Rimettere Dio al centro della nostra vita è assolutamente necessario e indispensabile, poiché solo una laicità "sana e positiva", che tenga sempre presente la figura di Dio nelle nostre azioni, può portare alla realizzazione del bene comune.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Una parola introduttiva
di Camillo Card. Ruini
In questo volumetto ho raccolto alcuni dei miei interventi del 2009 che hanno suscitato un certo interesse. I temi sembrano assai differenziati, per non dire disparati, ma li collega un preciso filo conduttore: la convinzione che, solo se Dio sta al centro del nostro pensare e operare, sia la vita personale sia la società e i suoi dinamismi possono trovare il loro giusto orientamento e pieno significato.
Questa convinzione è formulata esplicitamente ed argomentata nei primi due testi, che ruotano intorno alla priorità di Dio, mentre negli altri due, dedicati uno alla laicità e l’altro all’educazione, la medesima prospettiva rimane apparentemente sullo sfondo: risalendo però alle radici delle rispettive problematiche la questione di Dio emerge nel suo peso decisivo.
Ciascuno degli argomenti trattati ha, sia pure in modi diversi, una sua attualità, oltre che una sicura rilevanza. Confido perciò che queste brevi pagine possano essere di qualche utilità per chi vorrà leggerle.
Le priorità del Pontificato
di Benedetto XVI
Nell’omelia di inizio del Pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo: era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo. Il nuovo Pontificato si poneva inoltre in continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.
In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del Pontificato. La prima e la maggiore è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al “fare”, soprattutto mediante la “tecno-scienza”, e al godere-consumare. Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una “metafisica” evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o, più frequentemente, è dichiarato non conoscibile in base al principio che latet omne verum, ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente. Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la “morte”, con l’affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze. Il primo impegno del Pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l’agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi. Al contrario, l’iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo. Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai Profeti dell’Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell’incarnazione, croce e risurrezione di Cristo. Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest’ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.
Giungiamo così alla seconda priorità del Pontificato: la preghiera. Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella “nel” e “del” popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa. Nella prefazione al primo volume delle sue Opera omnia, uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: «La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico»: possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo Pontificato. Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il Motu proprio che consente l’uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani. Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene. Egli è stato uno dei grandi sostenitori del Movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto. Fin dall’attuazione della riforma liturgica nei primi anni del “dopo-Concilio”, egli aveva contestato però la proibizione dell’uso del Messale di san Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l’uso delle liturgie fino allora in uso. Da Pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l’uso del rito romano nella sua forma preconciliare. Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell’unità della Chiesa. Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II. In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della Messa celebrata secondo il Messale di Paolo VI.
In positivo Benedetto XVI ha precisato l’interpretazione del Vaticano II nel discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una «ermeneutica della rottura», che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante «lo spirito del Concilio» ben più della lettera dei suoi testi; l’altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio stesso avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani. Benedetto XVI propone invece l’«ermeneutica della riforma», ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e da Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce, cioè, una grande novità ma nella continuità dell’unica tradizione cattolica. Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso. Abbiamo messo a fuoco così un’ulteriore priorità del Pontificato: promuovere l’attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.