Il libro guida ad apprendere e a gustare le storie bibliche nel loro tessuto narrativo e letterario, come autentiche opere artistiche, per penetrare più a fondo nel loro messaggio religioso.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
UN APPROCCIO LETTERARIO ALLA BIBBIA
Quale ruolo gioca l'arte letteraria nella formazione del racconto biblico? Un ruolo cruciale, finemente modulato di momento in momento, che determina, nella maggior parte dei casi, la scelta minuziosa delle parole e dei dettagli raccontati, il ritmo della narrazione, i piccoli movimenti del dialogo e un'intera rete di interconnessioni ramificate nel testo. Prima di affrontare le considerazioni teoriche in base alle quali poter spiegare perché debba essere così, e anche le circostanze relative alla storia della ricerca scientifica che hanno impedito una considerazione adeguata di questa dimensione letteraria, sarebbe bene seguire l'operazione di arte narrativa che viene effettuata in un testo biblico. Vorrei proporvi, per l'analisi, una storia che si ritiene interpolata, poiché essa ci offrirà l'opportunità di osservare, da un lato come funziona in se stessa, e dall'altro come interagisce con il materiale narrativo circostante.
Dunque, vorrei trattare della storia di Tamar e Giuda (Gen 38), che è posta fra l'episodio di Giuseppe venduto dai fratelli e quello della comparsa di Giuseppe come schiavo nella casa di Potifar. Questa storia è definita da E. A. Speiser, nel suo eccellente volume della serie Anchor Bible, come una «unità completamente indipendente», «senza connessione con il dramma di Giuseppe, che essa interrompe alla conclusione del primo atto». Ovviamente, come hanno osservato Speiser e altri, l'interpolazione crea un senso di suspence sul destino di Giuseppe, e la sensazione del trascorrere di un certo periodo di tempo, fino a quando Giuseppe farà la sua comparsa in Egitto, ma il fatto che Speiser non ne noti le connessioni intime, grazie ai motivi toccati e all'argomento trattato, con la storia di Giuseppe, mostra quali siano i limiti degli studi biblici convenzionali, persino ai livelli più alti.
Incomincerò con gli ultimi cinque versetti di Genesi 37, al fine di illustrare i legami fra il racconto globale, che fa da cornice, e l'interpolazione. In molti punti la mia traduzione sarà letterale fino alla goffaggine, perché intendo riprodurre le ripetizioni verbali o le peculiarità sintattiche dell'originale, che saranno oggetto della nostra analisi. I fratelli, si ricordi, dopo aver venduto Giuseppe come schiavo, bagnano la sua preziosa tunica nel sangue di un capretto, con l'intenzione di mostrarla poi al padre. «Fecero portare la tunica decorata al padre [si noti l'approccio indiretto, da parte loro, a Giacobbe, che è ancora più marcato nella sintassi ebraica], e dissero: 'Questo [zot] noi abbiamo trovato. Per favore, verifica [hakerna], è la tunica di tuo figlio o no?'» (Gen 37,52). I fratelli stanno bene attenti a far sì che sia l'oggetto da loro utilizzato per ingannare il padre, 'questo [zot]', a mentire per loro - esso li anticipa, letteralmente e sintatticamente-, e naturalmente parlano di Giuseppe come di «tuo figlio»; non ne menzionano il nome, né si riferiscono a lui come al loro fratello. Giacobbe ora ha in mano quanto gli serve per poter recitare, improvvisando, la propria parte: «Egli la riconobbe [wajakirah], e disse: 'La tunica di mio figlio! Una bestia feroce l'ha divorato,/Giuseppe è stato sbranato'» (Gen 37,33).
Haker, il verbo usato per indicare l'atto di riconoscimento (ne riparleremo più diffusamente), già utilizzato dai fratelli all'imperativo, ricorre subito dopo al perfetto, quando Giacobbe . risponde immediatamente, quale vittima inconscia del raggiro orchestrato dai suoi figli. Si noti (non sono sicuro che gli studiosi lo abbiano fatto) che quando Giacobbe, a questo punto, interpreta la tunica insanguinata come conseguenza di una grave disgrazia - di cui i suoi figli non avevano parlato - il suo discorso («Una bestia feroce . .. ») assume la forma di un vero e proprio verso, un chiaro parallelismo semitico con tre accenti ben scanditi in ciascun emistichio: }Jajah ra'ah 'akhaldthu I taro/ toraf Joséf. La poesia è linguaggio elevato, e il passaggio al verso formale fa pensare ad un elemento di drammatizzazione nel modo in cui Giacobbe riprende il messaggio velato sulla presunta morte del figlio e lo declama metricamente davanti agli uditori, costituiti dalla famiglia.
Se queste osservazioni paiono strane e arbitrarie, richiamerei l'attenzione sul come il lutto di Giacobbe è descritto nei due versetti successivi: «Giacobbe si stracciò le vesti, si pose un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto sul figlio per molti giorni. Tutti i suoi figli e le sue figlie cercarono di consolarlo, ma egli non volle essere consolato, dicendo: 'No, io voglio scendere dal figlio mio nel mondo sotterraneo del lutto'; così il padre suo lo pianse» (Gen 37,34-35). In due brevi versetti vengono riportate una mezza dozzina di azioni luttuose, incluso il rifiuto di essere consolato e il discorso diretto, in cui il padre esprime il desiderio di restare in lutto finché non si unirà al figlio nella tomba. (Più tardi, ironicamente, egli 'scenderà' da suo figlio, ma non nello Sheol, il mondo sotterraneo, bensì in Egitto). È difficile considerare tutti questi gesti di lutto meramente come una prassi comune del Medio Oriente, poiché il grado di specificazione e sinonimia va ben oltre le norme che regolano il racconto in sé. Così, proprio pochi versetti prima (Gen 37,29), quando Ruben pensa che Giuseppe sia morto, il suo sincero sentimento di dolore è espresso in termini molto semplici con 'Si stracciò le vesti» - in ebraico due parole soltanto ed una particella. Infine, la peculiarità delle espressioni luttuose di Giacobbe è sottolineata dal verso che segue immediatamente e che conclude l'episodio: «E i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifar, cortigiano del faraone e suo maggiordomo capo» (Gen 37 ,36). Di solito, le traduzioni moderne rendono l'iniziale waw di questo versetto con qualcosa come 'nel frattempo', 'intanto', ma ciò scioglie la voluta ambiguità della paratassi biblica.
In questa forma sintattica, abilmente additiva, lungo la medesima serie ininterrotta nella quale Giacobbe lamenta la presunta morte del figlio, i Madianiti vendono il ragazzo vivo: «E suo padre lo pianse e i Madianiti lo vendettero»; infatti neanche nel testo antico l'intenzione della frase sarebbe risultata chiara. Certo, la sintassi originale indica una qualche opposizione e, forse, un senso di passato remoto del verbo ponendo il soggetto prima del verbo stesso («e i Madianiti lo vendettero»; non è questo l'ordine normale in ebraico) e mutando la forma del verbo quando vengono introdotti i Madianiti. In ogni caso, il passaggio dal lamento di Giacobbe alla vendita di Giuseppe è più slegato [privo di suture] e comunqùe internamente meno collegato, di quanto facciano notare le traduzioni moderne.