sete inestinguibile. Si tratta in effetti di organizzare un sapere per una diffusione destinata sia a disalterare e sia a guarire. E se c’è medicina, diagnostica che identifica la malattia, prescrizione che mira a ristabilire la salute, sete da calmare, la cosa riguarda non tanto il corpo quanto lo spirito e l’anima. Tuttavia, la salute (najât ) dell’anima e dello spirito cresce con la salute del corpo. L’obiettivo del filosofo e quello del medico si ricongiungono. E quando ci pieghiamo al capezzale dell’Islam malato, non perdiamo di vista che farmacia e parola vanno insieme e convergono verso lo stesso disegno curativo. Questo consiste nel ricordare al moribondo che ha diritto di uscire dalla maledizione, di curare la sua malattia, di neutralizzare la malignità del male che l’ha colpito, di allontanarsi dal processo di desertificazione che lo sprofonda nella barbarie. Deve attivare la propria volontà, se vuole ritrovare salute e benessere, deve estinguere la sete e riconoscerne la soddisfazione per ritornare ad essere agente di civiltà.
Il tempo della guarigione è venuto. Dopo aver aperto, con la Maladie de l’Islam, il ciclo che denuncia il male che corrompe la religione in cui sono nato, propongo questo libro come quarta tavola di un polittico che conta anche Face à l’Islam e Contre-prêches. A modo suo, conferma che il rimedio sta nel male, per riprendere la pratica omeopatica lanciata da Rousseau nelle sue Confessioni e che è qui richiamata. Perché è proprio reimpiegando la materia islamica che potremo lastricare e segnalare la via della guarigione.
Il mio richiamo ai musulmani a uscire dalla maledizione fa riferimento al «terreno di maledizione» evocato da Empedocle in un frammento delle sue Purificazioni. Questo terreno è il luogo «senza gioia» dove prosperano demoni che attizzano l’odio e dove cresce la violenza che moltiplica le mutilazioni, le ferite, le purulenze che vincono gli umani tanto nel fisico quanto nel morale (si veda il capitolo 17). Orbene, la malattia dell’islamismo non cessa di contaminare la gioventù musulmana e di orientare la sua energia verso quel terreno di maledizione, dove malfattori li invitano ad accamparsi per intrattenere i fautori del demonio e la sequenza di odio distruttore che nutre la parte negativa dell’Islam.
Per farla finita con la malattia e lasciare dietro di noi il terreno di maledizione, per interrompere la sequenza dell’odio e allontanarsi dalla barbarie, io propongo un percorso in quattro tappe delle quali ciascuna propone una stazione che invita a un lungo sforzo di ricerca e di lavoro su se stessi. Ma non immagino di chiudermi in una successione cronologica. Il cantiere è aperto simultaneamente in quattro luoghi. Colui che lo visita alterna il percorso e il soggiorno in una serie di va e vieni e di andate e ritorni.
Prima di tutto bisogna risiedere nella dimora dove si inculca il dovere di separazione. Simbolicamente comincia molto presto per gli umani, con il taglio del cordone ombelicale dopo l’uscita dal corpo della madre, un atto di violenza che provoca il primo strillo, prima del balbettamento che annuncia l’entrata nel linguaggio, all’origine di una seconda separazione, quando s’arresta la fusione con il materno. Non c’è soggetto se non separato, tagliato, portatore di ferite. Questa puntualizzazione elementare pone la nozione di separazione come fondamento della condizione umana. Di qui la sua importanza nell’evoluzione politica, dove il movimento è progressivamente determinato dalla separazione tra il temporale e lo spirituale, tra il cielo e la terra, tra la religione e la secolarità. Orbene, l’Islam ha la reputazione di essere fondato sulla consustanzialità di religione e politica; sarebbe la sua specificità costitutiva e caratteristica. Certamente, i germi della malattia che lo rendono precluso provengono da questa credenza che è stata eretta a dogma. Eppure, guardando con più precisione la storia, si constata quanto la separazione di fatto costituisca una dura smentita alla consustanzialità reclamata dalla norma. L’autonomia della politica è stata vissuta come necessità tecnica per assicurare il buon governo incoraggiando la crescita della civiltà e la prosperità delle città. Non ci resta dunque che portare alle più corrette conseguenze questa constatazione per negare la specificità dell’Islam e liberarlo dalla visione essenzialista dove è spesso rinchiuso dall’esperto islamologo come dal militante islamista.
D’altra parte, la questione della «doppia verità», che separa il dominio filosofico dalla sfera religiosa, è nata nell’ambiente averroista parigino della seconda metà del XIII secolo. Non è inutile insistere sull’ascendenza islamica di questo punto a partire dal quale si incatena il lungo processo che condurrà l’Europa alla laicità, dopo il passaggio determinante attraverso il pensiero di Spinoz4. Certamente Averroè non ha mai pensato alla doppia verità. La formulazione di questa nozione ha avuto luogo come conseguenza di un malinteso. Ma non c’è alcun dubbio che questa interpretazione fortunata abbia le sue premesse nel testo del filosofo di Cordova, il quale, nel suo Discorso decisivo, evoca la verità della rivelazione e quella della filosofia non per separarle ma per dichiararle «compagne e sorelle di latte»: siccome la verità non può accordarsi se non con la verità, allora, di verità non ce n’è che una. Ma è innegabile che due sorelle, fossero anche gemelle, nondimeno costituiscono due corpi distinti. Se no, ci si sarebbe trovati di fronte a due sorelle siamesi che si sarebbe dovuto rischiare di separare tramite qualche pericoloso intervento di scalpello.
Ci fermeremo poi alla stazione dove dovremo elaborare le condizioni che abrogano il jihâd, per rifiutare tutte le sue prerogative e dichiararlo nullo e inaccettabile fino all’argomentazione che lo riconduce alla sua vocazione difensiva. La perversione della nozione ha talmente contribuito a legittimare il crimine e il suicidio che ormai la si può considerare rovinata da se stessa. Essa nasconde un potenziale di violenza e una forza di perversione tali che non si possono neutralizzare se non annullando la nozione stessa. Tecnicamente, una lettura coranica che consideri l’effetto del contesto storico può rendere operativa questa neutralizzazione. Visto lo stato delle cose, quanto a me, non vedo soluzione più radicale per aiutare la religione a distaccarsi dalla violenza presente sul sito islamico.
Viene poi il momento di fermarsi in un luogo che ci farà gustare il sapore dell’alterità femminile. Il riconoscimento del loro genere e del loro sesso acquisisce forza di verità quando si ammetta la loro eguaglianza in nome dell’essere e del diritto. La considerazione di ciò che le distingue si dissolve nell’universalità e nell’unicità della persona giuridica. Certamente l’ineluttabile processo di modernizzazione che fa arrivare per loro la condizione di eguaglianza aggredisce le rappresentazioni tradizionali che le riducevano alla reclusione e alla limitazione in ruoli subalterni e ancillari. Ma la violenza della modernità che la tradizione subisce pare non sia in grado di legittimare la reazione nostalgica che trasforma il segno dell’asservimento delle donne e della loro costrizione in un ruolo di inferiorità, intendo dire il velo, come bandiera di una società con differenze fantasmagoriche che fanno sì che le identità si scontrino e si sbudellino.
L’ospedale era chiamato in arabo dâr ash-shifâ: è in questa «casa della guarigione» che i convalescenti dell’Islam potranno finalmente stare per essere iniziati alla verità dello straniero. Senza la sua assimilazione, nessuna salute. Il musulmano deve ammettere una volta per tutte di non essere portatore di una verità intera, completa, incontaminata, esclusiva, in grado di risparmiargli di percorrere altre parti del mondo dove si raccoglie il vero. Come qualsiasi altra verità, quella dei musulmani non è il tutto, non è definitiva, ed è lontana dall’essere insuperabile. Non la si può vivere che in queste carenze. Come qualsiasi essere umano non riuscirete mai a incorporare l’assoluto e la pienezza. La carenza, con la separazione, vi segnerà per sempre come essere che deve assumere la sua ferita narcisistica, iscritta nel corpo dopo la nascita e la separazione dalla madre. E ciò vale per qualsiasi essere umano, qualunque sia la verità che lo illumina. Nessuno ha l’esclusività dell’origine né dell’ultima parola. Il cammino verso la verità esige una marcia infinita rinnovata in continuazione. I musulmani possono parteciparvi, mettendo in gioco la loro propria verità, in emulazione con quella degli altri.
Però mai, musulmani, potrete avviarvi su questo lungo itinerario verso la guarigione senza sottomettervi a una condizione pregiudiziale: distruggere i vostri idoli e spezzare il tabù coranico. Non dovete erigere il vostro libro santo in vettore intoccabile della parola divina incontestata, eterna, mai creata, portatrice della verità piena. Non dovete soccombere alle dolci parole che vi instillano i dottori Bucaille e consorte, cattivi alleati che considerano il vostro libro come la Parola incarnata, che si distingue sia dalla Torah che dai Vangeli in ragione del suo preteso accordo con la scienza e con la tecnica moderna. Essere sedotto e adulato da un concordismo così ingenuo quanto agiografico è solamente il segno di un orgoglio intempestivo che si contenta di molto poco.
Anche il Corano utilizza la parola di Avicenna shifâ, «guarigione»; la usa in particolare nella sura delle api, applicandola al miele, «shifâ, guarigione per gli umani» (Corano, XVI, 69); un’altra volta nella sura intitolata sia Il viaggio notturno sia Béni Isrâ’ìl, dove si dice che «dal Corano non discese che shifâ – guarigione e rahma – misericordia» (Corano, XVII, 82). Nel suo Discorso decisivo, Averroè ha fatto ricorso alla prima di queste occorrenze coraniche per costruire un’analogia: non sarà l’accidente del cattivo uso che squalificherà la filosofia greca e il suo strumento, i quali sono eccellenti per essenza; proprio come il consumo del miele che aggrava la diarrea di colui che ne è colpito, non mette per nulla in dubbio il fatto che il miele resti una shifâ, una cura di guarigione per gli umani. Vorrei trasferire l’energia di questa analogia alla seconda occorrenza coranica della parola shifâ – guarigione menzionata prima. Che il Corano sia «guarigione e misericordia» non impedisce che lo si possa utilizzare per aggravare la malattia e la crudeltà, quando persone malefiche si appoggiano su alcune delle sue parti per uccidere senza distinguere, massacrare innocenti, legittimare il crimine, esaltare la morte data agli altri con il sacrificio di se stessi.
Noi vorremmo assimilare quest’uso del Libro a un accidente. Ma perché nella sua essenza sia causa di guarigione e di misericordia, dobbiamo rileggerlo in una prospettiva che neutralizzi la violenza che racchiude, quella stessa che è privilegiata dai nemici islamisti. Una tale neutralizzazione non potrà operare al di fuori di una lettura che prenda in considerazione le circostanze storiche del suo avvenimento per distinguere del Libro la parte obsoleta, caduca, e la sua parte perenne, permanente. Certamente, gli arcaismi che nel Corano si possono ricondurre a ciò che sembra alienante, crudele, ingiusto per l’umanità non sono peggio delle disposizioni presentate nei libri della Bibbia, come il Deuteronomio o il Levitico. Sono ritagliate nella stessa materia – quella che produce tutte le considerazioni intorno all’impurità delle donne, alla poligamia, al ripudio, alla schiavitù, alla legge del taglione, alla violenza mortifera contro coloro che sono stranieri rispetto alla comunità istituita sulla base della credenza.