Articoli
Romano Penna, Martin Lutero e la Lettera di Paolo ai Romani
Lothar Vogel, Realistische und illusorische Theologie bei Martin Luther (bis 1518)
Pierluluigi Sguazzardo, La figura di Maria la Madre di Dio nei Concilî. Tra il primo e il secondo millennio
Francesco Testaferri, Le Saulchoir: una teologia che fa “scuola”
Rocccco Buttiglione, Amoris Laetitia. Risposte ai critici
Focus su Amoris Laetitia
Nunzio Galantino, Amoris Laetitia e forme del sapere
Laura Viscardi – Claudio Gentili, Amoris Laetitia: una nuova era per la teologia del matrimonio
Susy Zanardo, La forza della vulnerabilità. Riflessioni a margine di Amoris Laetitia
Adriano Fabris, Amoris Laetitia: un approccio antropologico
Editoriale
In questo primo fascicolo 2017 della nostra rivista ci proponiamo innanzitutto di continuare la riflessione che accompagna il processo di avvicinamento alla memoria dei 500 anni della riforma luterana, in attesa del Congresso internazionale, che la nostra Facoltà di Teologia celebrerà in ottobre. A tal proposito proponiamo un prosieguo del discorso sul rapporto fra Lutero e le Scritture, questa volta focalizzato sulla sua interpretazione della Lettera ai Romani e un approccio storico alla questione del realismo della teologia del riformatore. Il primo approfondimento è affidato alla competenza esegetica di Romano Penna, il secondo all’acribia storica e storiografica di Lothar Vogel.
Intendiamo inoltre mettere a fuoco la problematica teologica sollevata dalla recente esortazione apostolica postsinodale Amoris Laetitia, che, a nostro avviso, non interpella soltanto la teologia pastorale e la morale, ma trasversalmente chiede di essere pensata e recepita nella teologia speculativa, nella filosofia e nelle scienze umane, come ha mostrato il recente simposio, organizzato dall’ufficio per la pastorale familiare della Conferenza Episcopale Italiana, di cui riportiamo la relazione base del segretario generale mons. Nunzio Galantino, le risultanze dei tavoli di lavoro e una riflessione per ciascuno di essi. Completa il quadro un articolato saggio del prof. Rocco Buttiglione, che affronta le questioni più discusse e più problematiche che il documento ha sollevato, proponendo soluzioni per nulla scontate, né semplicemente ripetitive del passato.
Tra le questioni epistemologiche che il documento pone, decisiva ci sembra quella relativa all’assenso che tale pronunciamento magisteriale richiede al teologo e al credente. Spesso (ovviamente non sempre) la domanda è posta da chi si sente o ritiene – non sappiamo quanto sinceramente – disorientato, non solo da quest’ultimo pronunciamento, ma da tutto lo stile e il magistero dell’attuale vescovo di Roma. Si tratta dello stesso “disorientamento” che si è avvertito rispetto all’ultimo Concilio, dunque va letto ed interpretato perché non incancrenisca. E d’altra parte va sottolineato che il disorientamento è piuttosto una cifra della nostra situazione storica ed esistenziale, che la Chiesa è chiamata di volta in volta ad orientare, indicando semplicemente Il Cristo Signore e il suo vangelo. Nel caso specifico non abbiamo avvertito affatto disorientamento nel popolo santo di Dio, se non in alcune frange fondamentaliste, mentre nella gente credente abbiamo avuto modo di registrare piuttosto gratitudine ed attenzione al messaggio sinodale prima e pontificio poi.
Una prima indicazione di prospettiva va espressa nel senso che, lungi dal riproporre una contrapposizione fra il livello dottrinale e quello pastorale dei documenti magisteriali, va perseguita e sempre di nuovo proposta un’interpretazione inclusiva della dottrina nell’agire ecclesiale. Pertanto l’aggettivo “pastorale” non indica qualcosa di meno di “dottrinale”, bensì include sempre la dottrina, anche allorché si rivolge alla prassi. Del resto non esistono formulazioni meramente dottrinali della fede, perché ogni verità di fede è sempre e comunque una verità storico-salvifica. E questa prospettiva interpretativa va applicata al Vaticano II, che spesso si è voluto relativizzare ritenendolo meramente pastorale, come agli altri interventi del magistero.
Le indicazioni pastorali di questa esortazione includono una dottrina, quale quella che nasce dalla rivelazione e si sviluppa nell’insegnamento della chiesa, esposta con un linguaggio vivo e gioioso (la perfetta letizia di Francesco), che non ignora i drammi e le ferite, ma su di essi si china non con atteggiamento di condanna, ma di pietas evangelica.
In secondo luogo va sottolineato che la prassi di esprimere i contenuti dei sinodi attraverso un documento del vescovo di Roma, in qualità di pastore della chiesa universale, nella forma dell’esortazione apostolica non è da intendersi come un voler scavalcare la sinodalità stessa, bensì come un sigillo, che custodisce e conferisce autorevolezza massima ai lavori del sinodo stesso. La prima di queste esortazioni risale al 1974 ed è stata l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI. Queste esortazioni hanno dunque valore di magistero ordinario e chiedono l’assenso dei fedeli in quanto promulgate dal vescovo di Roma e non vanno relativizzate e poste in subordine rispetto ad altri interventi. Né il termine “esortazione” deve far pensare a qualcosa di semplicemente parenetico, come ad esempio le omelie di santa Marta, ma a una raccomandazione di orientamento per la vita stessa della chiesa tutta. Certamente non possiamo scorgere in questi pronunciamenti i tratti dell’infallibilità (ben difficile da realizzarsi ed esprimersi in senso stretto), ma manchiamo di onestà intellettuale se non li riteniamo veri e propri documenti del magistero ordinario. Del resto era dello stesso genere la Familiaris consortio (1983), cui qualcuno incautamente si appella per gettare fango sull’attuale testo che affronta lo stesso tema. Inoltre l’aggettivo “apostolica” che si affianca al sostantivo “esortazione” dice che qui è in gioco l’apostolicità della Chiesa, coralmente espressa nella sinodalità e nel servizio del vescovo di Roma.
I criteri per interpretare il documento sono esposti nelle stesse premesse, allorché ad esempio si invita all’equilibrio capace di superare sia «un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento» sia «l’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (n. 2). Ed inoltre mi sembra particolarmente significativo quel passaggio introduttivo, nel quale si afferma che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”» (n. 3).
Il punto che maggiormente ha suscitato interesse e vivacizzato il dibattito, ossia la questione dei sacramenti, così come viene richiamata in una nota, chiede attenzione e corretta interpretazione teologica: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (n. 305), testo accompagnato dalla famosa nota 351: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)».
Nell’esperienza del peccato e in quella della grazia infatti non si dà mai una astratta ed estranea oggettività (dogmatismo moralistico), né una mera soggettività (relativismo), bensì si tratta sempre del rapporto fra la realtà oggettiva e la coscienza del soggetto. Ed è proprio per questo che nella sapienza e nella tradizione della Chiesa la riconciliazione passa attraverso la confessione personale dei peccati, in modo che il ministro possa illuminare il fedele ed aiutarlo nel discernimento in cui è in gioco questo rapporto. Come anche appartiene alla sapienza e alla tradizione ecclesiale considerare l’eucaristia non solo panis angelorum ma, proprio perché nutrimento del corpo spesso ferito e martoriato, panis viatorum, altrimenti dovremmo aspettare di essere nella perfezione per poterci nutrire alla mensa eucaristica. Si tratta infatti del panis angelorum factus cibus viatorum. Così la Chiesa prega e così crede: lex orandi = lex credendi.